Saturno Buttò, corpografie e visioni sacre tra estasi e dolore

L’arte sacra al giorno d’oggi può fare scalpore e dare il via a polemiche sterili e sciocche; è il caso dell’artista veneto Saturno Buttò che cerca di entrare nell’animo umano attraverso la pittura in discontinuità con la tradizione pittorica, sottolineando gli aspetti più sgradevoli ed inquietanti che straniscono chi guarda aspettandosi di trovarsi davanti a un Beato Angelico o Annibale Carracci.

L’artista Saturno Buttò, ph Nicola Casamassima

Buttò sembra sfidare l’appassionato d’arte e non a vedere quello che non vogliamo vedere e che eppure siamo in grado di manifestare ogni giorni inconsapevolmente immersi nella frenesia e nella confusione della società contemporanea. L’artista veneto ci sbatte in faccia la caducità del corpo umano, le manie della mente umana, la pesantezza della nostra anima che si riversa sull’aspetto fisico. Il linguaggio artistico utilizzato da Buttò è magnetico: gotico, bizantino, fiammingo, barocco, nella sua migliore tradizione europea che ricorda artisti come Hugo van der Goes, Rogier van der Weyden, Hans Memling, Jeronymous Bosch per la monumentalità di certe pose e per l’astrazione soprannaturale, fino ad arrivare ad artisti contemporanei come Joel Peter Witkin, Robert Mapplethorpe, Andres Serrano per il modo di concepire la preparazione della tavola come se fosse una scena di un set fotografico e una certa teatralità dello spazio e dei soggetti che lo occupano.

2017 Red Mass, olio su tavola cm. 120×120.

L’intera produzione di Saturno Buttò è una visione di disperazione, dolore, sangue, erotismo, aspirazione verso l’Alto: la rappresentazione della realtà, sviscerata in una rigorosa e contraddittoria iconografia religiosa occidentale nei confronti del corpo, da un lato esibito come oggetto di culto, dall’altro negato nella sua valenza di pura bellezza erotica che promette il paradiso, è anche intesa in senso simbolico da cui scaturisce una tensione che esalta la figura umana presentata una volta con “toni elevati” altre con quelli dell’abbiezione.

VENETIAN MASKS BAUTTA, MORETTA COLOMBINA 2010, olio su tavola 140×100

Le paradossali figure umane di Saturno Buttò, attori e attrici dark della loro indole, potrebbero vagabondare tranquillamente in un romanzo di Dostojevskji o Bulgakov, divisi tra il Bene e il Male, tra voglia di salire al Cielo e quella discendere nel sottosuolo, portando sulle spalle il fardello della libertà che è il vero abisso che affascina tutti: Buttò ci fa vedere quanto siamo attratti dal male, ma la sua scoperta e intellegibilità significa anche vittoria e bellezza tanto cara all’artista, perché possiamo essere certi che il mondo di può conoscere e persino nell’inferno terreno, possiamo vivere di attimi che hanno del miracoloso. Gli uomini e le donne di Buttò sono entità che de-creano, cercando di smarcarsi da menzogne idealizzate per giungere alla verità soprattutto attraverso la sensibilità più che con la ragione. I visi e i corpi dei suoi protagonisti (soprattutto donne a volte illuminate dalla Grazia il più delle volte invece luciferine, richiamano alla mente alcuni versi terribili di Baudelaire: “Ahimè! Tutto è abisso – l’azione, il desiderio, il sogno, la parola! E tra i miei capelli che si rizzano completamente sento passare di frequente il vento del Terrore”.

2012, Pietà Oil on wood, 80×97

Non solo. Come cantava il celebre poeta francese, le tavole (non tele, a dimostrazione che la sua arte vuole inserirsi nella grande tradizione pittorica del Quattrocento, Cinquecento e Seicento) di Buttò sembrano esprimere al contempo un senso di attrazione e repulsione per il mondo contemporaneo e per l’essere umano stesso che è il medesimo da sempre. D’altronde gli incubi hanno origine divina e l’artista di Portogruaro innalza la decadenza mentale che corrisponde a quella fisica, a stato demoniaco che ha la stesso valore sacrale e solennità delle opere bizantine e classiche, mostrando come lo stesso concetto di “sacro” sia ambiguo”. La rappresentazione degradante della sensualità, propria di Baudelaire, e in particolare delle combinazioni donna-desiderio-morte-decomposizione rispondono ad una tradizione cristiana sempr esistita, specialmente verso la fine del Medioevo, che nella personale interpretazione di Buttò diviene rappresentazione di uno sterile appagamento dei sensi dell’uomo contemporaneo in una visione di artificiosità. A differenza di Baudelaire, Buttò è artista divertente e divertito, ludico che ancora non sa se credere o meno, certamente cerca, osserva, è attratto dalla spiritualità come se questa fosse un magnete, e la cupezza religiosa che ha grande potere evocativo, quell’oscurità che ha sempre accompagnato la fede e di conseguenza anche l’arte.

2013 The unnatural human history, Oil on wood, 35×46

Sorprende come un’opera in particolare, ovvero “Blade Lovers” possa richiamare alla mente le parole del poeta maledetto in merito all’amore: “L’amore è molto simile a una tortura o a una operazione chirurgica. Anche se i due amanti sono molto innamorati e colmi di reciproci desideri, uno dei due sarà sempre più calmo o meno invasato dell’altro. Quello, o quella, è l’operatore, ovvero il carnefice; l’altro, o l’altra, l’assoggettato, la vittima”.

L’amore dunque, anche per Buttò può avere sia l’aspetto romantico, dolce, che quello balordo e ubriaco, che ha il colore del sangue, una sete carnale dunque; così come la Natura, seguendo ancora il pensiero di Baudelaire, non ha nulla di bello, è solo caos e abominio divino, contro il quale l’uomo può combattere possedendo lui l’arma della bellezza, la sua bellezza, che è artificio ed imitazione della natura stessa.

2017-Zoe-70×67, Olio su tavola

L’altra componente quasi sempre presente delle opere di Buttò è il sangue che ha valenza sacra, rituale, sessuale, vitale, alimentare. Il sangue, come dice anche la Bibbia è il sostrato materiale della vita del corpo che è a sua volta l’unità di misura dell’artista veneto che si muovo tra purezza e impurità. La vita, di cui il sangue come sostanza è principio, impregna la “carne”, basti pensare che nei primi cinque libri dell’Antico Testamento la parola “carne” è quasi del tutto priva di una connotazione morale negativa, nella misura in cui denota tutta la materia organica dotata di vita.

DEATH AND THE MAIDEN 2020 olio su tavola 70×70 cm

Dati questi elementi, si può affermare che Buttò, riprendendo le parole dell’antropologa Camille Paglia, ignori l’armonia, l’ordine e la bellezza della Natura dietro un apparente caos che chiamiamo tale solo perché non siamo in grado di riconoscere determinati segni, flussi e cicli. Il caos è tutto nella mente e nella visione spesso distorta dell’uomo, che Buttò vestendo spesso i panni del dandy, rappresenta nelle sue sfumature, compresa quella dell’insofferenza verso tutto ciò che è naturale. Anche dietro l’apparente blasfemia e pornografia (che non è una sorella dell’arte, come sostiene l’artista, semmai una banale deriva che prende chi non sa fare Arte anche un urinatoio) delle opere di Buttò. Si legge dunque un desiderio di veicolare bellezza, ironia e gioia di vivere, dando voce alle pulsioni e ai mutamenti (anche sessuali) dell’uomo, persino del santo, del martire, ai suoi riti primitivi e quotidiani, alle ierogamie, alle messe nere, lasciandoci con almeno un paio di domande: l’estasi religiosa è anche un’esperienza sessuale che è semplicemente una prova che si è vivi? Bisogna davvero annientare il proprio corpo per avvicinarsi a Dio? E una quasi certezza: il mondo sotterraneo, buio e pauroso non è la sede del male e delle tenebre, ma anche in esso vive la nostra anima. Ciò che sta sotto non sempre è sinonimo di degrado, ma può significare semplicemente profondità. Quella profondità che non capiamo da dove provenga ma che ci fa vivere anche “involontariamente” come ci mostrano molti dei personaggi di Buttò che hanno la “tentazione di esistere”, per dirla alla Cioran e come Cioran, l’artista veneto, esorcizza i nostri fantasmi, sublimandole tenebre per approdare all’amore, profumando i protagonisti delle sue opere, che apparentemente sanno di marcio, incastonandoli nella solennità dell’arte metafisica e nella bellezza del soprannaturale.

2019, RH negative, Oil on board – 70 x 70 cm

La carriera espositiva di Buttò comincia nel 1993, anno in cui viene pubblicata anche la sua prima monografia “Ritratti da Saturno: 1989-1992″. Da allora seguono numerose esposizioni personali in Italia, Europa e negli Stati Uniti. Oltre ad altri due volumi monografici “Opere 1993-1999″ e “Martyrologium” (2007), la galleria Mondo Bizzarro di Roma in occasione della recente mostra ha pubblicato l’ultimo catalogo in ordine di tempo: “Blood is my favourite color” (2012).

Chiara nails-2010-Oil on wood cm. 100×70

 

 

 

1 Cosa l’ha spinta verso l’arte sacra?

Il sacro è prima di tutto un interesse legato alla nostra cultura e al senso di appartenenza piuttosto che alla devozione in sé. Inoltre la spiritualità, nel mio lavoro, è una parte della ricerca che vuole indagare sulla natura umana nella sua completezza. Tuttavia credo di aver avuto, da sempre, una certa “attitudine” per il trascendente. Sono affascinato dalla liturgia cristiana, il suo cerimoniale, la musica sacra. Insomma la monumentalità espressa nel rito liturgico. Poi, naturalmente, c’è l’arte figurativa, italiana ed europea quella che va dal ‘400 al ‘600 che, per quanto mi riguarda, ha dato un contributo essenziale in questa direzione.

 

2 C’è più luce o oscurità ad avvolgere il il sacro e la fede religiosa?

Ancora oggi io non riesco capire se sono un credente oppure no. Rimane il fatto che questo “mistero della fede” è un’altra grande questione che alimenta il mio immaginario. Non dimentichiamo che è il mistero e tutto ciò che non conosciamo a renderci curiosi. Senz’altro ci vedo più oscurità che luce nel fenomeno in sé . Questo perché non ho una grande considerazione dell’uomo, in generale. Al di là di una personale e intima spiritualità, spesso non ben definita, nella religione ci vedo tutte le “debolezze” di una politica coercitiva. Probabilmente necessaria, ma assolutamente troppo invasiva. Dove, di fatto, non c’è coerenza, anzi, dove ci sono tante contraddizioni. Tuttavia è anche proprio in questa “oscurità” che la mia immaginazione trova alimento… é in un contesto così poco trasparente che nascono e si rinnovano continuamente le idee, che si rivelano essere esercizi di emancipazione. Io lo devo ammettere, la “cupezza” della nostra religione è stata sempre molto evocativa.

3 Cosa considera sacro l’uomo contemporaneo e perché?

Non sono un sociologo, ma, per quello che vale, posso esprimere la mia opinione sulla base di quello che percepisco quotidianamente. Ormai l’informazione e in un qualche modo la cultura sono appannaggio dei più. Questo ridimensiona molto il senso del sacro tradizionale. Oggi si tende a celebrare l’idolo più del dio. Non è particolarmente edificante come condizione, ma basta osservare le tendenze giovanili per capire che c’è più attenzione verso una rock star che per Gesù. Insomma io vedo una graduale e continua disgregazione dei valori sacri e la colpa è anche della chiesa che non si apre mai abbastanza in fretta ai cambiamenti sociali.

2020 – Surgical Decoration-60×60 oil on board

 

4 Le sue opere traboccano si sensualità, inquietudine, gusto per il gotico e per il grottesco, ma anche di spiritualità e ricerca di profondità e del definito, in questo modo vuole solo rappresentare la figura umana di oggi o la sua è una riflessione sull’uomo di ogni tempo?

La mia vorrebbe essere una riflessione sull’uomo nella sua completezza, non considero la natura umana così diversa nel tempo. I temi dominanti rimangono sempre gli stessi e primi fra tutti sessualità e spiritualità, appunto. Tuttavia io vivo il mio tempo storico. E dunque mi pongo in relazione al soggetto attraverso tutte le implicazioni possibili oggi. Nel dipingere una figura umana contemplo la sua personalità insieme all’archetipo, questa osservazione genera una condizione di identità e identificazione che ne determina la contemporaneità!

5 I suoi personaggi sono in tensione tra Alto e Basso, tra erotismo e dolore, purezza e degrado. È

questo per lei il sublime artistico?

Direi assolutamente si! Diversamente agirei con altre forme e contenuti. Come accennavo sopra la priorità è determinare una contemporaneità nell’esecuzione di un opera e questo si manifesta (nel mio caso) con una visione a 360 gradi sull’individuo. Contemplandone ogni dettaglio, per quanto disturbante. Una formula obbligata se non si vuole scadere in una sorta di arte decorativa fine a se stessa.

6 Quali artisti l’hanno influenzata maggiormente?

L’arte ellenistica, il nostro rinascimento e in qualche modo il glamour Hollywoodiano sono stati un grande stimolo per la mia ricerca. Devo aggiungere anche alcuni fotografi contemporanei: Joel Peter Witkin, Robert Mapplethorpe, Andres Serrano sono stati di ispirazione per il mio lavoro. Non ho trovato invece riferimenti nella pittura del ‘900. Fatta eccezione per Francis Bacon non mi sono mai sentito particolarmente interessato verso altri artisti figurativi. In sintesi il modello sul quale baso il mio lavoro è un connubio tra l’arte classica (supporto tecnico) e una ricerca fotografica non documentaristica (parte concettuale).

Icon of virtue ,oil on wood 70×70

7 L’arte contemporanea che ha successo è solo quella riproducibile e concettuale?

Io direi proprio di sì. Ed è giusto che sia così. Lo affermo mio malgrado, dal momento che la mia ricerca va in direzione opposta. Ritengo cioè un punto alto l’unicità e non riproducibilità dell’opera. Purtroppo il problema di questi media (mi riferisco a pittura e scultura) è, quasi sempre, la totale mancanza di originalità, di contemporaneità della rappresentazione. Una sorta di anacronismo che permea il lavoro di pittori e scultori tradizionali, concentrati perlopiù a dimostrare la loro bravura tecnica piuttosto che rischiare l’impopolarità inseguendo percorsi più originali. Ci sono delle eccezioni (almeno lo spero, naturalmente), ma è un po’ come è successo nel secolo scorso con Lucien Freud, Balthus, Bacon stesso. Pochi artisti di grande personalità semplicemente “non allineati” e dunque ingestibili da un sistema che si basa sui numeri del mercato dell’arte.

2020 La sposa ebbra 120×120

8 Ne “La sposa ebbra” sembra consumarsi un rito laico dove il vino rende possibile l’estasi cristiana delle sante che però assume risvolti bizzarri…

In un qualche modo lo si potrebbe leggere anche così. Del resto è mia opinione che molti siano i punti in comune tra Paganesimo e Cristianesimo. In questo caso, dal sacramento del matrimonio, la sposa e le due damigelle si trasformano in sacerdotessa e baccanti di chissà quale rituale, grazie al vino. Il mio intento era quello di manifestare una idiosincrasia verso le regole in generale. Molto sinteticamente: il caos dionisiaco che prende il sopravvento sull’ordine apollineo.

9 L’arte contemporanea esprime poetiche complesse proprio nel superamento interdisciplinare delle dicotomie tra uomo e tecnologia. Lei come si pone di fronte a questo fenomeno?

E’ prerogativa dell’arte anticipare cambiamenti e mutazioni di ordine sociale. Sempre di più siamo testimoni di un percorso nuovo intrapreso dall’umanità che ci porterà a convivere con situazioni dove la dicotomia uomo-tecnologia non sarà più tale. E’ una riflessione che mi accompagna da molto tempo, tuttavia non credo di avere gli strumenti tecnici adatti per esprimere compiutamente tale fenomeno. Decisamente i media extra-pittorici si riveleranno più adatti. Con l’arte figurativa per non scadere in “banali soluzioni illustrative” bisogna porre l’attenzione a piccoli dettagli capaci di far intuire tali poetiche. Un percorso più difficile, ma non improbabile… In fondo è proprio questo il problema delle arti tradizionali rispetto ai nuovi media, lo stesso concetto espresso poco sopra. Se non si è capito, io sono decisamente critico nei confronti dell’arte figurativa. Compresa la mia s’intende.

10 Cos’è per lei il corpo? Il Cristianesimo è l’unica religione secondo la quale a risorgere saranno anche i corpi, tanto che un teologo di cui non ricordo il nome sosteneva che se si vuole sapere se una persona è davvero cristiana bisogna chiederle se questi crede alla resurrezione dei corpi o all’immortalità dell’anima, la Bibbia pullula di erotismo. Insomma il corpo siamo noi? È la nostra  identità che la contemporaneità indica come un retaggio culturale, una sovrastruttura, che si può cambiare?

Il corpo è la mia unità di misura! Nel mio lavoro mi sono sempre rapportato al corpo, prima (in quanto forma) e solo dopo alla mente (deve essere per deformazione professionale). I vari detti popolari tipo: “Mens sana in corpore sano” non sono poi buttati lì a caso. Dunque per me è il punto di partenza, senza il quale mi sentirei incapace di pensare in termini creativi. Naturalmente il corpo è anche bellezza, rivelazione, desiderio e mistero (ancora una volta). Il Cristianesimo è la religione del corpo, ed io nutro una profonda riconoscenza, proprio in virtù del fatto che essa lo ha celebrato e reso oltremodo iconico. Un percorso iniziato dai greci che caratterizza l’occidente nella sua visione del mondo in cui io, semplicemente, mi riconosco. Detto questo però non oso affermare che il “corpo siamo noi”. Non ho e non ci sono certezze e qui ritorniamo al “mistero della fede” sopra espressa. Posso invece aggiungere che il corpo umano si modificherà! Come tutto del resto del creato, anche noi viviamo in una continua trasformazione. Forse qualcosa di importante in questa direzione è già iniziato, prevedo una fusione tra generi maschile e femminile relativamente presto. Sempre che si riesca a salvare il pianeta nel frattempo.

Damson e Lola 2-2003- Oil + gold on wood cm. 160×100

11 I protagonisti delle sue opere sembrano essere spiate più che accompagnare, guardate con amorevolezza da Dio, è in parte così?

Ma certamente! Questo è un retaggio della religione cattolica che ci ha inculcato idea del peccato. Cosa che trovo stimolante sia ben chiaro. Anche perché poi viene contemplato il perdono, seppur dopo un sincero pentimento e qui si potrebbe discutere… Comunque sia, le mie rappresentazioni hanno, molto spesso, a che fare con un rituali considerati peccaminosi o comunque con pratiche decisamente intime legate sia alla religiosità che alla sessualità. Questa è la ragione per cui le scene si svolgono in ambiti dove non c’è luce naturale. Stanze chiuse, luce controllata artificialmente, una messa in scena quasi teatrale dove i protagonisti compiono un determinato rituale, intimo perlopiù, forse rivolto a pochi iniziati… in definitiva è la giusta osservazione da fare: il fruitore diventa un privilegiato voyeur intento “spiare” ciò che nell’opera sta accadendo.

12 L’esposizione che l’ha gratificata di più?

Ci sarebbero più esposizioni personali a cui sono particolarmente legato da bei ricordi, a Roma, Los Angeles e San Francisco. Ma citerò la personale di Spinea VE del 2018, perché la location era speciale. Non una galleria ma una chiesetta del ‘600 dove le mie opere dialogavano con gli affreschi del luogo. Inoltre per l’occasione ho realizzato quella che per me potrebbe rivelarsi come l’unica pala d’altare possibile “Paradise Decadence” (giusto perché si trattava di una chiesa sconsacrata).

13 Le sue tavole paiono volerci dire: accettare il Mistero della fede, della Vita, solo così possiamo in parte placare le nostre ossessioni e relazionarci a Dio, in tal senso, il tormento è un passaggio necessario?

Difficile rapportarsi alla vita escludendo tormenti interiori. Però possiamo ironizzare…

14 Cosa pensa dia più fastidio o irriti delle sue opere e cosa vorrebbe irritasse di più in senso positivo, smuovendo qualcosa in chi li osserva?

Credo che le persone, ancora oggi, si aspettano di osservare in un dipinto figurativo temi conformi alla tradizione pittorica. Dunque soggetti come il paesaggio, la natura morta e il ritratto. E nel caso di quest’ultimo, che esso sia sostanzialmente “composto”. Delegando alla fotografia o altri media extra-pittorici diciamo così, “tematiche diverse”. A me invece diverte l’idea di toccare corde più profonde, dipingendo! Escludendo paesaggi e nature morte che non mi appartengono, nel rappresentare la figura umana voglio entrare nel profondo dell’anima. Mettere in rilievo aspetti del tutto personali, intimi. Evidenziarne fragilità e debolezze. Il desiderio, la libido, le parafilie. Sottolineare la transitorietà e caducità dell’aspetto fisico. E, soprattutto, ribadire quanto siano vicine tematiche come la sessualità e la spiritualità. E’ del tutto normale che qualcuno trovi disturbante il mio modo di rappresentare il mondo. Ma a me sta bene così! Sono in pace con me stesso e non mi interessa il giudizio. Sono consapevole di quanto tutto sia estremamente relativo.

15 Qual è il suo archetipo preferito?

Mi viene in mente “La Grande Madre” e l’origine della bellezza. Che poi è anche l’origine dell’arte. Cito Camille Paglia: “Tutto ha inizio dalla natura ctonia, dal culto terrestre della Grande Madre! In natura non c’è nulla di bello. La natura è un potere elementare, rude e caotico. La bellezza è la nostra arma contro la natura: per mezzo di essa facciamo oggetti e diamo loro un limite, simmetria e proporzione. La bellezza arresta e raggela il flusso turbolento della natura.” Mi affascina!

16 Prossimi impegni?

In termini di programmi espositivi poco o nulla a causa della pandemia in corso. Sto pensando ad un nuovo catalogo monografico e presentarlo, magari, in contemporanea ad una personale. In studio procedo con il mio programma lavorativo sempre incentrato sulla produzione di tavole ad olio che, malgrado tutto, prosegue con discreta continuità.

Davide Brullo, scrittore viscerale, tra visioni, Bibbia, mistificazione, letteratura russa e crudeltà

Lo scrittore e giornalista milanese Davide Brullo, classe 1979, possiede oltre a una grande sensibilità e lucidità critica, una fede autentica nella parola e in Dio e una cultura “anarchica”. Le icone sacre hanno un effetto magnetico su di lui, magnetismo che trasferisce nei suoi libri, insieme ad profondo conoscenza dei testi sacri e della patristica. Ma la poetica di Brullo, che non ama dirsi fedele a Dio perché troppo imperfetto, coltivando in questo modo l’illusione di una maggiore intimità del sacro, non è tutta qui. Nelle sue opere letterarie scorrono sangue e passione che danno potenza a visioni, immagini, icone e si respira un’atmosfera nera, nefasta, che avvolge il lettore che vuole avventurarsi in una storia crudele ma intellettualmente onesta pur nella sua finzione e artificio, perché ormai allo scrittore contemporaneo non resta che gareggiare con la realtà come dimostrano i libri Pseudo-Paolo. Lettera di san Paolo apostolo a san Pietro, Un alfabeto nella neve, I Salmi, Rinuncio. La penna di Brullo è una lama onestissima e affilata che affonda nella carne e nello spirito dell’uomo e affonda le proprie radici nella Bibbia e nella letteratura russa, soprattutto quella mistica di Dostojevskij, con buona pace di Nabokov che definisce “un elegante spaccone” inabissandosi nella parola, alla quale è devoto.

La scrittura di Brullo ha in sé qualcosa di eterno, di apocalittico, di falso a fin di bene, perché ha a che fare con i ricordi e con il perdono di Dio, che pur tentando di confondere e turbare il lettore, cerca di dare delle risposte, anche se non sono consolanti. In lui convivono pars costruens e in più larga misura pars destruens, rose e letame. L’inquietudine e l’aggressività retorico-mistica dello scrittore che trasferisce nelle proprie pagine, diventa simbolismo di un linguaggio che cerca e ragiona su se stesso attraverso metafore opposte che mettono in piedi una letteratura che sia urla, ululati, silenzi, affronti, stimmate, angeli (tremendi) e creature sublimi, e che soprattutto ci dice che si scrive per uccidere il passato, sgravare il peso dei ricordi che ci fanno soffrire, ma proprio nella privazione di una gioia, di una persona, nell’innaturalezza, si può creare uno spazio metafisico dove amare e persino accettare l’assenza come riparazione e dimostrazione di coraggio. Proponendo questo, Brullo sfida il lettore a misurarsi con la propria ombra, perché l’ombra è qualcuno.

“Ogni ritorno è un indizio di morte. Si ha voglia di incontrare chi abbiamo amato molti anni prima per capire qualcosa di noi che ora è perduto. Per questo, ogni ritorno è una sconfitta – le origini esistono perché abbiamo la forza, confusa e viziata, di allontanarcene. Quando non si ha più la costanza di penetrare lo sconosciuto per tornare sui propri passi, per abitare nella casa bruciata dalla memoria, si è morti – vivi come una candela che delizia la volontà dei morti”.

 

1 Cos’è per lei la Letteratura? In Italia si fa Letteratura oggi?

La letteratura è indipendente dai letterati: non si fa, avviene, lungo le volute dei millenni. Poi sfiaterà, come un sibilo – spesso immagino le lettere come conchiglie, come figure vive, come linci. Dentro questo bestiario, bestia pure lui, si muove lo scrittore. Oggi siamo in un tempo, mi pare, in cui per trovare una parola pienamente umana, occorre espirare l’uomo – delegare il verbo al ringhio. Cosa sia questo, mi è ignoto.

2 Quali sono secondo Lei, i libri imprescindibili, a parte la Bibbia?

Facile filare un canone che da Isaia proceda per la follia di Lear, la camminata del viandante stellare, Dante, la gita sul dorso del capodoglio bianco. Agli imprescindibili, ormai, preferisco i nascosti: libri remoti, che appaiono come una stellata, inattesi. Parole, forse, innecessarie, ma che turbano come aghi di fuoco negli occhi. A volte un ignoto eremita irlandese o uno storico di Bisanzio mi sembrano illuminati. Altre, torno a Saint-John Perse, a Rilke, a Dylan Thomas come si sta su una casa sospesa sui rami.

3 L’Occidente è veramente povero di valori, vicino al collasso, o la trova una lettura superficiale che sta diventando un motto infantile? C’è qualcosa di Vero e sacro nel senso cristiano del termine che pulsa nell’epoca che stiamo vivendo?

Siamo nati nell’era del Dio morto, moribondo, decapitato – non possiamo fare altro. Penetriamo nel cadavere di un dio. Dell’Occidente non so nulla e nulla so di valore e di valuta. So che mi scopro a inginocchiarmi davanti all’icona di una Madre o di un Figlio, con un magnetismo che non oso dire fede, in chiese, fortunatamente, vuote, ed è come stare sott’acqua, nella sottana del silenzio, affogando.

4 Cos’è la parola, come può rinnovarsi nel tempo?

Da poco ho scoperto – mi è stato detto – che “Brullo” è un verbo greco, raro, testimoniato soltanto ne I cavalieri di Aristofane. Significa “fare bru (come i bambini che chiedono da bere)”. Eccola, la parola! Bru, bru, bru. Chiedere da bere.

5 Nabokov non nutriva simpatia per Dostojevkij,, in quanto lo considerava scrittore di idee. Non trova che la concezione della letteratura dell’autore di Lolita sia alquanto inconclusa. Non bisognerebbe contrastare le ideologie, le generalizzazioni finendo per estremizzate il valore autonomo di un libro?

A Nabokov era permesso dire qualsiasi cosa: è corroborante leggere come disseziona, con aggraziato cinismo, i grandi o presunti tali. Insegna ad affilare la mente, a essere, finalmente, crudeli. D’altronde, i libri sono lì per farne macelleria. Tuttavia io preferisco di gran lunga Dostojevkij.

6 Secondo lei può essere “compito” dello scrittore per i cosiddetti “lettori forti” saper coinvolgere anche il cattivo lettore, di cui Nabokov è nemico o chi fa parte degli eletti deve solo lodarsi delle proprie buone riuscite, in virtù del fatto che la letteratura è un’arte spuria?

L’unico compito dello scrittore – se vogliamo usare una parola simile, legata al calcolo – è scrivere un’opera come si forgia una sedia. Come può, con anomala dedizione, fino a spaccarsi le dita, che altri, eventualmente, rappezzeranno. Il resto, il lettore, chi si siede sulla sedia, non è affar suo.

7 Quanto è importante secondo lei considerare i fattori extra testuali ai fini di una migliore comprensione dell’opera letteraria? Quanto conta l’empatia per lo scrittore?

Bisognerebbe capire di cosa è specchio l’opera. Che fa lo scrittore, scrivendo? Si pugnala la faccia, si fa mostro, o la trucca, dà di sé una immagine di esagerato splendore? In ogni caso, lo scrittore è uno che mente – e un mentitore non è una buona persona. D’altra parte, apprezzo la certezza di Nicola Crocetti, l’editore, per cui un grande poeta è anche un grande uomo. Amo la grande poesia; e i grandi uomini. Ma non saprei riempire di senso l’aggettivo “grande”.

8 «Nessun artista tollera il reale», diceva Nietzsche. Tuttavia nessun artista può fare a meno del reale. Lei come la pensa?

Il reale è intollerabile, perché è reale solo ciò che sembra non esserlo. Cos’è la realtà? L’evidenza delle cose? La loro ombra? L’avvenuto? L’avvenire? La combinazione del caos con la provvidenza? Quando crea, lo scrittore combatte il mondo, trama oro nella sua agonia.

9 Chi sono i più grandi ribelli della letteratura?

Beh, ogni scrittore è ribelle: si ribella alle norme della grammatica, all’egida del vocabolario. Si ribella all’evidenza, alla storia, a se stesso, all’uomo. Il retro di una scrittura pacificata è l’assassinio di sé. Per il resto, una “vita da romanzo” è altro da un grande romanzo.

10 Lei crede di confondere o di dare delle risposte a chi la legge?

Il privilegio della letteratura è che è il solo spazio concesso in cui non c’è nulla da capire, da spiegare, da risolvere: è come passeggiare di notte inseguendo una litania ignota. Forse cadremo in un burrone, entreremo in mare, saremo accerchiati dalle iene. Ma è bello stare in quel ritmo.

11 Al centro del suo romanzo Un alfabeto della neve, lei mette al centro il prezioso carteggio tra Pasternack e Marina Cvetaeva, amanti a distanza, dimostrando di essere un abilissimo mistificatore, facendo resuscitare testi, scoprendo documenti inediti o inventandoseli, mentre scandaglia l’animo degli artisti. Questo perché ormai non è rimasto altro a chi vuole scrivere seriamente, che non gareggiare con la realtà? E quanto le piace appropriarsi persino nell’animo di uno scrittore e perché?

Infine, quella scrittura è un sudario sul volto di alcuni spettri. La mistificazione è la formula necessaria per fissare la folgore del vero. In particolare, il libro cui accenna fa parte di un ciclo, dedicato al tradimento. In qualche modo, si opera cancellando un testo, per rivelare la ferita originaria, l’alfabeto ulteriore.

12 Perché l’autore del Dottor Zivago non ha avuto fortuna in Russia?

In verità, Boris Pasternak è stato il poeta più eminente del suo tempo. Per un gioco del caso – e la macchinazione di alcuni – proprio lui, un estraneo, uno che come i re camminava senza fare rumore nella foresta, ha avuto la parte del simbolo. Ne è morto – diventando immortale.

13 L’arte deve essere intransigente verso la Storia? Deve stravolgerla in qualche modo?

L’arte è impotente – e in questa impotenza è la sua forza. Un governo degli artisti sarebbe affascinante per eccesso di terrore, di capriccio. Ghigliottine con deliziosi sonetti incisi sulla lama. L’artista, piuttosto, è una sentinella nella notte: richiama l’alba, la prende per la coda come fosse un varano.

14 Anche in Pseudo-Paolo. Lettera di san Paolo apostolo a san Pietro, Lei inventa una falsa lettera di San Paolo a Pietro, come nasce questa idea di intrufolarsi anche nella tradizione cristiana per provare a costruire una nuova teologia?

L’esperimento è narrativo, di teologia non mi curo. Ho la Città di Dio sul comodino: leggo con rispetto, divertimento, timore. Da ragazzo, ho avuto la sorte di laurearmi in Letteratura cristiana antica. Ho fatto una tesi sulle “lingue degli angeli”, certo di poterle praticare. Mio padre è morto con una Bibbia sul tavolo della cucina, aperta su un Salmo che non ricordo, forse il 16, amato tanto da Paul Celan, eppure non salvifico. La traduzione di quella Bibbia era valdese. Da lì discende il mio libro.

16 Lei ha detto che “Maradona è l’imperatore che ha reso il calcio un culto, specie di Eliogabalo, di Dioniso sdraiato sulla tigre”. Il calcio di Maradona può essere paragonato alla poesia, all’arte o è un azzardo, un’eresia, in quanto l’arte è materia Alta, il calcio solo un divertimento intorno al quale girano molti soldi, secondo molti?

Il gesto sportivo, torsione sopraffina, è arte – e l’arte, in verità, è alta per difetto di bassezza, per amore del sottosuolo e dell’informe. La poesia di Pindaro s’incarna nella competizione sportiva perché lì, a dispetto della statistica, accade il sacro, si scopre la natura dell’uomo, il favore del dio. Lo stadio di Olimpia è una basilica, vive del respiro di Delfi. Il dio, però, accenna e vive l’istante: così l’atto sportivo vive il transitorio, bava d’oro sull’argine del caos. Maradona è morto; Rilke è ancora qui.

17 Cosa pensa di una delle parole più usate del momento, ovvero del femminicidio? Non la trova una cacofonia, e perché non si parla semplicemente di omicidio? Perché si dovrebbe considerare il femminicidio più grave rispetto all’assassinio di un uomo, quando le violenze più efferate riguardano i bambini, gli anziani e i disabili? Non sarebbe più opportuno interrogarci sulla natura della violenza che appartiene ad entrambi i sessi e sul perché non la si riesce a controllare, sul possesso, sulla gelosia, sulla fragilità umana? Non si instaura così con le manifestazioni e slogan banali, una guerra tra uomini e donne?

Mi piace scoscendere nel vocabolario, tra parole che non comprendo e lingue che mi suonano ostili. Il linguaggio di questa parte di mondo non lo capisco più: eppure, gli uomini sono ancora di carne, non hanno frisbee di metallo sul cranio. È strano: faccio il giornalista e sul “femminicidio” dovrei dire qualcosa di alto rispetto all’orrore che traduce quella parola. So, ad esempio, che una stanza può chiudersi sul corpo della vittima come un pugno, che le relazioni umane, troppo spesso, sono un inghiottitoio, un buio a uncini, il cupo rimbombo del pianto, il corpo massacrato. Le lacrime possono essere rasoi. Anche le famiglie, a volte, sono un incubo. A volte, bisogna liberarsi perfino della propria ‘umanità’. Ma sono uno che passa in punta di piedi tra i ruderi di questo tempo, affascinante, per molti versi, perché si sente l’odore di aspirazioni definitive e terribili. Leggo le nuvole, armo una disciplina, cerco di non fare del male al prossimo – ma pare inevitabile. Rincorro il tremendo.

 

 

Sergio Padovani, il senso del sacro come condizione intrinseca dell’uomo

Tommaso d’Aquino affermava che le immagini di arte sacra sono “figure di cose corporee” e che “il raggio della Divina Rivelazione non viene distrutto dalle figure sensibili con le quali viene velato”. Oggi molti artisti cercano di confrontarsi con l’arte sacra senza tenere presente gli elementi principali che le danno vita, producendo opere che non hanno l’elemento teologico spirituale, ma sono solo un’effimera se non irriverente e inconsapevole raffigurazione del sacro.

Non è certamente il caso di Sergio Padovani, artista modenese, il quale per diversi anni è stato musicista nella sperimentazione e nella ricerca. Autodidatta, nel 2011 è stato selezionato per la 54° Biennale di Venezia, Padiglione Italia, sezione regionale Torino e nel 2016 per la Biennale del Disegno di Rimini. Nel corso del suo percorso artistico ha vinto il Premio Arte, il Premio Arte Laguna, il Premio Wannabee e il Premio Yicca. Le sue opere sono presenti in importanti collezioni in Italia e in Europa e in permanenza presso il Museo Diocesano d’Arte Sacra di Imola, al MACS di Catania, alla Galleria Estense di Modena, al Museo Ruggi d’Aragona.

Osservando le opere di Padovani si ha la sensazione di essere davanti ai fotogrammi di Faust, film premiato al Festival di Venezia nel 2011 di Sokurov che riflette sull’errare umano. Difatti Padovani, autore del Polittico dei vulnerabilimiserabili, raffigura presenze ingombranti ed esibizioniste che si fanno spazio per affermarsi anche nel mercato dell’arte. Esse si muovono con difficoltà in una danza macabra (che magari ha per sottofondo La ballata degli impiccati di De André) che somiglia a un viaggio picaresco in cui siamo trascinati, coinvolti in un perpetuum mobile, in una sintesi visionaria di grande impatto, come si può notare nell’opera La casa che arde viva, da considerarsi una sorta di manifesto della nostra epoca dove l’esaltazione di formule vuote come “I tempi cambiano” regna sovrana, infatti non si sa cosa stia bruciando, cosa ci sia di prezioso in quella casa, che è il nostro mondo, la nostra società, ma tutti sentono puzza di bruciato.

L’umanità di Padovani è spesso surreale e bizzarra, un insieme di rovine da visitare, addentrandosi nei simboli, nella corposità dei colori. Padovani fonde tradizione e innovazione, temi iconografici tardo-medievali e realtà contemporanea, esplicando la trascendenza come sentimento umano, avvalendosi di materiali quali resina e bitume per mostrare come epoche lontane possano toccarsi.

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 Le sue opere per lo più richiamano alla mente l’arte medievale nel suo aspetto più oscuro e macabro. Cosa la affascina di più dell’arte medievale?
 Lo spirito contemporaneo e la sua funzionalità. L’arte medioevale è stata uno specchio reale dei principali avvenimenti religiosi e politico-sociali, per non parlare degli accadimenti storici, su tutti la Peste del 1346. L’Artista medioevale aveva la funzione quasi “artigianale” di creare opere funzionali non semplicemente da ammirare: dovevano essere comunicazioni e descrizioni del presente, intrise del sentimento generale, utili a comprendere il momento da ogni tipo di classe sociale. Quello che amo di più è quando questo tipo di arte si impossessa del fatto storico e quasi perentoriamente lo trascina in un sentiero ricco di visionarietà, superstizione, credenze, luoghi comuni, lo riconduce senza sconti al feroce, volubile, fantasioso e impietoso linguaggio del popolo. Mi sembra un “innesco” creativo e moderno, più che mai attuale anche nel 2020.

Che rapporto ha con la morte?
Un ottimo rapporto. Non lo dico scherzando. Subisco una sincera dicotomia: da un lato le mille domande che temiamo morbosamente tipiche della materia ignota (quando sarà, perché, come, cosa succederà dopo, ecc), dall’altro le mille domande illuminanti che stimolano la nostra vita, tipiche della medesima materia ignota (che potrebbero essere, ovviamente, le stesse) e che, nel mio caso, sono fonte di creazione incessante. Siamo esseri mortali e l’unico modo di trovare un trait d’union col nostro peregrinare credo sia impossessarsi del concetto della propria mortalità. Ha senso convivere con la morte proprio perché, chiamando in causa De André “la morte non muore mai”.

Quali artisti secondo lei hanno meglio rappresentato la morte?
Ne potrei nominare tantissimi, specialmente tra quelli facilmente ritrovabili nella mia pittura. Ma mi sento di citare alcuni, a cavallo dei tempi e degli stili, tra quelli meno visibili nel mio lavoro, ma la cui influenza, è ugualmente fondamentale: Jacopo Ligozzi, Hans Baldung Grien, Alfred Kubin, Herbert Boeckl, Paul Delvaux.

I personaggi delle sue opere rappresentano vere e proprie storie in cui si percepisce l’intervento divino. Cos’è per lei la trascendenza?
Molto prosaicamente potrei rispondere che è la percezione determinante e necessaria per cui un avvenimento o, appunto, una storia rappresentata, trovi la sua reale spiegazione. In fondo tutti noi pensiamo, anche inconsciamente, che qualcosa della nostra vita capiti sempre al di là della nostra volontà, che sia immanente o trascendente non importa: è un sentimento umano. Ecco, credo che la trascendenza per me sia un potente sentimento umano.

la casa che arde viva, olio, bitume, resina su tela, 110X70 cm, 2019

Come vede l’arte sacra oggi?
Ne vedo una collocazione più estetica che funzionale. E sicuramente molto meno logica rispetto al senso che aveva quella di Beato Angelico o Duccio di Buoninsegna, giusto per fare un esempio. Io stesso, ogni qual volta mi avvicino al sacro lo faccio in una condizione inevitabilmente soggiogata dall’illustre tema pittorico. Credo fermamente che sia il compito dell’artista contemporaneo fare i conti con le precedenti scuole di pensiero e le derivanti tematiche. Nel mio caso il senso del sacro nei dipinti è essenziale tramandarlo come condizione intrinseca dell’uomo all’interno del suo cammino. Anche come personaggio all’interno di un quadro. In moltissima, enorme pittura trovo la sacralità non manifesta, anche quindi dove non dovrebbe esserci: basti pensare ad opere come Il 3 maggio 1808 di Goya.

Chi sono i vulnerabili miserabili nel mondo dell’arte contemporanea?
Sono presenze ingombranti che si trascinano all’interno di mondi che fanno propri, divorandoli dall’interno. Da de André passo a Gaber e dico che “farsi largo galleggiando” diventa per loro condizione imprescindibile. Migliaia di foto in posa con l’opera, di cosiddetti “work in progress”, di opere riprodotte in serie non per cifra stilistica ma per cifra economica, di tele bianche che aspettano di essere dipinte ma che, in qualche modo, per il solo fatto di essere posizionate in uno studio, devono comunque risultare “interessanti” agli occhi delle comunità social, sembra essere la modalità prima per diffondere arte oramai dovunque; ma la trovo frutto di una concezione di divulgazione artistica estremamente vulnerabile rispetto a quella di chi ci ha preceduto, e, spesso, la vulnerabilità porta a trovare il peggio di noi, traducendosi in una miserrima ed inutile esibizione. Una cosa è divulgare il proprio lavoro, un’altra è divulgare sé stessi.

Visto il suo passato da musicista, crede di tradurre le note in colori e figure? Riesce a esprimersi meglio nell’ambito artistico?
No, non credo di farlo. Anche se il rapporto tra la mia musica e i miei quadri è assolutamente stabile, l’unico collegamento reale è l’approccio alla materia. Come in musica la sperimentazione era il corpus dell’insieme, anche sulla tela lo sperimentare senza previsioni o disegni preparatori diventa il senso definitivo. Quindi, in un certo senso, essere stato musicista ha contribuito a farmi capire meglio la mia direzione pittorica.

Le sue opere sono sfuggenti, corpose, deformate, mortifere. È l’allegoria occidentale del nostro modo di vedere il Cristianesimo come una religione a cui si dà sempre meno importanza e che in fondo non dà fastidio?
Forse, da qualche parte, c’è dentro anche quello. Non solamente. Le mie pitture le vedo come imbuti capienti dove tutto quello che mi contagia trova fluidità e amalgama. Preconizzare la mia pittura è più importante quasi del dipingerla, in questo senso la mia testimonianza da contemporaneo si aggrappa al circostante (di ogni tipo e forma) per trascinarlo in questi imbuti e poterlo ricucire una volta uscito.

L’esposizione che l’ha emozionata di più e le ha dato consapevolezza del suo talento?
Più che del mio talento ho la consapevolezza di fare quello che mi piace e come più mi piace farlo. Mi interessa solamente capire dove tutto questo mi condurrà, nel bene o nel male. L’esposizione che mi ha coinvolto maggiormente, a oggi, è stata la mia ultima personale “L’invasione” a cura di Camillo Langone, negli incredibili spazi di The Bank Contemporary Art Collection a Bassano del Grappa. Emozionante non solo per la felice conclusione di un intensissimo periodo pittorico che ha portato alle opere esposte, ma anche e soprattutto per essere stato l’artista che ha inaugurato un grande e prezioso spazio che, in pochissimo tempo, è divenuto di importanza vitale per l’arte in Italia.

Impegni futuri?
Tanti e molto impegnativi. Sperando, tenuto conto dei tempi, di realizzarli il prima possibile.

 

Sergio Padovani. Il senso del sacro come condizione intrinseca dell’uomo

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