Barbie è un brand movie divertente e ipocrita

Come una medicina. Prima, durante e dopo la sua uscita é infatti d’obbligo assumere pillole di dibattito su “Barbie”, il brand movie che tiene in allarme i gruppi e i singoli che al cinema chiedono soprattutto come e con chi si schiera. Certo in questo caso le motivazioni risultano meno rudimentali del solito perché, com’é stato abbondantemente divulgato, l’impresa era di quelle che fanno tremare i polsi ovvero tradurre in un superspettacolo con vista sugli Oscar i personaggi e l’universo della bambola più famosa della storia e dunque più esposta ai venti o meglio ai tornadi dei mutamenti del costume e i rivolgimenti delle sensibilità sociali, culturali, pedagogiche e antropologiche.

Greta Gerwig e il consorte cosceneggiatore Noah Baumback hanno costruito costruendo una commedia dalle tinte neo-fiabesche e scegliendo un approccio stratificato ed equilibrato che sarà gradito da pubblici vasti e lascerà a bocca asciutta gli estremisti delle due sponde (ovvero i guardiani della tradizione e gli invasati  della cancel culture).

La carne al fuoco era del resto molta, forse troppa perché l’intento del duo autoriale era trasformare il celeberrimo giocattolo in un’icona femminile a tutto tondo postmoderno e l’identikit dello stesso -30 cm di ragazza bianca, bionda, longilinea, elegante, etero, ricca e soprattutto americanissima- se non in quello di un’attivista, in quello di una donna che ha letto Betty Friedan, si libera dall’ordine patriarcale ed è scortata da un fidanzato che ne condivide sino al martirio lo spirito di autodeterminazione e autocoscienza. Sia la radiosa Robbie, sia l’aitante Gosling (un Ken biondissimo e palestratissimo però opportunamente rieducato a cui si devono le risate più grasse del film) si muovono, infatti, in eccellente sintonia sulle note di un quasi-musical svariante tra il kitsch e il pop, l’alto e il basso, il nostalgico e il polemico con l’ apparente obiettivo di ironizzare sugli standard di femminilità e mascolinità originariamente connaturati al prototipo disegnato da Ruth Handler e commercializzato dalla Mattel.

il film è divertente, ma è il marketing il vero messaggio. Non a caso Barbie è una ragazza etero bellissima e ricca, per assicurarsi il pubblico maschile e soprattutto quello dei bambini e adolescenti.
Se Ryan Gosling e Margot Robbie sono perfetti, il film risulta un eccellente prodotto di intrattenimento dipinge, un’abile operazione commerciale che ritrae tutti gli uomini come dei perfetti idioti, una gioia per molte femministe di oggi.

É sconsigliato svelare i dettagli della trama che prevede un lungo prologo immerso nell’outfit rosa pastello allestito dal super fotografo Rodrigo Prieto per la ricostruzione di un mondo utopico e perfetto, allo stesso tempo iperrealistico in cui Barbie in carne e ossa si sveglia ogni giorno a Barbieland come se fosse il più felice della sua vita, saluta le Barbie abitanti nelle ville circostanti e via via si relaziona con le Barbie giornaliste, fisiche, astronaute, dottoresse, avvocate, diplomatiche.

La seconda e più farraginosa parte sconta gli imprevedibili pensieri “malsani” che la spingeranno  ad avventurarsi con il fedele Ken al seguito in una Los Angeles che nel teatrino a grandezza naturale introduce le tossine della misoginia, le molestie sessuali, le disparità di genere e i lati oscuri del capitalismo (quest’ultima la parte più ipocrita e divertente del film)

Greta Gerwig ha trapiantato con notevole mestiere la propria formazione di cineasta indipendente nel mega formato blockbuster onorando dal punto di vista estetico, scenografico e musicale (perfetta la colonna sonora gremita di Dua Lipa, Tame Impala, Billie Eilish) la propria ispirazione eccentrica e sbrigliata. Magari a luci riaccese la visione lascia una sensazione di superfluità, di troppe strizzatine d’occhio pubblicitarie (Birkenstock, Yamaha, Chanel) e di pragmatismo gattopardesco (è necessario che tutto cambi perché tutto resti identico).

Ripensando però a quello che la cinica Disney sta combinando per compiacere i diktat del cosiddetto gender fluid, alla Barbie promossa da fantoccio-oggetto a personaggio umano sanamente imperfetto va riconosciuto il merito di un ragionevole riallineamento allo spirito del tempo: Barbie non è cattiva e men che mai “fascista” (come a un certo punto viene apostrofata), ma nel Mondo Reale è così che l’hanno disegnata fino a adesso. Per Barbie trans c’è tempo, del resto, ci sta preparando pian piano.

Barbie

 

‘Blade Runner 2049’ di Villeneuve: il senso e il mistero della memoria in un universo disperato

Siccome ci piace pensare che ognuno dei prossimi spettatori di Blade Runner 2049 non sia un replicante, diventa arduo ipotizzare un comune punto di partenza da cui avvicinarsi a uno dei sequel più attesi della storia del cinema moderno. Anche perché il cult movie di Ridley Scott uscito nel 1982 e ambientato nel 2019 guardava molto lontano ma, com’è normale che succeda alle grandi opere fantascientifiche, accettava il rischio d’incorrere in qualche abbaglio e qualche smentita: mentre il cinquantenne canadese Denis Villeneuve, che si è assunto l’arduo compito di affrontare la sfida con l’immaginario di un paio di generazioni di spettatori, sceneggiatori e registi, sviluppa la nuova trama in uno scenario ugualmente cupo e inquietante (sicuramente debitore di Stalker di Tarkovskij), ma vistosamente allusivo di quello attuale quando affiorano traslati messaggi sul clima, l’ambiente, le multinazionali, i miliardari schiavisti.

Il primo dato da metabolizzare su Blade Runner 2049, prim’ancora di azzardare un giudizio è che la componente thrilling non è più maggioritaria (un segreto cruciale è, per esempio, svelato nel corso della missione iniziale), bensì “deglutita” stilisticamente e concettualmente da un poema in forma di incubo audiovisivo di volta in volta intimo/minimalistico oppure spettacolare e visionario, sottilmente romantico e pressoché rarefatto oppure squassato da lampi accecanti di violenza. Difficile prevedere cosa ne penseranno i nostalgici, ma è certo che Villeneuve ha lavorato con gli sceneggiatori nell’intento di non salassare il prototipo, bensì di aumentarne la presa allarmistica e attualistica.

Dopo avere sottolineato che sul meccanismo narrativo pesa molto di più l’influenza del pensiero metafisico-nichilistico dello scrittore Philip K. Dick, autore del romanzo da cui è nato tutto (Il cacciatore di androidi) e che il neo-blade runner si chiama, guarda caso, K. ed è interpretato da un aitante quanto inespressivo Ryan Gosling, si può capire –sia pure patendo confusionarie lungaggini specie nel finale e qualche monologo insopportabile del guru interpretato da Jared Leto– come l’incontro/scontro con il reaparecido Deckard, ovvero un intenso Harrison Ford circondato dagli ologrammi del suo e nostro passato, serva a focalizzare il nucleo del puzzle.

In effetti, avvalendosi della fotografia stupefacente di Roger Deakins e della grandiosa scenografia di Dennis Gassner nonché limitando il consueto e ormai sciatto ricorso al digitale, Blade Runner 2049 torna a interrogarsi sul valore e il mistero della memoria: in un universo sostanzialmente disperato, dove tra l’altro non è possibile usufruire di internet, le azioni, i sentimenti, le sensazioni, i diritti e i doveri della realtà si confondono con quelli molto più incerti e fluidi della realtà virtuale e la speranza di preservare l’identità individuale è affidata ai ricordi degli umani, ma forse anche a quelli dei loro simulacri sintetici. Una scommessa temeraria che va apprezzata benché Villeneuve riesca a vincerla solo in parte.

 

Fonte:

Blade Runner 2049

Oscar 2017: La La Land scippato, ancora una volta trionfano il politicamente corretto e il ricatto sociale

Ancora una volta, come l’anno scorso, la notte degli Oscar 2017 è stata all’insegna del politicamente corretto, della vittoria del Tema, del noioso messaggio rispetto al vero cinema. Questa volta però la notte più lunga di Hollywood sarà particolarmente ricordata per la gaffe finale da sagra paesana che ha dato inizialmente per vincitore il meritevole film del giovane regista Chazelle, La La Land e per quello che ormai sta diventando questo premio. Ha vinto il messaggio del ricattatorio Moonlight e hanno ragione alcuni critici cinematografici quando propongono in maniera provocatoria di chiamarlo Oscar per il Sociale, facendo votare i rappresentanti dell’associazionismo, i benefattori, i filantropi, ma non chiamiamolo più premio per il Cinema; perché, con tutto il rispetto, in Moonlight, polpettone che imposta il dolore come un genere e non come un sentimento, c’è molto meno cinema che in La La Land, (che comunque ha portato a casa 6 statuette) scippato anche dell’Oscar al montaggio.

Dopo Il caso Spotlight dell’anno scorso (ma anche nel 2014 con 12 anni schiavo) sapientemente orchestrato per far applaudire alla mission dei giornalisti d’inchiesta riguardo gli orribili abusi sessuali perpetrati da sacerdoti dell’Arcidiocesi cattolica, e dopo le ridicole polemiche (e accuse di razzismo) inerenti alla mancanza di una rappresentanza “nera” agli Oscar 2016, è stata la volta della preminenza della bontà del tema, nella fattispecie l’amore omosessuale tra due ragazzi neri nella comunità machista della Florida, della pellicola di Barry Jenkins Moonlight. Probabilmente l’Academy degli Oscar 2017, sentendosi orfana di Barack Obama e sull’onda antitrumpista, ha deciso di premiare il black power. Avranno forse pesato anche i 638 nuovi membri di cui il 41% “not white”? Probabile, ma fatto sta che tra la qualità artistica del brioso e postmoderno La La Land e del melò Moonlight c’è un abisso, senza nulla togliere all’intensa interpretazione del musulmano Mahershala Alì, premiato come non protagonista. La La Land è un film citazionista che omaggia il vecchio musical senza rimpiangerlo, che ci mostra come purtroppo spesso è impossibile condividere per sempre dei sogni perfino con chi ti è stato accanto e ti ha aiutato a realizzarli, come accade ai bravissimi protagonista Ryan Gosling, pianista jazz ed Emma Stone, cameriera aspirante attrice, alla quale è andato il premio come migliore attrice protagonista.

Accanto a Moonlight sono stati premiati Fences (Barriere) di Denzel Washington grazie all’Oscar da migliore attrice non protagonista a Viola Davis e documentario O. J.: Made in America. La serata al Dolby Theatre in chiave anti-Trump è proseguita con l’attribuzione dell’Oscar per il miglior film straniero a Il Cliente del forzatamente assente regista Asghar Farhadi che, avendo scelto di non accettare permessi speciali per partecipare alla cerimonia, è rimasto a casa. A sostituirlo c’è stata una concittadina iraniana che ha letto il suo messaggio contro ogni tipo di divisione, come l’attore messicano Gael Garcia Bernal che si è esplicitamente opposto “a qualunque muro separatista di vite e culture”.

I piccoli Oscar radical chic passano, film come Manchester by the sea che traspone la tragedia greca nella provincia americana con grande tensione emotiva e La La Land che non sarà un capolavoro ma coinvolge, soprattutto i sognatori e i cuori infranti, resteranno nella storia del cinema. Piccola soddisfazione anche per l’Italia che, attraverso i truccatori Bertolazzi e Gregorini si è aggiudicata l’Oscar per il miglior trucco. Nulla da fare invece per Fuocoammare di Gianfranco Rosi e tutto sommato non deve dispiacere data la pochezza artistica e la dovizia ideologica del film che si muove solo ed esclusivamente sul filo dell'”ovvio”. Peccato invece per l’esclusione dalla rosa dei candidati come miglior film straniero agli Oscar 2017 di pellicole come Agnus Dei e Animali Notturni.

Oscar 2017: tutti i premi vinti

 

Miglior film

Moonlight

 

Miglior regia

Damien Chazelle, La La Land

 

Miglior attore protagonista

Casey Affleck, Manchester By the Sea

 

Miglior attrice protagonista

Emma Stone, La La Land

 

Miglior attore non protagonista

Mahershala Ali, Moonlight

 

Miglior attrice non protagonista

Viola Davis, Barriere

 

Miglior film straniero

The Salesman (Iran)

 

Miglior documentario

OJ: Made in America

 

Miglior cortometraggio documentario

The White Helmets

 

Miglior film d’animazione

Zootropolis

 

Miglior corto d’animazione

Piper

 

Miglior sceneggiatura non originale

Moonlight

 

Miglior sceneggiatura originale

Manchester by the Sea

 

Miglior colonna sonora originale

La La Land (Justin Hurwitz)

 

Miglior canzone originale

City of Stars (La La Land)

 

Miglior sonoro

Arrival

 

Miglior montaggio sonoro

La battaglia di Hacksaw Ridge

 

Miglior scenografia

La La Land

 

Migliori effetti speciali

The Jungle Book

 

Miglior montaggio

La battaglia di Hacksaw Ridge

 

Miglior fotografia

La La Land

 

Migliori costumi

Animali fantastici e dove trovarli

 

Miglior trucco e acconciatura

Suicide Squad (Alessandro Bertolazzi e Giorgio Gregorini)

 

 

 

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