«Verrà un tempo in cui il quadro non basterà più: la sua immobilità sarà un anacronismo col movimento vertiginoso della vita umana. L’occhio dell’uomo percepirà i colori come sentimenti in sé: i colori moltiplicati non avranno bisogno di forme per essere compresi, e le opere pittoriche saranno emanazioni luminose, gas colorati, che sulla scena d’un libero orizzonte commuoveranno ed elettrizzeranno l’anima complessa d’una folla che non possiamo ancora concepire». Questa precisa raffigurazione dello scenario artistico moderno viene da un nostro eccellente contemporaneo: Umberto Boccioni. Un contemporaneo dello spirito, un autore postumo a se stesso, per dirla con l’amato Nietzsche, una cartina tornasole della modernità e delle sue contraddizioni. A offrire una lucida esegesi di questo gigante dell’Avanguardia interviene il poderoso studio di Roberto Floreani, Umberto Boccioni Arte-Vita (Electa Mondadori, Milano 2017).
Una ricerca che è, di fatto, un viaggio nella potenza dissidente e dissacrante di un dinamitardo del Novecento, un anello di congiunzione fra artisti, prospettive, visioni del mondo e, insieme, foriero di un’insanabile frattura: quella delle categorie stesse dell’Occidente tradizionalmente inteso. Sì, perché a emergere dalla prosa di Floreani è un Boccioni sfaccettato, complesso, mai riconducibile a un principio d’individuazione univoco. È il Boccioni privato, scisso nella sua interiorità di moderno, tormentato dal rapporto col mondo femminile e con la propria stessa autopercezione; è il Boccioni movimentista, fulcro propositivo dell’indirizzo futurista, inesausto autore di Manifesti, raffinato e profetico teorico dell’estetica moderna; è il Boccioni pittore, genio capace di oltrepassare il retaggio divisionista per giungere a un’astrazione matura ed espressiva, incentrata sulla dinamicità delle forme, nonché l’eccellente scultore, creatore di opere, perlopiù andate distrutte, in cui sono raggiunti risultati sperimentali destinati a ripresentarsi solamente negli anni Sessanta; è il Boccioni-simbolo, l’incarnazione corporea di uno Zeitgeist, la congiunzione fra virulenza, sensualità carnale e sensibilità spirituale, ricerca introspettiva, incessante labor limae; è, infine, il Boccioni avanguardista, raffinato cartografo della coscienza occidentale e preveggente anticipatore di un indicibile e misterioso afflato che sarà pervasivo delle principali espressioni artistiche del Secondo dopoguerra: dall’anti-teatro di Carmelo Bene alle istanze spazialiste e spiritualiste di Lucio Fontana, dall’attitudine ribelle dell’Arte Povera allo stile comunicativo di Andy Warhol, sino ad approdare all’anticonformismo di Mario Schifano.
Le considerazioni di Floreani sull’eredità boccioniana sono indubbiamente mature: non si tratta di leggere l’intero percorso della contemporaneità come consapevole, diretta emanazione dell’Arte-Vita futurista, bensì di comprendere all’inverso come tante istanze delle poetiche più spregiudicate degli ultimi decenni siano già presenti in nuce nell’anticipatrice prassi estetica di Boccioni. Il Futurismo ha concluso il suo percorso storico nel 1944, con la morte di Filippo Tommaso Marinetti, ma le sue travolgenti cariche eccentriche e antisistemiche riemergono progressivamente, come un fiume carsico, nello scenario artistico occidentale – lo stesso titolo della Biennale Arte di Venezia del 2017, Viva Arte Viva, non strizza forse l’occhio all’indimenticabile formulazione boccioniana?
Che poi spesso la sintassi autenticamente rivoluzionaria del Futurismo sia stata convertita a posteriori in una significazione annacquata, funzionale allo status quo, fuorviata da una rilettura progressista e democratica della stessa nozione di Avanguardia, è un fatto indubbio. Rimane la testimonianza di Boccioni, di questa leggenda giovane ma non affetta da giovanilismo, di cui Floreani offre un quadro a tutto tondo. Vi riesce, non a caso, in quanto egli stesso pittore.
Contro i professori, ancora una volta, tuona potente l’adagio futurista. Il testo può così essere letto come un meta-dipinto, una tessitura linguistica di uno schizzo visivo immaginifico: Boccioni trasfigurato dalla penna di Floreani così come nelle campitura delle sue tele astratte. Al centro, saldo, un perentorio messaggio: «L’Arte deve divenire una funzione della vita», «se non si riesce a rimettere l’Arte nella vita, i posteri rideranno di noi». Tutto lo studio – come la biografia di Boccioni – non è che una danza attorno a questa lirica affermazione. Ecco allora il confronto con l’infanzia e la travagliata giovinezza del futurista, con la sua spontanea vocazione artistica che lo porta a stringere amicizia duratura con Gino Severini.
Floreani ci conduce poi fra i taccuini boccioniani, stretti fra la denuncia del provincialismo italiano e la lacerante tensione spirituale, fra gli accessi nietzscheani e le iperboli amorose, sino alle dichiarazioni programmatiche: l’artista intende procedere
cantando questa nostra epoca moderna, così odiata da quasi tutti gli artisti […] ora il gran cuore e la gran mente dell’umanità va verso una virilità che è fatta di precisione, di esattezza […] il mondo comincia una nuova era e vuole della sostanza, in altre parole l’Arte deve diventare una funzione della vita.
Un’utopia – a tratti ingenua – di una modernità altra da quella storicamente affermatasi. Un’altra modernità futurista, quella immaginata da Boccioni, tradita dagli epigoni del modernismo ma ancora riecheggiante, talvolta, in certe oasi del nostro desertico paesaggio. «All’uomo non resta che lo spirito. Tutto va verso lo spirito» appunta il giovane Boccioni, che, per dirla con Floreani, si va trasformando in una sorta di artista-monaco e, di qui a pochi anni, in artista-monaco-guerriero, come nei templi Shaolin della profonda Cina.
Un’immagine che compendia l’intero arco esistenziale di Boccioni: dall’ascesi artistica individuale all’incontro con altri esteti dell’eccesso – Marinetti, Carrà, Russolo, Balla su tutti –, dalla nascita del movimento futurista, con i Manifesti, le mostre internazionali, le serate futuriste e la ribalta agli onori della cronaca, fino alla partecipazione alla Grande Guerra. Modernolatria, patriottismo, culto della velocità, volontarismo, rifiuto della democrazia, feroce critica alla borghesia. Questo fu il Futurismo. Ma anche, e qui le osservazioni di Floreani vanno molto in profondità, esigenza di senso, ricostruzione mistica dell’universo, consapevolezza – chiarissima in Boccioni – che la vita risiede nell’unità dell’energia, che siamo dei centri che ricevono e trasmettono, cosicché siamo indissolubilmente legati al tutto, che, persino, il nostro trascendentalismo fisico è un […] primo passo verso la percezione di […] fenomeni finora occulti della nostra sensibilità ottusa.
Boccioni, catalizzatore per il coinvolgimento degli artisti nel Futurismo su preciso mandato di Marinetti, riunisce in sé queste diverse componenti. Ne fa polarità feconda, caos da cui partorire la stella danzante evocata da Nietzsche. Un astro che porta primariamente il segno della rivendicazione poliforme dell’opera d’arte totale: «Senza Boccioni – scrive Floreani – il Futurismo non avrebbe probabilmente intrapreso la multidisciplinarietà con tale slancio e qualità intrinseca, in modo così convincente e rivoluzionario». Questa sorta di «alter ego di Marinetti, ma più medianico, più profetico, più rigoroso» segnerà più di ogni altro, con la sua ricerca di una sintesi fra particolare e universale, la storia del Futurismo.
Lo ricordano con efficacia i numerosi pezzi commemorativi pubblicati sull’ormai storica testata «Futurismo-Oggi» negli anni ’70 e ’80: l’amore per le sue «creazioni dinamiche di fuoco, di forza, di fede» (Eva Kuln Amendola/Magamal Futurista) si mostra nei “Comitati W BOCCIONI!” e nei riconoscimenti che la redazione del “Periodico mensile per i giovani futuristi italiani diretto da Enzo Benedetto” frequentemente concede all’artista. Così, nel nuovo millennio, tornare a Boccioni significa tornare a confrontarsi con la scintilla mai sopita del genio italiano ed europeo. Uno stile, quello delle scintille dell’Arte-Vita, con cui infiammare un presente quanto mai fosco.
L’intellettuale dissidente