‘Soldado’: l’adrenalinico film di Stefano Sollima sull’illegalità nel desolato confine tra USA e Messico

Gioco pesante e mano dura in un sequel che fa storia a sé. Tre anni orsono “Sicario” impose i nomi del regista Denis Villeneuve e lo sceneggiatore Taylor Sheridan nel cerchio magico dei nuovi maestri di Hollywood: considerato uno dei migliori film d’azione degli ultimi anni, riusciva in effetti a sbalordire il sempre più ostico pubblico odierno grazie al ritmo indiavolato, le interpretazioni esemplari e la visione spregiudicata dell’eterna guerriglia per il traffico di droga in atto ai confini tra Stati Uniti e Messico.

L’assenza del personaggio femminile dell’agente Fbi interpretato da Emily Blunt, oltre a quella di Villeneuve stesso dietro la macchina da presa, facevano temere il peggio in vista dell’uscita di “Soldado”, ma la produzione ha avuto l’ottima idea di affidare il nuovo copione per il film Soldado a Stefano Sollima lanciato oltreoceano dall’eco dei successi di “Acab”, “Suburra” e soprattutto la serie “Romanzo criminale”.

Pienamente all’altezza dell’ardua missione, il figlio dello schivo quanto valoroso artigiano Sergio ha colto il sottofondo western corredato dalle canoniche contrapposizioni tra legge e banditi, barbarie e civiltà tipico di Sheridan (in questo senso è lampante l’episodio che, come nel mitico “Il cavaliere della valle solitaria”, mostra un adulto e un bambino che imparano a conoscersi e a riflettere insieme sul senso della violenza) per poi disseminarlo di riferimenti all’attuale clima politico.

Inoltre dimostra una notevole personalità, per non dire faccia tosta scegliendo d’incrementare l’aggressività generale discostandosi dal prototipo per potere liberamente flirtare con il ritmo e lo stile utilizzati da De Palma in “Scarface”: a conti fatti, insomma, nel secondo capitolo della saga si tratta ancora di descrivere la brutalità e l’illegalità dilaganti in quella desolata no-mans land, ma limitando molto certe pause malinconiche, certi soprassalti elegiaci, certe fughe poetiche connaturati alle inclinazioni autoriali di Villeneuve.

Soldado: trama e contenuti

Persuaso che i terroristi islamici approfittino del traffico d’esseri umani controllato dai narcos per infiltrarsi in territorio americano, il governo di Washington incarica l’agente federale Graver (Brolin) di contrastare costi quel che costi la minacciosa escalation; quest’ultimo, a questo punto, non esita a mettersi in combutta col famigerato sicario Gillick (Del Toro) per effettuare un sequestro e provocare un conflitto fratricida tra i cartelli rivali di Reyes e dei Matamoros che induca i rispettivi accoliti a sbranarsi a vicenda.

Ne segue una serie di raid sanguinari, fughe rocambolesche, trappole, tradimenti e vendette scandita dalla musica ossessiva dell’islandese Guonadòttir, stagliata sui toni espressionisti della fotografia del veterano Wolski e dominata dai due interpreti principali del tutto degni della galleria di combattenti perpetui delle epopee criminali tramandate dalle pagine del maestro di polizieschi Don Winslow di Il potere del cane e Il cartello.

In pratica non ci sono né buoni né cattivi e né vincitori né vinti in uno scenario, già di per sé apocalittico ma aggiornato dagli inevitabili fiotti di rabbia anti-Trump, dove non ci si fa scrupolo d’utilizzare a scopo poliziesco anche i bambini ed è normale concordare all’inizio delle missioni sotto copertura la parola d’ordine: “Stavolta nessuna regola”.

Se dal punto di vista squisitamente formale, Villeneuve era stato più elegante, in Soldado Sollima è troppo concentrato a martellare adrenalina su ogni tragitto, ogni interrogatorio, ogni pedinamento per accontentarsi di allestire una sorta di “Sicario 2” in qualità di semplice traghettatore.

Non è escluso che la sua impronta sconti qualche ramanzina o addirittura ripulsa perché tratteggia messicani e arabi senza osservare i canoni del politicamente corretto oppure esagera nel conferire al personaggio di Del Toro poteri degni dei supereroi dei fumetti, ma ciò che importa e vale riguarda l’evidenza con cui sullo schermo s’afferma un truce realismo lontano anni luce dalla sadica e anestetizzata violenza imperante nei film-videogiochi.

 

Soldado

The legend of Tarzan: un classico rivisitato

The legend of Tarzan (Warner Bros, 2016) è l’ultimo live action diretto da David Yates, regista di quattro film della saga di Harry Potter e di Animali fantastici e dove trovarli, in uscita a novembre 2016. La pellicola riprende la storia di Tarzan otto anni dopo che ha lasciato il Congo insieme alla sua Jane, si tratta dunque di un sequel che promette di riprendere il mito del personaggio disneyano arricchendolo di nuovi elementi e raccontando la storia da un’altra prospettiva. Tarzan vive a Londra con sua moglie Jane, è conosciuto come Lord Greystoke, John Clayton III, e si è ormai lasciato alle spalle l’infanzia passata in Congo. È solo quando George Washington Williams, unico personaggio storico nella trama, gli chiede in tornare in quelle terre, come emissario del parlamento per appurare se in Congo i colonizzatori praticano la schiavitù, che Tarzan dovrà fare i conti con il suo passato, con i bei ricordi e con ciò che vuole lasciarsi alle spalle per sempre. Il film è basato sul personaggio creato da Edgar Rice Burroughs, interpretato da Alexander Skarsgård, ma la trama è del tutto originale. Fanno parte del cast anche Samuel L. Jackson (George Washington Williams), Margot Robbie (Jane Porter), Djimon Hounsou (Capo Mbonga) e Christoph Waltz (Léon Rom).

The legend of Tarzan: stile e tematiche

The legend of Tarzan è un film che unisce azione, avventura, dramma e sentimenti, un progetto fin troppo ambizioso e complesso per riuscire bene in ogni sua parte. Gli elementi che vengono privilegiati dal regista sono di certo l’azione e l’avventura, puntando molto sulle scene di scontro sul modello epico delle battaglie di film come Il signore degli anelli e Troy, che risultano eccessivamente artefatte per una storia ambientata nella giungla. Un altro elemento che rende questi scontri irreali è l’uso che David Yates fa del rallenty, per dare ancora maggiore pathos alla scena, uno strumento che non fa altro che evidenziare le differenze visive fra chi è umano e chi è stato riprodotto al computer, come i gorilla. The legend of Tarzan avrebbe dovuto puntare molto di più sulla psicologia del protagonista, in contrasto fra il suo lato bestiale e quello civilizzato, ma nonostante questo tema sia presentato all’inizio del film non viene spiegato e trattato con la dovuta profondità nel corso della trama. Si può dunque affermare che i sentimenti soccombono per lasciare spazio all’azione, un’azione artefatta ed eccessivamente costruita. Buona la scelta di creare una ‘spalla’ per Tarzan, ovvero George Washington Williams, che smorza la tensione di certe scene delle battute ad effetto. Quello che non convince invece è il desiderio, da parte del regista, di rendere Tarzan una specie di supereroe, con abilità fisiche fuori dalla norma, una sorta di Spiderman che salta con agilità da una liana all’altra, un personaggio addirittura oggetto di leggenda:<<Stanno cantando la leggenda di Tarzan. Per molte lune fu creduto uno spirito malvagio, un fantasma fra gli alberi. Parlando del suo potere sugli animali della giungla, perché il suo spirito veniva da loro. Lui li capiva. E imparò ad essere una sola cosa con essi>>

Ciò che The legend of Tarzan lascia nello spettatore è soprattutto un forte desiderio di rivedere la pellicola originale della Disney, segno che l’esperimento di Yates non è del tutto riuscito.

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