“Tutto lo scibile umano è la grande arte di eludere la temibile esperienza terrena”. Sullo scisma tra carne e intelletto che ha disfatto l’Occidente

Si narra che la poesia sia più antica della civilizzazione e, in epoche assai remote, imbrigliava la follia del mondo nel modo più potente e fertile, esaltandone la linfa. Poi tutto mutò…

In origine la scena del mito, dove si presentavano dèi, uomini e cose, era la natura; la quale evocò negli uomini un ordine fondato sul disordine originario dei fenomeni del mondo, che fino ad allora aveva consentito di assimilare per analogia il reale, senza ucciderlo o disprezzarlo. La complessità della rugosa realtà da stringere era ancora onorata, benché temuta.

E infine accadde l’irrimediabile frattura.

Un mirabile storico delle idee racconta che il razionalismo mistico dell’antichità, il pensiero greco a Eleusi, disprezzava la carne e cercava di sostituire la creazione divina con qualcosa di proprio. All’alba della ragione autonoma, il razionalismo filosofico si spinse oltre e fu un pallido surrogato di quello mistico, giacché predicò la fiducia nelle sole proprie forze, ossia in un universo costruito con la logica, la geometria, la chimica.

Jacob Taubes, a sua volta, aggiunse che tendenzialmente i filosofi moderni oltrepassano l’ambito ontologico della filosofia classica greca, che, comunque intesa, girava ancora intorno a un’elaborazione del concetto di natura; concetto nel quale perfino la teologia cristiana era inclusa, poiché essa separava l’ambito naturale da quello sovrannaturale, cogliendo dunque l’ambito sovrannaturale attraverso concetti naturali. Il principio gnostico era già presente, ma le categorie meta-fisiche, allora, erano ancora fisiche, determinate dalla norma della physis.

La categoria universale della filosofia moderna al contrario non fu più rappresentata dalla natura, ma da un sistema di riferimento totalmente nuovo: lo spirito autonomo e i suoi corollari – interiorità, mente, intelletto. Le categorie della filosofia moderna furono trascendentali, non metafisiche. La sua norma non era la natura, ma ciò che veniva prodotto esclusivamente dall’uomo, da colui che si voleva superiore alla natura. La matematica moderna, infatti, non parlava più la lingua della natura. Venne così meno ogni costitutiva mondanità, la simbolica del mondo esteriore, che, rispetto al passato, si tradusse in mera allegoria, vuota idealità e vuota trascendenza di un io artificiale. Se la dissacrazione ebbe origine con la filosofia greca, e proseguì con la rivelazione monoteistica – poiché, “più netto della linea di separazione posta dalla filosofia pagana tra l’ambito divino e quello mondano, tra forma originaria e materia, fu il confine tra Dio, il creatore, e le sue creature, posto dalla rivelazione monoteistica” –, con l’affermarsi del metodo moderno delle scienze della natura il cerchio infine si chiuse, e l’interpretazione simbolica della natura, il mistero delle corrispondenze, persero ogni valore. Furono smascherate come mistificazioni. L’immaginazione, l’analogia e le corrispondenze, prive di un correlato mondano, presero la strada dell’allegoria, che rappresentò la vittoria della coscienza demitizzata sulla coscienza mitica.

Anche il Romanticismo non sfuggì a tale schema: “i collegamenti romantici e post-romantici tra ordinamenti ed esplorazioni di corrispondenze non abbattono i ponti esistenti tra la fantasia soggettiva e il mondo oggettivo, ma restano fatalmente esiliati nell’interiorità soggettiva”. Con una cesura quasi manichea tra mondo e uomo, analogie e metafore mutarono in prodotti dell’immaginazione individuale, interiore, privi di un correlato esteriore. In fuga dal reale. Le corrispondenze, da allora, ebbero origine solo nel più profondo dell’anima, in un ritiro nel proprio essere.

Se la coscienza mitica in origine non conosceva alcuna separazione tra ambito divino, mondano e umano, in seguito vi furono i molti secoli, il cui retaggio ancora oggi domina, nei quali l’accento venne posto sull’interiorità del soggetto, e la verità dell’analogia fu esiliata nell’ambito chiuso, contemplativo, della poesia, con la relativa nascita del concetto dell’arte, surrogato e conseguenza di una frattura originaria: l’estinzione del mito. Era il rivolgimento dell’istinto dall’esterno all’interno. Una forma di contrasto della vitalità reale, impura, per sublimarla a un livello superiore, astratto, in un universo poetico chiuso, al riparo da quel che troviamo là fuori. Solo in quanto impulso poetico chiuso, interiore, si rivelò, da allora, il divino, l’assoluto, l’eterno, il non-mondano, l’infinito.

È un mutamento profondo dello schema mitologico dell’antichità.

Io e mondo furono separati, e il desiderio di esistere, da allora, fu una colpa, un peccato. Si scatenò così quel processo di interiorizzazione della sofferenza, della stessa colpa della nascita e del desiderio di esistere, che neutralizzava e riassorbiva la carne della volontà.

L’impulso creativo, da allora, privo di un correlato mondano, fu questa stessa trascendenza interiore del soggetto, irrelata, storica, profana, autonoma. In preda a un dualismo gnostico, quasi manicheo, immaginammo una trascendenza che mutò nell’oltremondano, nel contro-mondano. In un contro-principio che si stagliava di fronte al mondo esteriore. Da una parte, la psiche, le potenze mondane, la vita naturale, che nella redenzione gnostica bisognava lasciarsi alle spalle; dall’altra, il pneuma, l’idea di un Sé non-mondano, centro trascendente e acosmico dell’io, interiorità ultima e irrelata, che nella gnosi corrisponde al Dio oltremondano. Un’antica idea di libertà, che si propaga per osmosi attraverso i secoli, e che, nella modernità, unisce pensatori anche diversissimi tra loro. Valéry e Proust, per esempio, furono dei pneaumatici che si rifugeranno nell’extra-mondanità dell’arte, in un particolare surnaturalisme – il loro unico aldilà, e assoluto, a cui si aggrapperanno con tutte le loro forze, sarà infatti la parola, considerata quale trascendenza in sé, in cui riaffiora intatto l’antico sigillo: “In principio fu il Verbo”. Una agognata perfezione caratterizzata dall’indipendenza dalla natura e dalla mondanità.

Con delle qualificazioni che aprirono le porte a una gamma di strumenti per depotenziare il contesto reale dei fenomeni della natura, di fronte al soggetto che tentava di spogliarsi non solo della natura ma anche dell’impura soggettività mondana della sua umanità, l’essere umano fu evocato come apertura sul possibile più che sul reale, come potenza immaginale che reagiva al piatto realismo, alla “falsa realtà dell’esperienza”, per evadere nel sogno e imbarcarsi nell’irreale. Così da proiettare l’Uomo al di là delle proprie condizioni biologiche, per spezzare “il sistema chiuso dei bisogni fisiologici, in cui sono prigioniere le altre specie animali”, e fare di lui una creatura alata, superiore. Colui che non spiccava tale volo spirituale era considerato alla stregua di un ominide. E non ingannatevi! Anche la celebre distinzione di Valéry, tra “spirito” nell’accezione metafisica – sia essa di natura filosofica, religiosa o iniziatica, ch’egli ripudiava – e la sua nozione di “spirito”, a cui attribuisce un significato strettamente funzionale: “di potenza trasformatrice che si oppone ad una realtà data, per proiettarsi oltre, verso un possibile che ancora non è, ma che, tuttavia, è in grado di prefigurare, sognare e, soprattutto, di costruire”, è vana, poiché le due nozioni sono unite da un comune e letale scopo: sdegnare il reale.

Da allora, paradossalmente, sottrarsi, sprezzanti, alla ciclicità dei processi naturali diventa un merito, un progresso, e non il vile privilegiare una fuga dal reale, un temibile idealismo originario, un’umiliante astrazione intellettuale in seno a una wasteland… una terra desolata. Spirito, mente, pensiero sono tutti avatar che indicano una fuga da un disordine naturale – tutto ciò che è naturale, infatti, venne sempre stigmatizzato come disordine – per costruire un ordine artificiale. Un ordine per sé, a partire da un disordine per sé, in cui l’Animale, questo scioccante singolare generale, mutò nel nostro più intimo rimosso.

L’Occidente e l’Europa, di conseguenza, furono questa fabbrica di sapere intellettuale senza pari, poiché nati da un modello intellettuale incorruttibile, quello pagano, “in cui per la prima volta si è effettuato il passaggio decisivo dal linguaggio comune, per natura empirico e approssimativo, al ragionamento universale, astratto”. Grazie al quale l’Occidente valicò ogni confine geografico, riuscendo a imporre le proprie conquiste intellettuali nel mondo intero, al punto da diventare “la parte preziosa dell’universo terrestre, la perla della sfera, il cervello d’un vasto corpo, una prodigiosa macchina civilizzatrice”, afferma con orgoglio lo stesso Valéry. Al di fuori di tale astrazione: l’arcaico, il barbaro, il non illuminato. L’indotto.

È la cultura che, fin dagli albori, privilegerà il Tempo, il culto superstizioso per la Storia e l’Uomo, per ripudiare lo spazio. Ne farà una divinità, a danno della carne – l’Occidente, il teatro dell’immortalità nella conoscenza.

Tutto lo scibile umano è la grande arte di eludere la temibile esperienza terrena.

 

Emanuel Lukovskij

 

Cosa sono i valori?

Tutti sono concordi nel dire che a questo mondo non ci sono più valori. I preti parlano giustamente di secolarizzazione. Pasolini scriveva che negli anni settanta si stavano sempre più affermando i valori del consumismo, improntati sull’edonismo, sul laicismo, sulla tolleranza a discapito dei valori della tradizione cattolica.

È difficile stabilire quali sono i valori che prevalgono oggi in questa Italia. Come scrive Giovanni Siri i valori a livello psicologico strutturano l’identità e la personalità di base di una persona. Dalla discrepanza tra valori e comportamento possono scaturire disagio esistenziale, sensi di colpa, tormento. Ma è anche vero che un valore non è una meta raggiungibile una volta per tutte, a cui approdare definitivamente, ma un principio che ci chiede continuamente prove, riprova e conferme.

È difficile anche essere totalmente coerenti ai propri valori. Un valore è un fine a cui tendere quotidianamente. Aristotele sosteneva che più che professare dei valori bisogna metterli in pratica e qui la cosa si fa davvero difficile, quasi impraticabile, molto facile a dirsi e molto difficile a farsi.

Per Allport i valori sono delle credenze morali. Alcuni studiosi fanno sottili distinguo tra valori ed ideali. I valori per alcuni sono solo teorici, mentre dovrebbero anche per essere tali diventare delle norme di comportamento. Per altri i valori sono delle regole da seguire pedantemente, ma di cui non avvertono al di là della prassi la portata interiore di certe leggi morali. I valori dovrebbero essere vissuti sia interiormente che praticamente, perciò nessuno è una persona veramente risolta nei confronti della propria sfera valoriale, anzi è una partita sempre aperta, che dura tutta la vita e di cui è difficile, quasi impossibile sapere il risultato.

Bisognerebbe vivere autenticamente i nostri valori, crederci veramente e seguirli nella quotidianità,  ma spesso ci sono ostacoli insormontabili nel praticarli e poi chi ci dice che i valori che crediamo nostri siano veramente nostri? Spesso sono i valori che ci hanno inculcato da piccoli, ma forse questo non importa. Importante è stare bene con sé stessi nel viverli. In psicologia ci si basa sui valori per determinare la devianza o meno di un individuo.

La psicologia ci insegna che negli ultimi anni gli uomini occidentali hanno delle “personalità fluttuanti”, talvolta piene di piccole incoerenze e contraddizioni. Di solito di usa dire che uno che uno ha valori, è di sani principi. Ciò significa di solito che è un uomo all’antica, che non beve, non si droga, non è gay. Alcuni si dicono uomini di onore e per l’onore sono pronti a farla pagare per un apprezzamento volgare rivolto alla loro ragazza. Al di là di ogni ricerca di psicologia è giusto ritenere  che ancora oggi i valori degli italiani almeno in teoria siano basati sulla morale cattolica.

Vale ancora oggi ciò che scriveva Croce, ovvero che in Italia non si può non dirsi cristiani. Probabilmente a livello giovanile c’è un fiorire di “personalità fluttuanti”, ma inserite, volenti o nolenti, in un contesto socioculturale cattolico. Il nostro Paese è un baluardo, una roccaforte del cattolicesimo in un mondo in cui prevalgono sempre di più la soggettività dei valori e il relativismo culturale. Ma cosa si intende ad esempio per valori? I più comuni sono Dio, la giustizia, la libertà,  la solidarietà,  l’amore.

Comunque data una morale qualsiasi la gente peggiorerà, deteriorerà, deformerà sempre a sua immagine e somiglianza,  a suo piacimento quei codici etici. Sgombriamo il campo da ogni equivoco: non è la morale cristiana che si presta ontologicamente all’odio. Sono piuttosto gli animi delle persone che covano l’odio. Non è la morale sessuale cattolica ad essere omofoba, ma è una quota parte della popolazione ad essere omofoba per i più disparati motivi psicologici.

Nella Bibbia c’è anche scritto che chi è senza peccato scagli la prima pietra, c’è scritto di amare il prossimo tuo come te stesso, c’è scritto di non fare mai agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te. I valori per certi versi vengono sempre stravolti dalla popolazione, che giudica e condanna il prossimo. Data una etica qualsiasi una parte della popolazione trasformerà dei valori impeccabili in disvalori e commetterà delle ingiustizie. Fa parte della realtà delle cose.

Ad ogni modo esiste una sorta di pansessualismo della morale degli italiani. Viene data dagli italiani grande importanza alla sfera sessuale,  che determina l’onorabilità e la reputazione delle persone. Molto spesso è il giudizio impietoso su una sfera così intima come quella sessuale e non la professionalità, l’onestà,  la lealtà,  la validità che determina la vita sociale delle persone, soprattutto in provincia e l’Italia è fatta più che altro da piccoli paesi. Per alcuni comunque non ha più un senso parlare di valori perché la parola valore è un termine desueto.  Viene da chiedersi che senso ha parlare di valori in un mondo in cui gli uomini sono dei mezzi e dei mezzi come il denaro diventano dei fini. Viene da chiedersi che senso ha parlare di valori quando conta un sistema premiante imperniato sull’avere,  sull’apparire,  sul successo.

La maggioranza cerca gratificazioni immediate, il facile consenso nel numero dei like, nel culto della macchina, intesa come status symbol, nel carnet di conquiste femminili esibite agli amici come trofei di caccia. Probabilmente i valori più importanti da promuovere oggi sono il rispetto per l’ambiente, il rispetto per la dignità umana, la capacità di vivere qui ed ora. Rispetto a quest’ultimo principio c’è da ricordare che molti vivono talmente immersi nel virtuale da non saper più godere il reale.

Ma come dice la filosofa Ilaria Gaspari in una intervista chi si ferma a fotografare la luna ritorna a casa con una fotografia che non rende la bellezza della luna vista e vissuta realmente. Chi fa delle foto in pizzeria per metterle sui social difficilmente si gode il momento.  Ritornando alla moralità degli italiani questa si è sempre distinta tra etica pubblica e moralità privata.

Ancora oggi si pensa che un politico dovrebbe essere di specchiata moralità e spesso con questa espressione si sottintende che non abbia mai avuto scandali sessuali, che rispetti la morale sessuale corrente. Molti pensano ancora oggi che senza una adeguata condotta morale non si possa essere buoni politici. In realtà abbiamo avuto uomini politici corrotti che erano irreprensibili mariti e padri di famiglia, ma forse erano altri tempi. Forse alcuni politici allora scelsero deliberatamente il compromesso come male minore.

 

Davide Morelli

Davide Brullo, scrittore viscerale, tra visioni, Bibbia, mistificazione, letteratura russa e crudeltà

Lo scrittore e giornalista milanese Davide Brullo, classe 1979, possiede oltre a una grande sensibilità e lucidità critica, una fede autentica nella parola e in Dio e una cultura “anarchica”. Le icone sacre hanno un effetto magnetico su di lui, magnetismo che trasferisce nei suoi libri, insieme ad profondo conoscenza dei testi sacri e della patristica. Ma la poetica di Brullo, che non ama dirsi fedele a Dio perché troppo imperfetto, coltivando in questo modo l’illusione di una maggiore intimità del sacro, non è tutta qui. Nelle sue opere letterarie scorrono sangue e passione che danno potenza a visioni, immagini, icone e si respira un’atmosfera nera, nefasta, che avvolge il lettore che vuole avventurarsi in una storia crudele ma intellettualmente onesta pur nella sua finzione e artificio, perché ormai allo scrittore contemporaneo non resta che gareggiare con la realtà come dimostrano i libri Pseudo-Paolo. Lettera di san Paolo apostolo a san Pietro, Un alfabeto nella neve, I Salmi, Rinuncio. La penna di Brullo è una lama onestissima e affilata che affonda nella carne e nello spirito dell’uomo e affonda le proprie radici nella Bibbia e nella letteratura russa, soprattutto quella mistica di Dostojevskij, con buona pace di Nabokov che definisce “un elegante spaccone” inabissandosi nella parola, alla quale è devoto.

La scrittura di Brullo ha in sé qualcosa di eterno, di apocalittico, di falso a fin di bene, perché ha a che fare con i ricordi e con il perdono di Dio, che pur tentando di confondere e turbare il lettore, cerca di dare delle risposte, anche se non sono consolanti. In lui convivono pars costruens e in più larga misura pars destruens, rose e letame. L’inquietudine e l’aggressività retorico-mistica dello scrittore che trasferisce nelle proprie pagine, diventa simbolismo di un linguaggio che cerca e ragiona su se stesso attraverso metafore opposte che mettono in piedi una letteratura che sia urla, ululati, silenzi, affronti, stimmate, angeli (tremendi) e creature sublimi, e che soprattutto ci dice che si scrive per uccidere il passato, sgravare il peso dei ricordi che ci fanno soffrire, ma proprio nella privazione di una gioia, di una persona, nell’innaturalezza, si può creare uno spazio metafisico dove amare e persino accettare l’assenza come riparazione e dimostrazione di coraggio. Proponendo questo, Brullo sfida il lettore a misurarsi con la propria ombra, perché l’ombra è qualcuno.

“Ogni ritorno è un indizio di morte. Si ha voglia di incontrare chi abbiamo amato molti anni prima per capire qualcosa di noi che ora è perduto. Per questo, ogni ritorno è una sconfitta – le origini esistono perché abbiamo la forza, confusa e viziata, di allontanarcene. Quando non si ha più la costanza di penetrare lo sconosciuto per tornare sui propri passi, per abitare nella casa bruciata dalla memoria, si è morti – vivi come una candela che delizia la volontà dei morti”.

 

1 Cos’è per lei la Letteratura? In Italia si fa Letteratura oggi?

La letteratura è indipendente dai letterati: non si fa, avviene, lungo le volute dei millenni. Poi sfiaterà, come un sibilo – spesso immagino le lettere come conchiglie, come figure vive, come linci. Dentro questo bestiario, bestia pure lui, si muove lo scrittore. Oggi siamo in un tempo, mi pare, in cui per trovare una parola pienamente umana, occorre espirare l’uomo – delegare il verbo al ringhio. Cosa sia questo, mi è ignoto.

2 Quali sono secondo Lei, i libri imprescindibili, a parte la Bibbia?

Facile filare un canone che da Isaia proceda per la follia di Lear, la camminata del viandante stellare, Dante, la gita sul dorso del capodoglio bianco. Agli imprescindibili, ormai, preferisco i nascosti: libri remoti, che appaiono come una stellata, inattesi. Parole, forse, innecessarie, ma che turbano come aghi di fuoco negli occhi. A volte un ignoto eremita irlandese o uno storico di Bisanzio mi sembrano illuminati. Altre, torno a Saint-John Perse, a Rilke, a Dylan Thomas come si sta su una casa sospesa sui rami.

3 L’Occidente è veramente povero di valori, vicino al collasso, o la trova una lettura superficiale che sta diventando un motto infantile? C’è qualcosa di Vero e sacro nel senso cristiano del termine che pulsa nell’epoca che stiamo vivendo?

Siamo nati nell’era del Dio morto, moribondo, decapitato – non possiamo fare altro. Penetriamo nel cadavere di un dio. Dell’Occidente non so nulla e nulla so di valore e di valuta. So che mi scopro a inginocchiarmi davanti all’icona di una Madre o di un Figlio, con un magnetismo che non oso dire fede, in chiese, fortunatamente, vuote, ed è come stare sott’acqua, nella sottana del silenzio, affogando.

4 Cos’è la parola, come può rinnovarsi nel tempo?

Da poco ho scoperto – mi è stato detto – che “Brullo” è un verbo greco, raro, testimoniato soltanto ne I cavalieri di Aristofane. Significa “fare bru (come i bambini che chiedono da bere)”. Eccola, la parola! Bru, bru, bru. Chiedere da bere.

5 Nabokov non nutriva simpatia per Dostojevkij,, in quanto lo considerava scrittore di idee. Non trova che la concezione della letteratura dell’autore di Lolita sia alquanto inconclusa. Non bisognerebbe contrastare le ideologie, le generalizzazioni finendo per estremizzate il valore autonomo di un libro?

A Nabokov era permesso dire qualsiasi cosa: è corroborante leggere come disseziona, con aggraziato cinismo, i grandi o presunti tali. Insegna ad affilare la mente, a essere, finalmente, crudeli. D’altronde, i libri sono lì per farne macelleria. Tuttavia io preferisco di gran lunga Dostojevkij.

6 Secondo lei può essere “compito” dello scrittore per i cosiddetti “lettori forti” saper coinvolgere anche il cattivo lettore, di cui Nabokov è nemico o chi fa parte degli eletti deve solo lodarsi delle proprie buone riuscite, in virtù del fatto che la letteratura è un’arte spuria?

L’unico compito dello scrittore – se vogliamo usare una parola simile, legata al calcolo – è scrivere un’opera come si forgia una sedia. Come può, con anomala dedizione, fino a spaccarsi le dita, che altri, eventualmente, rappezzeranno. Il resto, il lettore, chi si siede sulla sedia, non è affar suo.

7 Quanto è importante secondo lei considerare i fattori extra testuali ai fini di una migliore comprensione dell’opera letteraria? Quanto conta l’empatia per lo scrittore?

Bisognerebbe capire di cosa è specchio l’opera. Che fa lo scrittore, scrivendo? Si pugnala la faccia, si fa mostro, o la trucca, dà di sé una immagine di esagerato splendore? In ogni caso, lo scrittore è uno che mente – e un mentitore non è una buona persona. D’altra parte, apprezzo la certezza di Nicola Crocetti, l’editore, per cui un grande poeta è anche un grande uomo. Amo la grande poesia; e i grandi uomini. Ma non saprei riempire di senso l’aggettivo “grande”.

8 «Nessun artista tollera il reale», diceva Nietzsche. Tuttavia nessun artista può fare a meno del reale. Lei come la pensa?

Il reale è intollerabile, perché è reale solo ciò che sembra non esserlo. Cos’è la realtà? L’evidenza delle cose? La loro ombra? L’avvenuto? L’avvenire? La combinazione del caos con la provvidenza? Quando crea, lo scrittore combatte il mondo, trama oro nella sua agonia.

9 Chi sono i più grandi ribelli della letteratura?

Beh, ogni scrittore è ribelle: si ribella alle norme della grammatica, all’egida del vocabolario. Si ribella all’evidenza, alla storia, a se stesso, all’uomo. Il retro di una scrittura pacificata è l’assassinio di sé. Per il resto, una “vita da romanzo” è altro da un grande romanzo.

10 Lei crede di confondere o di dare delle risposte a chi la legge?

Il privilegio della letteratura è che è il solo spazio concesso in cui non c’è nulla da capire, da spiegare, da risolvere: è come passeggiare di notte inseguendo una litania ignota. Forse cadremo in un burrone, entreremo in mare, saremo accerchiati dalle iene. Ma è bello stare in quel ritmo.

11 Al centro del suo romanzo Un alfabeto della neve, lei mette al centro il prezioso carteggio tra Pasternack e Marina Cvetaeva, amanti a distanza, dimostrando di essere un abilissimo mistificatore, facendo resuscitare testi, scoprendo documenti inediti o inventandoseli, mentre scandaglia l’animo degli artisti. Questo perché ormai non è rimasto altro a chi vuole scrivere seriamente, che non gareggiare con la realtà? E quanto le piace appropriarsi persino nell’animo di uno scrittore e perché?

Infine, quella scrittura è un sudario sul volto di alcuni spettri. La mistificazione è la formula necessaria per fissare la folgore del vero. In particolare, il libro cui accenna fa parte di un ciclo, dedicato al tradimento. In qualche modo, si opera cancellando un testo, per rivelare la ferita originaria, l’alfabeto ulteriore.

12 Perché l’autore del Dottor Zivago non ha avuto fortuna in Russia?

In verità, Boris Pasternak è stato il poeta più eminente del suo tempo. Per un gioco del caso – e la macchinazione di alcuni – proprio lui, un estraneo, uno che come i re camminava senza fare rumore nella foresta, ha avuto la parte del simbolo. Ne è morto – diventando immortale.

13 L’arte deve essere intransigente verso la Storia? Deve stravolgerla in qualche modo?

L’arte è impotente – e in questa impotenza è la sua forza. Un governo degli artisti sarebbe affascinante per eccesso di terrore, di capriccio. Ghigliottine con deliziosi sonetti incisi sulla lama. L’artista, piuttosto, è una sentinella nella notte: richiama l’alba, la prende per la coda come fosse un varano.

14 Anche in Pseudo-Paolo. Lettera di san Paolo apostolo a san Pietro, Lei inventa una falsa lettera di San Paolo a Pietro, come nasce questa idea di intrufolarsi anche nella tradizione cristiana per provare a costruire una nuova teologia?

L’esperimento è narrativo, di teologia non mi curo. Ho la Città di Dio sul comodino: leggo con rispetto, divertimento, timore. Da ragazzo, ho avuto la sorte di laurearmi in Letteratura cristiana antica. Ho fatto una tesi sulle “lingue degli angeli”, certo di poterle praticare. Mio padre è morto con una Bibbia sul tavolo della cucina, aperta su un Salmo che non ricordo, forse il 16, amato tanto da Paul Celan, eppure non salvifico. La traduzione di quella Bibbia era valdese. Da lì discende il mio libro.

16 Lei ha detto che “Maradona è l’imperatore che ha reso il calcio un culto, specie di Eliogabalo, di Dioniso sdraiato sulla tigre”. Il calcio di Maradona può essere paragonato alla poesia, all’arte o è un azzardo, un’eresia, in quanto l’arte è materia Alta, il calcio solo un divertimento intorno al quale girano molti soldi, secondo molti?

Il gesto sportivo, torsione sopraffina, è arte – e l’arte, in verità, è alta per difetto di bassezza, per amore del sottosuolo e dell’informe. La poesia di Pindaro s’incarna nella competizione sportiva perché lì, a dispetto della statistica, accade il sacro, si scopre la natura dell’uomo, il favore del dio. Lo stadio di Olimpia è una basilica, vive del respiro di Delfi. Il dio, però, accenna e vive l’istante: così l’atto sportivo vive il transitorio, bava d’oro sull’argine del caos. Maradona è morto; Rilke è ancora qui.

17 Cosa pensa di una delle parole più usate del momento, ovvero del femminicidio? Non la trova una cacofonia, e perché non si parla semplicemente di omicidio? Perché si dovrebbe considerare il femminicidio più grave rispetto all’assassinio di un uomo, quando le violenze più efferate riguardano i bambini, gli anziani e i disabili? Non sarebbe più opportuno interrogarci sulla natura della violenza che appartiene ad entrambi i sessi e sul perché non la si riesce a controllare, sul possesso, sulla gelosia, sulla fragilità umana? Non si instaura così con le manifestazioni e slogan banali, una guerra tra uomini e donne?

Mi piace scoscendere nel vocabolario, tra parole che non comprendo e lingue che mi suonano ostili. Il linguaggio di questa parte di mondo non lo capisco più: eppure, gli uomini sono ancora di carne, non hanno frisbee di metallo sul cranio. È strano: faccio il giornalista e sul “femminicidio” dovrei dire qualcosa di alto rispetto all’orrore che traduce quella parola. So, ad esempio, che una stanza può chiudersi sul corpo della vittima come un pugno, che le relazioni umane, troppo spesso, sono un inghiottitoio, un buio a uncini, il cupo rimbombo del pianto, il corpo massacrato. Le lacrime possono essere rasoi. Anche le famiglie, a volte, sono un incubo. A volte, bisogna liberarsi perfino della propria ‘umanità’. Ma sono uno che passa in punta di piedi tra i ruderi di questo tempo, affascinante, per molti versi, perché si sente l’odore di aspirazioni definitive e terribili. Leggo le nuvole, armo una disciplina, cerco di non fare del male al prossimo – ma pare inevitabile. Rincorro il tremendo.

 

 

‘Serotonina’: il solito Houllebecq che parla della fine dell’occidente attraverso l’impotenza del maschio

Chi non ha letto i suoi romanzi precedenti, troverà Serotonina, l’ultima fatica letteraria del controverso scrittore francese Michel Houllebecq, un pugno nello stomaco, un capolavoro. Ebbene, il tanto atteso romanzo dell’autore di Sottomissione, libro che nel 2015 generò non poche polemiche, non è un capolavoro con buona pace dei seguaci acritici di uno dei più importanti scrittori d’occidente che parla d’occidente.

Tuttavia sarebbe ingeneroso liquidare Serotonina come un libro trascurabile, l’ultimo atto di un finto trasgressivo depresso che ama il politicamente scorretto e sguazzare in opinioni sconvenienti ormai giunto alla senilità. La storia di Houllebecq è nota: a partire dal successo del suo secondo romanzo, Le particelle elementari (1998 in Francia, 1999 in Italia), lo scrittore francese si è affermato come uno dei tre o quattro scrittori più rilevanti nel panorama letterario occidentale, fino ad arrivare al controverso Sottomissione del 2015. Da quel momento in poi ogni suoi libro è stato annunciato come un evento, e i lettori – quei figuri che le case editrici cercano con disperazione di resuscitare – sono riapparsi ogni volta come se fossero sempre esistiti. Le cronache culturali, non senza ragione, hanno fatto risalire i motivi di questa rilevanza perlopiù a circostanze extra-letterarie: una certa forma di preveggenza (il pericolo islamico, l’ingegneria genetica) unita a una certa forma di ideologia reazionaria seducente quanto scandalosa per il lettore tipo, normalmente portatore di valori e stili di vita di sinistra, giusti e rassicuranti.

Ma Houllebecq oggi pare essere acclamato anche da chi una volta lo odiava, mentre i suoi fans si dividono tra intellettualmente onesti che non possono non riconoscere in Serotonina un affresco stanco e abbastanza noioso dell’Occidente, che l’autore descrive ormai da vent’anni, e fans che ritengono il loro beniamino letterario intoccabile.

Serotonina: trama e contenuti

Houellebecq, discendente dalla grande tradizione dell’amarezza francese (i cui massimi esponenti sono Villon, Céline, Camus, Drieu La Rochelle), ancora una volta fa analizzare in maniera spietata e scientifica la situazione sociale della Francia e della società occidentale da un disadattato, un infelice, che però, a differenza di intellettualoidi che cicalecciano nei loro salotti ovattati, vede molte più cose, e le “sente” meglio: Florent-Claude Labrouste, quarantaseienne che lavora come funzionario del ministero dell’Agricoltura, vive una relazione ormai al capolinea con una donna giapponese, più giovane di lui, dalle idee libertine, con la quale condivide un appartamento in un anonimo grattacielo alla periferia di Parigi. L’uomo si tiene vivo attraverso l’uso costante di un antidepressivo, il quale, se da un lato lo priva dell’eccitamento, dall’altro risveglia nell’uomo l’antica sete di eliminare l’avversario in amore. Labrouste è un uomo intelligente che rileva gli accadimenti della società come se fosse un robot. Tuttavia egli prova affetto come un bambino, non sa amare, complice il suo stato mentale, le persone che lo circondano ma soprattutto il suo male di vivere, di stare al mondo, di essere già caduto quando è nato, per dirla all’Anassimandro. L’incalzante depressione induce il protagonista all’assunzione in dosi sempre più massicce di Captorix, grazie al quale affronta la vita, un amore perduto che vorrebbe ritrovare, la crisi della industria agricola francese che non resiste alla globalizzazione, la deriva della classe media. Una vitalità rinnovata ogni volta grazie al Captorix, che chiede tuttavia un sacrificio, uno solo, che pochi uomini sarebbero disposti ad accettare.

Dunque sembra apparentemente riecheggiare il solito messaggio in Serotonina: è colpa della società se sono così! ma è la società stessa a configurarsi come una proiezione effettiva del nostro mondo interiore, dato che siamo noi ad averla prodotta, cambiarla e che ne facciamo parte, perdendo al contempo, paradossalmente il contatto con la realtà. D’altronde gli stessi antieroi houllebecquiani, nevrotici, psicotici, depressi, accidiosi, cinici, ossessionati, pavidi, hanno una visione distorta, nichilista, della realtà.

L’impotenza sessuale maschile come metafora della fine dell’occidente

“Una civiltà muore semplicemente per stanchezza, per disgusto di sé” e “In Occidente nessuno sarà più felice” si legge ad un certo punto nel romanzo, affermazioni che si ricollegano ad una dimensione più individuale, intima “Ero capace di essere felice nella solitudine? Pensavo di no. Ero capace di essere felice in generale? È il tipo di domanda che credo sia meglio non farsi” e che ancora una volta dimostrano come lo scrittore abbia ormai ancora ben poco da dire: si parla di donne che sembrano già lette ma questa volta virate dal filtro dell’impotenza sessuale, metafora dell’impotenza dell’occidente. Si resta poi abbastanza spiazzati da almeno un paio di episodi che sono talmente forzati da apparire ridicoli (uno di questi, un’improbabile scena di zoofilia, è addirittura il motore del dramma interiore del protagonista; l’altro è una scena di pedofilia abbastanza inspiegabile). E però ci sono poi grandi pagine, soprattutto quelle dell’incontro con il vecchio amico Aymeric, che sono una specie di discesa negli inferi dell’entroterra francese; una tristissima e verissima notte di Capodanno trascorsa dai due nel cadente castello dell’amico in Normandia; le pagine sugli agricoltori in rivolta, che hanno fatto di nuovo gridare alla preveggenza – considerati i successivi moti di protesta dei gilet gialli – così come quelle sugli allevamenti intensivi e le produzioni di origine controllata, che insieme agli excursus extra-parigini di Carrère nell’Avversario, potrebbero essere riunite in un dolente dittico sulla crisi della provincia europea.

Tuttavia nella parte finale del libro, ritorna la sensazione di mancanza di ispirazione, fino a quando, in un passaggio più saggistico in cui il protagonista si mette a riflettere su Thomas Mann, Marcel Proust e Arthur Conan Doyle da un punto di vista sessuale, riappare l’illuminazione o la suggestione di essere di fronte non solo a una specie di autoromanzo sulla carriera letteraria di Houllebecq – la storia di un fantasma che vaga tra i resti delle sue opere – ma anche quella di avere tra le mani una pietra tombale della letteratura del Novecento e dei suoi postumi; per quanto “l’esaurimento” fosse stato già prescritto dai postmodernisti più di 50 anni fa, davvero l’esistenzialismo e il nichilismo in questa specifica forma di romanzo soggettivo e confessionale, sembrano essere colti in queste pagine nell’atto di esalare l’ultimo respiro.

Promosso come libro anticipatore dei Gilet gialli, Serotonina parla semmai della guerra del latte di 10 anni fa, oscillando tra le elucubrazioni dei film della Nouvelle Vague, sprazzi che fanno sperare in una inversione di rotta che non avviene mai e saccenterie lessicali incastonate in uno stile come al solito volutamente sciatto, “grigio” e stringato, contorsionismi intellettuali, e medesima descrizione del vuoto interiore, medesime provocazioni soprattutto, sul versante di una apparente misoginia, che in verità è misantropia, tra le quali ogni tanto fa capolino qualche sussulto poetico: “Era già quell’infinità, quell’infinità gloriosa di piaceri condivisi che avevo intravisto nel suo sguardo. Era la più recente e forse anche ultima possibilità di felicità che la vita avesse messo sulla mia strada.”

Una deflagrazione senza compromessi dell’io maschile dunque (senza contare il fallimento del femminismo contro cui l’autore si è sempre scagliato), che si estende all’intero occidente che non sa generare più nulla di buono. Cosa può salvarci allora? Il volgere la propria mente e il proprio cuore verso l’assoluto che nei romanzi di Houllebecq sembra essere assente, ma in realtà quello che si è autodefinito lo “scrittore della sofferenza ordinaria”, vive un desiderio di conversione e bisogno di trascendenza, in un mondo in cui si sente estraneo e rifiutato:

Il mondo brucia, le sue promesse son fumo. Cosa rimane? La bellezza dell’amore, anche quello che non è stato, quello delle fanciulle in fiore o di Cristo irritato dall’insensibilità dei cuori.

 

Fonte:

La fine di Michel Houellebecq

Geopolitica: la reale natura del conflitto nello Yemen

Il geografo svedese Rudolf Kjellen fu abile nell’individuare nella dicotomia occidente/oriente uno dei pilastri portanti del pensiero geopolitico. Da molti considerato come il padre fondatore di questa disciplina, Kjellen, non negando la derivazione della stessa dalla geografia sacra, vedeva nell’idea di Occidente un mondo orientato indiscutibilmente verso il progresso senza limiti; mentre nell’Oriente riconosceva degli istinti primordiali votati alla contemplazione, ad una visione maggiormente pessimistica della vita ed al rispetto delle tradizioni. Questa dicotomia geopolitica può essere la prima chiave di lettura dialettica attraverso la quale interpretare il conflitto nello Yemen come lo scontro tra una modernità che tutto ingloba in nome di una forma mentis nichilistica in cui l’unica verità assoluta è il profitto economico e delle forze, ancorate alla tradizione, che percepiscono come imposta ed estranea alla loro cultura la negazione dell’ordine metafisico e la scissione stessa tra questo e l’ordine fisico.

E sempre la geopolitica attraverso un’altra dicotomia classica, quella tra terra e mare, può fornire un’altra interessante possibilità di interpretazione del conflitto yemenita. Non è infatti un caso se sono stati i mercanti sunniti di scuola shafi’ita (una delle quattro scuole giuridiche ortodosse dell’Islam sunnita) che vivevano nella fascia costiera del paese ad essere maggiormente influenzati dalla cultura occidentale arrivata attraverso il colonialismo britannico. Di fatto, furono loro verso la metà del secolo scorso a spingere per una maggiore apertura dello Yemen verso il mondo rispetto alla popolazione delle montagne e degli altopiani maggiormente legata all’imamato zaidita e alla sua tradizionale struttura di potere. La principale preoccupazione dell’Imam Yahya, al potere fino al 1948, era proprio quella di mantenere il paese immune da una penetrazione culturale straniera che riteneva perniciosa e potenzialmente destabilizzante. Dunque, lo scontro attuale può anche essere interpretato come lotta tra città e campagna: tra una città aperta all’innovazione e anche ai più deleteri esiti della modernità e una campagna ancora legata a sistemi di produzione e distribuzione tradizionali. Non è un caso se i primi atti di ribellione degli Houthi sono stati causati dalla politica filoamericana e di connivenza con il salafismo introdotto nel paese dai sauditi del presidente Saleh e dal totale disinteresse del potere centrale per le aree rurali e montuose del nord del paese da cui proviene proprio il nucleo storico del clan famigliare degli Houthi.

Ma la geopolitica aiuta a comprendere anche i fatti successivi alla fine dell’imamato nel 1962. È stato lo studioso statunitense Nicholas Spykman ad individuare, in parziale opposizione alla teoria dell’Heartland di Halford Mackinder, nel controllo del Rimland (la fascia costiera del continente eurasiatico) il principio cardine sul quale fondare il sistema di dominio talassocratico del globo da parte della potenza nordamericana. E proprio nello Yemen si trova uno snodo di cruciale importanza per l’attuazione di questo sistema di controllo: lo stretto di Bab el-Mandeb che collega il Mar Rosso ed il canale di Suez con l’Oceano Indiano. Ora, sin dagli anni Sessanta del Novecento, gli Stati Uniti hanno delegato ai sauditi, loro principali alleati regionali, ogni politica concernente lo Yemen. E di fatto, i sauditi, già protagonisti di un conflitto con l’imamato yemenita nei primi anni Trenta, dopo la morte dell’Imam Ahmad (figlio dell’Imam Yahya) non hanno mai del tutto abbandonato il paese.

Alcuni cenni storici a questo punto si rendono indispensabili. Senza tornare indietro fino alla storia delle mitica Regina di Saba, posseduta con l’inganno dal Re giudaico Salomone come ricorda il poema etiope La gloria dei Re, sarà opportuno ricordare che lo Yemen, con alterne fortune, è stato un imamato zaidita fin dal 911 dopo Cristo e che il potere temporale di questo Imam era riconosciuto anche dalla componente sunnita della popolazione. Gli zaiditi sono una corrente dell’Islam sciita che, a differenza della componente maggioritaria dello sciismo rappresentata dai duodecimani, riconosce la legittimità solo dei primi cinque Imam. Questa corrente infatti non riconosce come quinto Imam Muhammad al-Baqir (il “ricercatore che giunge all’essenza delle cose” secondo la tradizione duodecimana) ma il suo fratellastro Zayd che studiò presso Wasil ibn ‘Ata, il fondatore della scuola teologica neoplatonica del mutazilismo resa ideologia di Stato dal califfato abbaside nel IX secolo. Gli zaiditi rifiutano l’idea cardine dello sciismo dell’occultamento dell’Imam: una concezione che deriva dall’impossibilità per un Soggetto partecipe del divino di attestare con la sua presenza fisica alla rovina del mondo derivante dall’assenza di una cosmovisione metafisica. Egli, essendo portatore di una concezione dell’universo-mondo paradisiaco-polare rifiuta l’idea del paradiso perduto. Egli non è un soggetto esule come l’uomo, dunque si occulta e con esso viene ad occultarsi il paradiso stesso fino alla sua Parusia finale che condurrà alla vittoria sull’ingiustizia.

Questa concezione non viene accettata dalla dottrina zaidita perché la comunità non può rimanere priva di una guida. La dottrina zaidita si fonda infatti sul concetto di imamat al-mafdul: ovvero, la possibilità che l’imamato venga affidato anche ad una guida meno qualificata nel caso un individuo migliore non possa svolgere al momento tale funzione. Ciò giustificherebbe il fatto che Abu Bakr e Omar, ma non Othaman, abbiano scavalcato Ali, cugino e genero del Profeta, come guida della neonata comunità islamica nel momento della morte di quest’ultimo. Secondo questa dottrina chiunque discenda da Fatima (la figlia del Profeta) e dia vita ad una ribellione per ristabilire e difendere i principi dell’Islam può diventare Imam. Dunque la discendenza padre-figlio non è obbligatoria. Il primo Imam zaidita a guidare lo Yemen, infatti, non discendeva da Hussein ma da suo fratello Hassan. Inoltre, gli zaiditi, che enfatizzano un rapporto diretto col divino, sono assai vicini al sunnismo ed in ambito giuridico si rifanno alla scuola giuridica hanafita. Non è altresì da dimenticare che esistono diverse forme di zaidismo ed i jarudi, che prendono il nome dal teologo Sulayman ibn Jarir, paradossalmente i più vicini allo sciismo duodecimano iraniano, sono ad oggi quasi estinti nello Yemen,

Dunque, appare da subito evidente che ogni tentativo di presentare l’appoggio, più o meno presunto, dell’Iran al movimento Ansarullah (soccorritori o aiutanti di Dio) legato alla famiglia Houthi sulla base di un’affinità ideologica, religiosa e dogmatica è del tutto infondato. È abbastanza inappropriato anche parlare degli Houthi come alleati dell’Iran. Se non si può negare il sostegno e l’amicizia di Teheran, è altrettanto vero che tale sostegno è di natura più morale che materiale in senso stretto. Ad accomunare la Repubblica islamica con gli Houthi, forse, vi è semplicemente un’idea di rivoluzione che si attui nel pieno rispetto del reale significato di questo termine: ovvero, come re-evolvere, come moto che riporta all’indietro verso un punto di partenza attraverso il quale si neghi con forza quella negazione del sacro imposta dalla modernità occidentale. Il 1962 è l’anno chiave nella storia recente dello Yemen non solo perché sancisce la fine dell’imamato ma anche perché segna l’inizio dell’ingerenza saudita nei suoi affari interni a seguito del conflitto per procura con l’Egitto nasseriano nel più ampio contesto di quella che molti storici hanno definito la “guerra fredda araba”.

Di fatto, il presidente Nasser, partecipando attivamente al conflitto civile nello Yemen in sostegno dei nazionalisti repubblicani e modernisti percepiti come vicini all’ideologia nazionalsocialista in chiave araba da lui propugnata, compì un doppio errore tattico visto che privò l’esercito di preziose risorse fondamentali per il confronto con il principale nemico individuato in Israele e sostenne il cambio di regime in un paese che era già ampiamente schierato con la causa panaraba essendo stata l’unica nazione ad aderire nel 1958 al progetto della Repubblica araba unita proprio con l’Egitto e la Siria ed avendo inviato emissari sia alla Conferenza di Bandung del 1955 che a quella di Belgrado del 1961 dei paesi non allineati. Senza considerare il fatto che l’imamato aveva in più di un’occasione dimostrato la sua ostilità nei confronti dei sauditi portatori di quel wahhabismo percepito come assolutamente estraneo alle forme islamiche tradizionali. E non è da dimenticare che per tutti gli anni Venti e Trenta, l’imamato yemenita, nella prospettiva di combattere la presenza coloniale britannica ad Aden, aveva stretto legami d’amicizia con l’Italia fascista. Non si può dimenticare l’accoglienza che proprio l’Imam Yahya riservò al leggendario “Comandante Diavolo” Amedeo Guillet nel momento in cui questo, malato e isolato, fuggì nello Yemen dopo la sua instancabile guerriglia contro gli inglesi in Africa orientale nel 1941.

Nel momento della morte dell’Imam Ahmad fu paradossalmente l’Arabia Saudita, retaggio coloniale britannico, ad appoggiare il campo conservatore nella speranza di indebolire l’Egitto, che in quel preciso momento storico, con l’Iran alle prese con la fallimentare “Rivoluzione bianca” dello Shah, veniva identificato come il principale nemico da combattere. Il conflitto si concluse con un parziale compromesso nel 1967 dopo il disastro della cosiddetta “guerra dei sei giorni” che sancì il fallimento del progetto panarabo nasseriano. Ma il paese era già profondamente diviso tra un nord in cui l’influenza saudita diventerà sempre più consistente ed un sud satellite dell’URSS orientato verso una forma di marxismo-leninismo con slanci islamisti. La presidenza Saleh, iniziata senza grandi speranze di lunga vita nel 1978, ha segnato nel bene e soprattutto nel male la storia recente dello Yemen. Ancorato il paese all’Iraq di Saddam Hussein, lo Yemen di Saleh non aderì al Consiglio di Cooperazione del Golfo e non condannò l’intervento sovietico in Afghanistan, ma sostenne l’Iraq nella sua vigliacca aggressione all’Iran su procura saudita e nordamericana. E quando l’Iraq occupò militarmente il Kuwait come contropartita per l’ingente sforzo bellico sostenuto contro il paese degli ayatollah, Saleh non potè far altro che sostenere ancora una volta il regime baathista. Cosa che gli costò l’antipatia saudita e come ritorsione il rientro forzato di tutti i migranti economici yemeniti che avevano trovato lavoro in Arabia Saudita negli anni del boom petrolifero successivo al blocco del 1973.

Saleh è anche stato l’artefice della riunificazione del paese e sin dall’adozione della nuova costituzione nel 1994 con il suo il suo partito, il Congresso Generale del Popolo, ed in talune circostanze in combutta col partito islamista Islah, è rimasto saldamente ancorato al potere. Dopo l’11 settembre, come molti altri leader del mondo arabo ha ricercato l’appoggio occidentale con la pretesa di fungere da katechon contro il terrorismo qaidista estremamente attivo nello Yemen sin dal 2000 con il grave attentato al porto di Aden contro un cacciatorpediniere statunitense che costò la vita a 17 marinai. Tanto che nel 2010 il congresso USA ha stanziato la cifra di 150 milioni di dollari per combattere il terrorismo nello Yemen. Le rivolte scoppiate nel mondo arabo a seguito dell’infausto discorso del Cairo di Barack Obama nel 2009 non hanno risparmiato il paese che già nei primi anni duemila, dopo l’assassinio nel 2004 di Hussein al-Houthi da parte delle milizie governative, dovette affrontare in successione almeno dieci diverse operazioni militari del governo centrale contro la ribellione degli Houthi. Una ribellione che ancora una volta non può essere interpretata in chiave settaria visto che Saleh stesso era zaidita.

L’alleanza tra gli Houthi e Saleh, sancita in seguito dell’intervento saudita nel conflitto, che molti ha sorpreso, non può che essere letta esclusivamente in chiave strategica. Questa alleanza aveva il mero obiettivo di arrivare alla conquista della capitale Sana’a e procedere alla defenestrazione del presidente ad interim Abdrabbuh Mansour Hadi, eletto nel 2012 a seguito di un elezione in cui era l’unico candidato e con un mandato presidenziale di soli due anni poi prolungato di un altro anno nel 2014. Per questo ha poco senso parlare di “legittimo presidente yemenita” quando si fa riferimento ad Hadi che, tra l’altro, prima della sua ignominiosa fuga in Arabia Saudita, aveva rassegnato le dimissioni salvo poi essersi rimangiato la parola dichiarando il colpo di Stato ed il Supremo Consiglio Rivoluzionario posto a guida del paese dai ribelli Houthi come incostituzionali.

Non nuovo a voltafaccia e ad ambigui rapporti con i sauditi, Saleh ha sorpreso solo gli analisti meno attenti quando recentemente ha dichiarato di essere pronto (ancora una volta) a “voltare pagina”. E non sarebbe sorprendente se fosse stato pronto ad intavolare nuove trattative con i sauditi ed i loro epigoni nel momento stesso in cui è stato ucciso. I suoi rapporti con gli Houthi non sono mai stati idilliaci e già in settembre si parlò di una sua probabile messa in arresto da parte delle forze rivoluzionarie.

Di sicuro, la sua uccisione segna il passaggio ad una nuova fase del conflitto che terminerà solo con il definitivo annichilimento di una delle due parti in lotta. La criminale azione militare saudita sta assumendo i contorni del vero e proprio “terrorismo di Stato” come è stato definito dai vertici militari iraniani. I bombardamenti sauditi, infatti, ricordano da vicino quelli dei loro alleati sionisti su Gaza. Non vi è nessuna ratio nella scelta degli obiettivi. Ospedali, scuole, moschee e addirittura campi di calcio diventano obiettivi militarmente sensibili sulla base della mera volontà di diffondere terrore e orrore. Gli stessi aiuti umanitari diventano quasi ipocriti e ridicoli se si considera che arrivano dalle stesse mani che armano i sauditi.

La drammaticità della situazione assume dei contorni ancora più tristi se si pensa che l’Imam Khomeini, colui che con la Rivoluzione islamica in Iran ha scatenato l’odio dei wahhabiti sul finire degli anni Settanta del secolo scorso, dichiarò:

i fratelli sciiti e sunniti dovrebbero evitare ogni tipo di disputa. Coloro che tentano di provocare dissidi tra i nostri fratelli sunniti e sciiti sono agenti delle grandi potenze e cospirano con i nemici dell’Islam e vogliono che essi trionfino sui musulmani.

 

Fonte: L’intellettuale dissidente-geopolitica Yemen

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