‘In Rock’ dei Deep Purple: Un monumento in musica

In Rock. Più che un titolo, un imperativo categorico. Un comandamento. Uno stile di vita. Con questo incredibile quarto album i Deep Purple sprigionano, per la prima volta, il loro inimitabile sound, ruvido come carta vetrata, solido come una roccia e grande come una montagna. Già dalla copertina (a giudizio dello scrivente una delle più belle mai realizzate) Gillian e soci mettono subito le cose in chiaro, facendosi ritrarre scolpiti sul fianco del Monte Rushmore, al posto degli storici presidenti degli Stati Uniti. Non si tratta di megalomania ma di grandezza e potenza. Dopo aver sostituito Rod Evans e Rick Simper con Ian Gillian e Roger Glover, i Deep Purple trovano la quadratura del cerchio e si apprestano a diventare i “presidenti” della scena musicale anni ‘70. Non per nulla sono considerati, insieme a Led Zeppelin e Black Sabbath, i padri fondatori dell’hard rock e successive derivazioni. Ma mentre gli Zeppelin sono più immediati e sanguigni ed i Sabbath più tormentati e rabbiosi, i Deep Purple sono più tecnici e raffinati, contaminando il loro stile con la psichedelia, il progressive e persino le suggestioni classiche.

“La gente mi chiede ‘oh qual è il tuo album preferito?’ Per me è sempre In Rock perché quello è il nucleo da dove veniamo” (Roger Glover)

In Rock- Harvest Records-1970

Sulla solida base ritmica fornita dal duo Paice/Glover, si innestano i sofisticati fraseggi di organo ad opera di John Lord ed i funambolici riff chitarristici di Ritchie Blackmore. La voce di Ian Gillian fa il resto. Vola in alto, urla, riscende su toni più morbidi marchiando a fuoco capolavori come Child In Time, Into The Fire, Speed King, Bloodsucker e Living Wreck. La tecnica complessiva del gruppo è, a dir poco, strabiliante. Accelerazioni improvvise, cambi di tempo, velocità d’esecuzione supersonica, assolo vertiginosi, volume impressionante e distorsioni estreme fanno di In Rock un caposaldo per chi vuole immergersi nel mondo del rock estremo sia come musicista che come semplice ascoltatore. Gruppi come Rainbow, Whitesnake, Iron Maiden fino ad i recentissimi Dream Theather, Slayer e Black Label Society hanno letteralmente consumato i microsolchi di questo disco cercando di carpirne i segreti e ricrearne la splendida alchimia. Tuttavia non è un album di facile ascolto. Il mare di note prodotte, il suono decisamente insolito (siamo nel ’70 ma la cosa vale ancora oggi), la complessità tecnica e strutturale dei brani in esso contenuti richiedono una certa predisposizione musicale ed una indubbia passione per il genere.

Deep Purple-1970

Non ne sono stati tratti singoli da hit parade (a parte forse Child In Time) eppure le vendite sono state ottime in quasi tutto il mondo. Il tour promozionale In Rock World Tour, durò più di un anno registrando ovunque il tutto esaurito segno che i Deep Purple si erano definitivamente trasformati da oscura band di pop psichedelico in Dei dell’Olimpo. Tendenza confermata dai successivi capolavori, Fireball e Machine Head, che spinsero il gruppo ancora più lontano, alle soglie dell’immortalità. Tuttavia In Rock resta un album fondamentale, uno dei più significativi della storia della musica in cui prende vita uno stile ed un suono completamente inedito ed innovativo, unitamente ad un modo di concepire il rock non solo come musica semplice ed immediata ma anche un come mezzo per dar sfogo a tutte le proprie competenze tecnico/compositive. Da li a poco sarebbe nato il progressive che, com’è noto, prevede lunghe suite strumentali ed una grande abilità con gli strumenti. Anche in questo caso il debito nei confronti di quest’album è incalcolabile. Il suo spirito e la sua magia sono riscontrabili in molta della musica prodotta nei decenni successivi a dimostrazione che il nome dei Deep Purple dopo In Rock è rimasto scolpito nell’immaginario collettivo proprio come i volti dei suoi autori nella celeberrima copertina.

Led Zeppelin II: Il martello degli dei

Il secondo album è sempre il più difficile. Non sempre e non per tutti. In questo caso il dirigibile più famoso del rock si stacca da terra e prende il volo. Dopo un ottimo debutto, nel 1968, con l’album omonimo, i Led Zeppelin, nati quasi per caso dalle ceneri degli Yardbirds, smettono di essere una buona band per vestire i panni di demiurghi dell’hard rock. E come fanno? Semplice, elevando il blues all’ ennesima potenza. Distorcono le chitarre, accelerano i ritmi, sporcano i suoni, ispessiscono il basso e ingigantiscono le percussioni. Il risultato è una miscela esplosiva su cui si innesta una voce stridula e acuta che non esita a dissertare su temi considerati tabù, uno su tutti: il sesso. Led Zeppelin II è carne e sangue, amore e sesso, vita e morte fusi in un tutt’ uno solido come una roccia.

Dall ’indiavolato balbettio di Jimmy Page in Whole Lotta Love, al rombo tonante di John Bonham in Moby Dick, passando per l’incandescente riff di Heartbreaker”, la sorprendente tenerezza di Thank You”, o gli incredibili fraseggi di John Paul Jones in Lemon Song”, il gruppo non fa sconti. Registrato in tour, nei ritagli di tempo tra una data e l’altra, è un album che fa dell’immediatezza il suo punto di forza. Non è il cervello, infatti, ad essere colpito, ma lo stomaco e l’anima di chiunque ne entri in possesso. C’è poco da capire o da decifrare. Bisogna ascoltarlo più col cuore che con la testa. E’ necessario lasciarsi trasportare dal ritmo travolgente e dall’ululato selvaggio di Robert Plant, per entrare definitivamente nel fantastico mondo degli Zep.

I Led Zeppelin nel 1969

Considerato immediatamente “un classico”, Led Zeppelin II mise immediatamente d’accordo pubblico e critica arrivando a scalzare dai primi posti in classifica nientemeno che Abbey Road”, l’ultimo grande capolavoro dei Beatles. Agli inizi del 1970, ne furono vendute tre milioni di copie solo negli Stati Uniti. L’immenso successo di un album così decisamente in controtendenza con le mode musicali del momento (siamo nel 1969, l’anno di Woodstock, della psichedelia e del flower power), dimostra, senza ombra di dubbio, il suo valore intrinseco, capace di trascendere rigide classificazioni stilistiche e gusti musicali. Le sue eco, infatti, sono ovunque.

La Gibson Les Paul di Page o la batteria mastodontica di Bonham sono, ormai, delle vere e proprie icone. Il look e lo stile di Plant hanno contribuito a concettualizzare e definire il termine rockstar. Da questo momento in poi, decine di gruppi hanno cercato, per tutta la vita, di somigliare, anche solo lontanamente ai Led Zeppelin. AC/DC, Van Halen, Bon Jovi, Guns ‘N’ Roses, Aerosmith e Iron Maiden, solo per citarne alcuni, hanno a più riprese ammesso l’enorme importanza che quest’album ha avuto per le loro carriere. Page & Co. in futuro non scriveranno più pezzi così eccitanti e travolgenti. Certo, scriveranno altri capolavori ma non avranno la stessa furia e lo stesso suono delle tracce contenute nel loro secondo disco. E’ considerato il lavoro più duro e “virile” della band, ma nel contempo il più seminale e influente.

Qui, d’altronde, c’è già tutto: le radici blues, i sentori psichedelici, le divagazioni tolkeniane, i richiami folk, le love ballad,  perfettamente amalgamati ed eseguiti con tecnica stupefacente ed incredibile potenza. In altre parole la rabbia, gli istinti animaleschi, i punti deboli e l’energia dei Led Zeppelin catturati da un microfono e distillati in nove magnifici brani. E’ il manifesto programmatico di gran parte del rock che verrà negli anni successivi; “le  tavole della legge” per una intera corrente musicale che da quel momento prenderà il nome di hard rock per evolversi, poi, in heavy metal (e suoi derivati). Negli anni, schiere di ascoltatori e di musicisti si sono confrontati con gli standard zeppeliniani qui contenuti cercando di riprodurne i riff funambolici ed i vocalizzi inarrivabili, a dimostrazione che, a trentaquattro anni dallo scioglimento, gli Zep continuano a solcare cieli talmente alti che solo il loro dirigibile è in grado di raggiungere.

 

 

 

 

Exit mobile version