Tre ore che non affaticano ovvero affaticano a seconda del grado di feeling individuale col cinema di Ryusuke Hamaguchi, la nuova star del cinefirmamento giapponese. “Drive My Car” è il secondo exploit, in effetti, di un anno fortunato perché vincitore del Premio alla migliore sceneggiatura di Cannes 2021 a distanza di poche settimane dal Gran Premio della Giuria della Berlinale andato a “Il gioco del destino e della fantasia”: specialista delle operazioni a cuore aperto sui personaggi soprattutto femminili, il quarantatreenne regista laureato all’Università delle arti di Tokyo.
Yûsuke Kafuku, un attore e regista che ha da poco perso la moglie per un’emorragia cerebrale, accetta di trasferirsi a Hiroshima per gestire un laboratorio teatrale. Qui, insieme a una compagnia di attori e attrici che parlano ciascuno la propria lingua (giapponese, cinese, filippino, anche il linguaggio dei segni), lavora all’allestimento dello Zio Vanja di Cechov. Abituato a memorizzare il testo durante lunghi viaggi in auto, Kafuku è costretto a condividere l’abitacolo con una giovane autista: inizialmente riluttante, poco alla volta entra in relazione con la ragazza e, tra confessioni e rielaborazione dei traumi (nel suo passato c’è anche la morte della figlia), troverà un modo nuovo di considerare sé stesso, il proprio lavoro e il mondo che lo circonda.
il film mette in scena la progressiva “distruzione” di questi due ambienti e l’evoluzione del suo protagonista: dalla ricerca individuale e soggettiva, Kafuku impara ad accogliere e ad ascoltare gli altri, aprendo lo spazio inviolabile dell’automobile a un’altra persona e osservando la realtà che lo circonda con altri occhi.
In Drive My Car ci sono due tipi di silenzio: uno legato al linguaggio dei segni, e dunque in grado di comunicare, e un altro che segna il rapporto fra Kafuku e Misaki. Le loro conversazioni si fanno sempre più rade mano a mano che si conoscono e nel finale, durante il lungo viaggio verso nord, arrivano a capirsi quasi senza parlare. È il loro silenzio a indicare la profondità del loro legame e in qualche modo a farsi anch’esso una forma di comunicazione.
Leggendo Murakami infatti si capisce come il personaggio di Vanja abbia una corrispondenza narrativa ed emotiva con Kafuku, il protagonista della storia. Entrambi devono cominciare una nuova vita dopo aver terminato quella precedente senza aver rivolto alla persona che amavano le domande che più contavano.
Nel film, poi, Cechov assume un’importanza ulteriore per il fatto che al cinema non è possibile raccontare in prima persona e dunque mi servivano le battute del suo testo per comunicare l’intimità dei personaggi. Molte di queste battute sono già nel racconto di Murakami e credo siano una delle prove della grandezza di Cechov, la sua capacità di far dire ai personaggi cose che illustrano l’essenza della vita e che nel quotidiano nessuno di noi ha la possibilità o la libertà di dire apertamente.
La 71ª edizione del Festival di Cannes è terminata con le melense e prevedibili dichiarazioni anti-Weinstein di Asia Argento che con l’arte del cinema c’entra ben poco, l’assegnazione della Palma d’Oro e diversi altri premi, da parte della giuria presieduta da Cate Blanchett. Ad aggiudicarsi la Palma d’oro per il Miglior Film è la pellicola drammatica giapponese Shoplifters di Kore-eda Hirozaku.
La giuria della kermesse francese ha premiato entrambi i film italiani in Concorso assegnando la Palma d’Oro per la Migliore Interpretazione Maschile a Marcello Fonte, protagonista di Dogman, un racconto di morte che ha per protagonista il male, quello che contagia, ammala, fa diventare i buoni cattivi e viceversa di Matteo Garrone, che ha ricevuto il riconoscimento da Roberto Benigni e ha dichiarato: “Ringrazio Matteo che ha avuto il coraggio e la follia di volermi con sé”. La pellicola girovaga ma e poco riuscita Lazzaro felice di Alice Rohrwacher che deve molto al cinema del compianto Ermanno Olmi, ha invece ottenuto il premio per la Migliore Sceneggiatura e la regista ha ringraziato la giuria e la sua presidentessa per aver preso sul serio una sceneggiatura così bislacca, così come i bambini prendono sul serio i giochi.
Pawel Pawlikowski è il Miglior Regista con Cold War drammatica storia d’amore ambientata nella Polonia degli anni ’50. Anche nella sezione Quinzaine des Réalisateurs l’Italia si fa notare con Troppa grazia di Gianni Zanasi che ottiene il riconoscimento Europa Cinemas Cannes Label. Spike Lee porta a casa il Gran Prix per il suo BlacKkK.lansman: “dedico il premio agli afro-americani. Il mio film dice quello che penso su Trump”.
Kore-Eda si è meritato questo riconoscimento per aver realizzato una pellicola intensa e delicata allo stesso tempo, con al centro una famiglia anticonvenzionale che l’autore nipponico ha inquadrato con grande sensibilità. Il film percorre solo in apparenza binari antichi, nascondendo una differente declinazione della materia, che guarda al sociale come l’autore non faceva dai tempi di Nessuno lo sa. Il primo segmento dell’opera sembra esaudire appieno le aspettative di quest’ultimo, introducendolo a un gruppo di ladruncoli che, per interesse prima e per affetto poi, si ritrova a festeggiare un colpo, simulando di avere dei rapporti effettivi di parentela. Tutto sembra procedere nella direzione più attesa, sino alla svolta narrativa che riapre il vaso di Pandora e rimette tutto in discussione. “Buoni”, “cattivi”, giusto e sbagliato, diventano concetti ribaltati sullo spettatore e sui suoi dubbi, con una padronanza della narrazione – già intravista nel “rashomoniano” The Third Murder – che guarda al relativismo di Kurosawa, ancor più che al consueto termine di paragone del connazionale Ozu. Il conflitto tra legge morale e legge sociale trasforma i toni quasi da commedia della rappresentazione della famiglia fittizia in un dramma colorato di nero, che colpisce come una sferzata, dopo aver aperto il cuore al sentimento.
Una Palma d’oro speciale è andata a Jean-Luc Godard, maestro del cinema francese e della Nouvelle Vague, che ha portato quest’anno a Cannes la sua ultima, sperimentale creazione: Le livre d’image.
Miglior attrice, invece, alla kazaka Samal Yeslyamova per Ayka di Sergey Dvortsevoy. Da segnalare anche la Caméra d’or, il titolo per la miglior opera prima, andato al sorprendente Girl del belga Lukas Dhont, film presentato nella sezione Un Certain Regard.
Va inoltre ricordato che il cinema italiano ha ottenuto riconoscimenti importanti anche tra i film presentati all’interno della Quinzaine des Réalisateurs, sezione parallela del festival: Samouni Road di Stefano Savona ha vinto il premio come miglior documentario dell’intera kermesse.
Si alza il vento (Giappone,2013), tratto dal racconto di Tatsuo Hori, è l’ultimo lungometraggio del celebre cineasta giapponese Hayao Miyazaki, ritiratosi dalle scene proprio dopo l’uscita di questo film. La pellicola, firmata rigorosamente dallo Studio Ghibli, è stata candidata a numerosi e prestigiosi riconoscimenti, come l’Oscar al miglior film d’animazione, il Golden Globe per il miglior film straniero e il premio della Japanese Academynella categoria animazione dell’anno.
Si alza il vento (che prende il nome dalla citazione di Paul Valèry che dice: “Le vent se lève!… Il fauttenter de vivre”) narra la storia di Jirō Horikoshi, personaggio ispirato al famoso progettista aeronautico giapponese creatore dei famosi ‘Zero’ usati durante la Seconda Guerra Mondiale, che sogna di diventare un progettista di aeroplani sin da ragazzo, quando in sogno vede il suo idolo Giovanni Battista Caproni che gli confessa che costruire aerei è ancora meglio che pilotarli. Il film ripercorre parte della sua vita, dall’adolescenza alla maturità, dall’incontro fortuito con Nahoko, la ragazza che anni dopo diventerà sua sposa, durante il grande terremoto nel Kanto del 1923, alla progettazione degli Zero e alla morte della moglie di tubercolosi.
L’impegnativo film rientra in pieno nello stile di Miyazaki, mischiando magistralmente la realtà ( in questo caso la Storia giapponese della prima metà del Novecento) con la fantasia (le scene dei sogni di Jirō), che rimane comunque una componente limitata rispetto ad altre produzioni dello stesso regista, come La città incantata (2001) e Il castello errante di Howl (2004). I temi fondamentali sono il volo, l’arretratezza del mondo orientale rispetto a quello occidentale (soprattutto nelle scene in Germania in cui Jirō si meraviglia del riscaldamento centralizzato e dei bagni in camera), l’accusa alla politica guerrafondaia del Giappone di quegli anni (nelle parole di Hans Castorp che verrà poi perseguitato dalla polizia imperiale), le aspirazioni lavorative in contrasto con la vita privata (Nahoko verrà in sogno al marito dopo la sua morte e gli consiglierà di mettere finalmente da parte le sue aspirazioni e di vivere davvero).
La storia d’amore è piuttosto flebile e il tentativo di renderla poetica e smaliziata si trasforma in una mancanza di ‘profondità’, funge da mero contorno alla parte storica, che è la reale protagonista del film e anche la parte più riuscita. D’altronde l’elemento romantico (che fa la sua prima comparsa in un film di Miyazaki nel 1995 con I sospiri del mio cuore) non rientra tra le tematiche di fondo della sua poetica. Si alza il vento risulta una pellicola emozionante, nonostante i suoi 126 minuti di durata e una certa lentezza di ritmo che pregiudica alcuni passaggi, in cui il tocco di Miyazaki lascia come sempre un marchio indelebile riuscendo a creare dal nulla un mondo vero e astratto al tempo stesso, mostrando allo spettatore le bellezza di essere vivi in questo mondo, come solo i migliori artisti sanno fare.
(23 Marzo 1910, Tokyo -6 Settembre 1998, Setagaya)
Dopo la seconda guerra mondiale, il cinema del Sol Levante approfitta del bienno democratico per avviare una ristrutturazione economica: accanto ai tre colossi Shochiku, Toho e Daiei, sorgono molte società indipendenti. Si tratta di imprese verticali che detengono il monopolio sul mercato della produzione e della distribuzione delle pellicole. Il Giappone nel dopoguerra produce annualmente la bellezza di 500 film, nonostante l’invasione dei film americani.
La conoscenza del cinema nipponico in Occidente risale alla Mostra di Venezia del 1951, anno della proiezione di Rashomon di Akira Kurosawa che si aggiudica il Leone d’oro e l’anno successivo l’Oscar come miglior film straniero. Il film riflette sulla natura dell’uomo e sulla sua predisposizione alla menzogna, guidata: verità e desiderio di giustizia non contano, conta solo la salvaguardia del proprio onore. Ma Kurosawa va oltre, e riflette su un’altra forma di menzogna che è l’immagine del cinema stesso.
All’uscita del film si disse che tutto poteva rappresentare questa storia di un delitto commesso del XII secolo e narrato secondo quattro punti di vista dei personaggi che vi sono stati coinvolti, tranne che la cultura giapponese. E non è un caso che un critico americano abbia detto che “Kurosawa aveva imparato l’arte della fotografia da Fritz Lang, quella della rappresentazione teatrale da Pirandello e che era stato ispirato dalla musica di Ravel. In questo modo il suo cinema svolge una funzione di un meraviglioso intermediario”.
Per il regista nipponico conta la separazione-convivenza tra la tradizione culturale giapponese e l’influenza della cultura occidentale, organizzando l’azione sui serrati ritmi del film d’avventura tipicamente americani. Anche i film successivi del grande regista, pur essendo così giapponesi nello stile, hanno derivazioni europee, si ispirano a Dostoevskij (L’idiota, 1951), a Shakespeare (Il trono di sangue, 1957, è il Macbeth, Ran, 1985, è Re Lear), accogliendo istanze occidentali, nascendo in collaborazione con stranieri (Dersu Uzala del 1975 è una coproduzione nippo-sovietica, Kagemusha, 1980, e Sogni, 1990, sono stati realizzati grazie all’intervento del cinema statunitense).
Una scena tratta dal film “I sette samurai”
Kurosawa è un testo vivente di culture diverse, di sogni, di dolori, di visioni che non possono non colpire l’animo umano. A differenza dei suoi connazionali Ozu e Mizogushi, Kurosawa non è discreto, racconta il dolore umano con una tensione visiva al limite del sopportabile con il suo scorrere di immagini esasperate e violente, il delirio di angosce in personaggi vittime di dubbi e tormenti. Si prenda ad esempio il finale allegorico del film Rapsodia in agosto del 1991: è la sequenza che riscatta la banalità della declamazione contro la guerra. La nonna, che vide suo marito morire nell’esplosione atomica di Nagasaki, corre come una pazza nell’uragano che si è scatenato nel bosco. Corre verso Nagasaki, corre verso la morte. Il colore a poco a poco diviene più cupo, non è più il rosso dell’esplosione atomica, ma un grigio-verdastro sempre più simile al nero nel quale annegherà alla fine la nonna.
Kurosava proviene da una famiglia numerosa, il padre discende dai samurai, uno dei fratelli è un intellettuale, profondo conoscitore della cultura occidentale e del cinema. Akira dipinge, si occupa di politica, odia i costumi oppressivi che dominano la società e l’individuo, afflato libertario che introduce in ogni suo film. Ne L’angelo ubriaco del 1948, il medico Matsunaga si scontra con il boss del quartiere e cerca di eliminarlo, ma prima di raggiungerlo sogna di vedere il suo doppio in una bara. Il gangster, tisico, mentre sta per un uccidere il suo rivale, è soffocato da uno sbocco di sangue e il medico lo uccide. Per il regista non c’è possibilità di riscatto nei bassifondi nella violenta e misera città del dopoguerra.
Dal film “Dersu Uzala”
Anche Cane randagio (1949) è ambientato nei bassifondi: il cane randagio del titolo è un piccolo delinquente che ha rubato la pistole ad un poliziotto; accompagnato da un commissario, il poliziotto comincia la ricerca ma il commissario viene ucciso dal ladro. Il poliziotto lo prende. Il piccolo delinquente si è rovinato perché la società in cui viveva non gli ha offerto nulla.
Kurosava è un fine osservatore della realtà che lo circonda, le sue immagini espressionistiche sono un valido documento degli ambienti urbani del Giappone del dopoguerra. Dopo il film in costume Rashomon, il regista incupisce la sua visione pessimistica della vita con i film Hakuchi (ricavato da L’idiota, 1951) e Ikiru (Vivere, 1952). Il secondo film contiene un espediente narrativo molto efficace: mentre il protagonista malato di cancro, vaga angosciato per la città, perché non è riuscito a realizzare il parco giochi di cui si era occupato, un flashforward proietta l’azione nel futuro prossimo, quando l’uomo sarà già morto e all’inaugurazione del parco solo le madri con i loro figli si ricorderanno di lui.
I film in costume (jidaigeki) hanno di nuovo il sopravvento e riscuotono un grande successo anche all’estero: I sette samurai (1954), Il trono di sangue (1957), La fortezza nascosta (1958). I sette samurai, chiamati dai contadini di un villaggio per diferderli dai banditi, si battono in maniera eroica, quattro di loro perdono la vita per salvare il villaggio. Il ritmo è incalzante, gli attori magistrali. Più contratto risulta essere la trasposizione del Macbeth nel ‘500 giapponese: il film dimostra come sia possibile far convivere tradizione giapponese e influssi occidentali. La fortezza nascosta si presenta come una ballata grottesca incentrata sulla fuga di una principessa scortata da un generale e da due contadini per mettere in salvo se stessa e il tesoro della sua famiglia sterminata dai nemici. Tutto finisce per il meglio grazie all’intervento di un deus ex machina.
Dal film “Ran”
Nel 1970 Kurosawa gira il suo primo film a colori, tratto da L’idiota, posto in un contesto contemporaneo: in una bidonville impazziscono i muoiono barboni di ogni genere. Pubblico e critica non apprezzano e l’ipersensibile Kurosawa sfiora il suicidio. Si risolleva grazie alla proposta del regista Gerasimov che gli chiede di girare nella taiga siberiana: Dersu Uzala Il piccolo uomo delle grandi poanure (1975), pellicola densa di colori e di luci e di fatti minimi ma fortemente significativi. Kurosawa si riscatta vincendo anche il festival di Mosca e L’Oscar per il miglior film straniero.
Il jidaigeki celebra con Kagemusha (1980) e con Ran (1985) altri due trionfi; il primo è un sunto d’Occidente e d’Oriente che va da Shakespeare a Pirandello, il secondo una spettacolare e violenta rappresentazione della follia umana, a metà tra tragedia greca e dramma shakespeariano alla Re Lear. Si tratta di opere complesse nelle quali il maestro nipponico tocca vette espressive che poche volte il cinema ha raggiunto. Kurosawa è un manierista, ma sa esserlo in maniera sublime.
I film che seguono non offrono grandi novità: Sogni (1990) sfiora nel manierismo pittorico, e Il compleanno (1993) è costruito intorno ai concetti di morte e di ricordo. Certamente non è più il Kurosawa arduo di un tempo, ma conserva i segni della sua grandezza, di chi ha incantato Hollywood e ha ispirato generazioni di cineasti.
Bibliografia: F. Di Giammatteo, Storia del cinema.