Dentro (Einaudi 2012) è il libro d’esordio di Sandro Bonvissuto, classe 1970, romano laureato in filosofia, scrittore dalla personalità magnetica.
Sandro Bonvissuto: l’esistenza di un singolo uomo
Il testo è suddiviso in tre racconti lunghi accomunati dalla prima persona, il cui scopo è ripercorrere tre tappe fondamentali della vita di un individuo unico e irripetibile pur nella sua quotidiana banalità.
Il primo racconto, il più lungo, più articolato e meglio scritto dei tre, dal titolo Il giardino delle arance amare (ma avrebbe potuto chiamarsi direttamente Dentro, perché questo internamento è il leit motiv del testo) porta il lettore all’interno di un carcere dove il protagonista si trova rinchiuso per un reato che probabilmente non ha commesso e che al lettore non è dato conoscere. Qui seguiamo lo scorrere lentissimo dei giorni dentro una struttura che niente ha di umano e che, decisamente, non è fatta a misura d’uomo. Bonvissuto, più che narrare una storia, racconta frammenti di immagini carcerarie da cui trae spunto, da laureato in filosofia qual è, per parlare dei massimi sistemi. L’elemento fondamentale di questo primo racconto lungo è proprio questa “astrazione coi piedi per terra”, tratto fondamentale della persona e dello scrittore Bonvissuto. Pur rimanendo, sia nell’uso del linguaggio sia nelle tematiche, nel mondo reale fatto di muri, di odori, di pelle e polvere, l’autore trascina il lettore in lunghe e appassionate riflessioni sul tempo, sullo spazio, sulla vita e sulla morte. Riflessioni per nulla banali, e ottimamente contestualizzate nell’elemento “carcere”. Qui, infatti, dentro questo posto, lo spazio e il tempo assumono caratteristiche peculiari. Riguardo il primo elemento, il passo che segue descrive bene in poche righe l’alienazione di un luogo fatto appositamente per escludere, per separare chi sta fuori (i buoni, i cittadini, gli umani) da chi sta dentro (i cattivi, i fuorilegge, i non-completamente-umani): «Alla fine delle scale c’era un’altra porta; la superai ma ero sempre dentro. Ancora controlli. Altra gente. Vidi una porta più piccola che dava su un posto all’aperto. Uscii, però mi ritrovai sempre dentro.»
Il secondo elemento, il tempo, viene trattato ancora più intensamente: viene riportato alla sua forma originaria, strappato allo schematismo tipico di chi vive in società, fatto di secondi, minuti e ore. Il tempo assume per l’essere-umano-dentro la forma originaria dell’alternarsi di giorno e notte:
«Lì dentro contavano solo i giorni. Dovrebbe essere così ovunque, pensai. L’unica misura valida del tempo dovrebbero essere i giorni, appunto. Tutti gli altri parametri dovrebbero essere considerati quello che sono: convenzioni sociali. Invenzioni. Gli esiti deliranti del perenne tentativo dell’uomo di dominare in qualche modo la sua più grande ossessione: il tempo. […] La vita è i giorni; non le ore né gli anni.»
Altre tematiche fondamentali di questo primo racconto riguardano la giustizia, le condizioni dei carcerati, i rapporti umani che si stabiliscono fra individui che, al di fuori di una struttura contenitiva/punitiva come il carcere, mai sarebbero entrati in contatto fra loro. Rancori, odi, affetti, contrasti, tutto in questo luogo al di fuori del mondo e del tempo (eppure al contempo dentro il mondo e il tempo) risulta distorto, contorto, piegato/piagato da un elemento ineluttabile: il fatto che lì dentro bisogna starci per forza, a prescindere dalla propria volontà, dai propri bisogni, dalle proprie impellenze; da ciò che fuori, là dove la vita prosegue ignara di quegli individui, c’è in serbo proprio per quegli individui.
Il secondo racconto si intitola Il mio compagno di banco, e qui l’autore torna indietro nel tempo (anche in termini di linguaggio si passa al passato remoto) affrontando tematiche legate ai ricordi, all’amicizia e, soprattutto, alla formazione dell’identità personale. Il protagonista, alle soglie dell’adolescenza, si ritrova catapultato in una scuola superiore nuova, dove non conosce nessuno. Il caso lo porta al banco insieme a un ragazzo che, da quel singolo e preciso incontro, diventa per tutto l’anno il suo migliore amico. La singolarità individuale si spezza in quel momento, e l’uno si fa due: la dimensione della persona si amplia, si modifica, si tende verso l’esterno a inglobare quell’altra singolarità individuale che è l’altro da sé. I due amici fanno tutto insieme, e arrivano al punto di voler chiedere alla stessa ragazza di stare con entrambi – perché loro sono uno, sono la prima persona, sebbene al plurale: “noi”. La difficoltà di questo periodo storico sta nel rischio di perdersi: «A forza di stare uno vicino all’altro, avevamo smarrito inconsapevolmente e per sempre le nostre rispettive identità a vantaggio di una nuova dimensione collettiva e duplice. Per questo dovevamo muoverci con circospezione, per non allontanarci troppo l’uno dall’altro.»
Una fusione, dunque, quasi in grado di scardinare una delle basi della filosofia occidentale classica: il principio d’identità e non contraddizione. Questa fusione azzardata è proprio tipica, infatti, del periodo adolescenziale, quello in cui, non a caso, si instaurano i rapporti più intensi con altri individui. Rapporti che, inevitabilmente, creano conflitti tramite i quali si dovrebbe arrivare a una forma superiore di consapevolezza di sé.
Il terzo e ultimo racconto, Il giorno in cui mio padre mi ha insegnato ad andare in bicicletta, tratta a suo modo sempre il tema dell’identità. Stavolta il protagonista è bambino – ha sei anni circa – e si trova in difficoltà perché i suoi amici sanno andare in bici e lui no. Il bambino si trova davanti al primo “grande” ostacolo della sua vita, ossia l’apprendere qualcosa che non sembra poter venire appreso per semplice osservazione e imitazione. Il dramma della non accettazione e dell’incapacità di fronteggiare da solo questa situazione porta il bambino a chiedere aiuto al genitore, una figura fondamentale in questo periodo ma assolutamente confusa. I “grandi”, infatti, sono ancora una volta l’altro da sé, ciò che ancora non si è, ciò che è perfetto e onnisciente: l’incarnazione più simile a quel vago concetto astratto della divinità. E proprio il padre – quello stesso padre che, freudianamente, qualche anno più tardi diventerà punto di contrasto – arriva in questo momento storico a risolvere il problema nel modo più semplice. Bellissimo e intenso il dialogo fra padre e figlio:
– Dimmi solo che devo fare.
– Non lo so figliolo, nessuno lo sa.
– Pensi che ce la farò?
– Diciamo che è probabile, ma non è sicuro.
– Mi aiuterai?
– Non posso, la solitudine è una condizione indispensabile.
– E che farai?
– Starò qui, e sarò testimone dell’incredibile.
Questi tre racconti che formano il libro Dentro, apparentemente legati solo dalla prima persona narrante, sono invece tasselli fondamentali per conoscere tre momenti diversi e nodali della vita di una persona. Sebbene solo nel primo racconto siamo effettivamente “dentro”, negli altri due assistiamo a ciò che avviene all’interno di un individuo, i cui confini spaziali sono determinati dall’esistenza della pelle (che separa il fuori dal dentro), mentre quelli temporali sono dati dalla memoria, fonte primaria dell’identità personale.
In questo modo, con un linguaggio coerente e lirico, ma mai troppo astratto né patetico, Bonvissuto ci porta dentro il mondo di questo singolo essere umano che noi tutti siamo.