Germano di Renzo: l’attore romano che ha lavorato con Mel Gibson

Germano di Renzo nasce a Roma il 12 Aprile 1976. Da sempre appassionato di cinema, si dedica alla recitazione frequentando diversi laboratori teatrali fin dall’adolescenza. Negli anni ottiene diverse gratificazioni professionali prendendo parte a molteplici pièces teatrali come “Anfitrione” di Plauto, “L’Orso” di Cechov e “L’Innesto” di Pirandello. Diversi sono gli attestati conseguiti per la recitazione cinematografica, dizione e mimesica. Di Renzo è stato anche allievo del Laboratorio Cinema 87 di Roma tenuto dalla docente Mirella Bordini. La sua formazione non si arresta nel tempo, studia infatti con Maurizio Ponzi e Pino Pellegrino, con quest’ultimo approfondisce il metodo Costa.

Scritturato come protagonista in vari cortometraggi e in piccoli ruoli internazionali, Di Renzo lavora affianco a nomi celebri come quelli di Mel Gibson e Renny Harlin. Partecipa quindi a produzioni italiane per i film di Ottaviano, Longoni e Bonifacio. Germano Di Renzo ha preso parte ad alcune serie televisive di successo quali “Distretto di Polizia 6”, “I Cesaroni 2”, “Suburra 2”, 1994 ed è apparso in vari sketches e programmi televisivi.

L’attore è inoltre speaker radiofonico, nonché cultore di poesia e saggistica. Si definisce sensibile, estroverso e fantasioso, ed anche un po’ permaloso; ma non manca di caparbia e tenacia. Di Renzo pratica e ha praticato molti sport anche a livello agonistico tra cui calcio e nuoto. Ama viaggiare e recentemente ha visitato la Lapponia, Irlanda, Tanzania e Madagascar. Afferma di non inseguire sogni di gloria e successo facile, ma vorrebbe riuscire a realizzarsi con impegno e costanza nel suo lavoro di attore. Attualmente è inserito nell’area di produzioni televisive e cinematografiche: si occupa di coordinare e organizzare il set e dei fondi ad esso destinato.

Com’è iniziata la sua carriera e quali sono stati gli episodi chiave per lei ?

Sono appassionato di cinema da sempre, passione che ho ereditato da mio padre il quale era grande fruitore e spettatore. Insieme fagocitavamo film di tutti i generi. Mi innamorai così degli attori e delle loro interpretazioni. Decisi di intraprendere la strada della recitazione. Inizialmente realizzavo spettacolini per parenti e amici. Cercavo sempre il pretesto per esibirmi. Le maestre a scuola si accorsero del mio talento e convinsero i miei a iscrivermi ad un corso. In età adolescenziale ho proseguito poi in modo serio.

Come ha accolto la sua famiglia la sua scelta professionale ?

La mia famiglia non è mai stata complice delle mie scelte artistiche. La recitazione era per loro un gioco e la mia passione era destinata ad attenuarsi. Si sono rassegnati quando la mia determinazione diventava sempre più forte e quando ho iniziato ad ottenere ruoli. La loro era più una preoccupazione per la precarietà della professione: mia madre voleva che diventassi medico mentre mio padre chiedeva di trovassi un lavoro dignitoso con una paga fissa. La carriera artistica era una prospettiva utopica e non concreta. Io rispondevo che in scena potevo essere chi volevo. La dedizione a ciò che facevo hanno fatto si che la spuntassi io. Alla fine i miei genitori si sono ricreduti o semplicemente si sono arresi ma alla fine sono felici per me. Oggi sono doppiamente fortunato perché ho una compagna che mi appoggia in tutte le scelte: se questo non è amore!

Quale consiglio darebbe ad un giovane che intraprende questa strada ?

Non è pazzia decidere di punto in bianco di fare l’attore: succede. Ci si rende conto che recitare è la cosa che non si ha voglia mai di smettere di fare. A me è successo così, e con il passare del tempo, questa idea è ancora nella mia testa. Non nascondo che la strada sia tortuosa , ma ne esistono diverse per arrivare alla stessa meta e nessuna è sicura. La direzione che posso indicare ad un giovane che non sa da dove cominciare è la stessa che darei a chi è già in cammino. Per prima cosa, essere sicuri di voler fare questo mestiere e inscriversi ad un corso di teatro. Solo mettendosi alla prova si può capire se è ciò che fa per te. La recitazione va imparata come qualunque altra disciplina, il solo talento non basta. Bisogna poi osservare gli attori già esperti e frequentare spesso il teatro, analizzando da diversi punti l’interpretazione. Aiuta tanto guardare e riguardare le scene che più ti piacciono ed è importante capire il proprio livello. Un po’ di autostima e ambizione sono fondamentali. Darsi del tempo e non bruciare le tappe è di grande importanza: troppi hanno la sensazione di essere in ritardo. Certo iniziare da bambini la carriera ha i suoi vantaggi ma avere una solida preparazione ti permette di arrivare con consapevolezza e con mezzi necessari per riuscire.

Qual è la parte più gratificante del suo lavoro e quale quella più noiosa ?

Il mestiere dell’attore non è mai noioso. L’adrenalina è tutto per noi. Ci sono però situazioni che danno ansia e inquietudine. Un esempio è l’attesa snervante prima di entrare sul set. Devi mantenere la concentrazione e non puoi rilassarti. Un altro momento in cui ci si può sentire agitati è quando devi ripetere una scena più e più volte e si ha paura di sbagliare o perdere sinergia. Per il resto è come lavorare in una grande famiglia dove ci si aiuta, si discute, si scherza e si urla. Il copione è il tuo amico più fedele e il ciack da avvio a tutto. La gratificazione più grande è il riconoscimento da parte degli addetti ai lavori e del pubblico che ti ripaga per i sacrifici svolti.

Quale ruolo le appartiene di più?

Interpretare l’antagonista o il cattivo. Al contrario il ruolo di buono tende ad annoiarmi un pochino.

Questa mia idea è conforme anche a quella degli spettatori che mi preferiscono nel primo ruolo.

Gli antagonisti hanno grande fascino ed esaltano la mia performance: più sono folli e malvagi più sono grato per l’assegnazione. Ne ho purtroppo interpretati pochi ma sono quelli alla quale sono più affezionato. Non posso sceglierne uno nello specifico perché li ho amati tutti.

Lei è attore si a di Teatro, di Cinema e Tv. Come si approccia ai diversi ambiti ?

Sia nel cinema che in teatro, all’interprete si richiede di emozionare lo spettatore. Anche se l’obiettivo è comune si utilizzano diverse tecniche. Un attore di teatro deve farsi sentire da tutti i presenti in sala, utilizza quindi tecniche diaframmatiche, allena il tono di voce e le corde vocali. Recita con le parole e con tutto il suo corpo non esagerando ma avvicinandosi alla verosimiglianza. Deve emozionare e far emozionare e con la messa in scena affronta la vera è propria prova del fuoco: l’attore è nudo e deve essere pronto a tutto. Non può sbagliare. L’interpretazione cinematografica è mediata da un macchinario, ci si concentra sulla micro-espressività e sulle sfumature vocali elementi che si perdono a teatro. Entrambi le interpretazioni richiedono anni e anni di esperienza e lavoro e nessuna è meno complessa dell’altra .

Cosa più dirci in merito alla situazione attuale degli addetti ai lavori dello spettacolo e al poco interesse dello stato nel rimettere in moto una macchina ferma a causa della pandemia ?

Centinaia di migliaia di lavoratori del settore sono in condizioni precarie e senza una prospettiva di assistenza. La strada dei bonus non è quella giusta da intraprendere. Bisogna riconoscere redditi di sostegno strutturali e universali per risalire la china. La cultura e lo spettacolo sono i settori più colpiti e il Governo sembra snobbare questo problema soddisfacendo gli interessi solo dei grandi enti e delle grandi imprese. Lo Stato deve tutelare chi lavora in questi due ambiti. La sopravvivenza e la dignità delle persone non può dipendere dall’inottemperanza del potere politico. Gli addetti ai lavori dello spettacolo continuano a lottare per aver riconosciuti questi diritti e non si fermeranno fino a quando non avranno ottenuto risposte concrete. Una riforma di questo settore sarebbe l’ideale per rilanciare lo spettacolo.

‘Soldado’: l’adrenalinico film di Stefano Sollima sull’illegalità nel desolato confine tra USA e Messico

Gioco pesante e mano dura in un sequel che fa storia a sé. Tre anni orsono “Sicario” impose i nomi del regista Denis Villeneuve e lo sceneggiatore Taylor Sheridan nel cerchio magico dei nuovi maestri di Hollywood: considerato uno dei migliori film d’azione degli ultimi anni, riusciva in effetti a sbalordire il sempre più ostico pubblico odierno grazie al ritmo indiavolato, le interpretazioni esemplari e la visione spregiudicata dell’eterna guerriglia per il traffico di droga in atto ai confini tra Stati Uniti e Messico.

L’assenza del personaggio femminile dell’agente Fbi interpretato da Emily Blunt, oltre a quella di Villeneuve stesso dietro la macchina da presa, facevano temere il peggio in vista dell’uscita di “Soldado”, ma la produzione ha avuto l’ottima idea di affidare il nuovo copione per il film Soldado a Stefano Sollima lanciato oltreoceano dall’eco dei successi di “Acab”, “Suburra” e soprattutto la serie “Romanzo criminale”.

Pienamente all’altezza dell’ardua missione, il figlio dello schivo quanto valoroso artigiano Sergio ha colto il sottofondo western corredato dalle canoniche contrapposizioni tra legge e banditi, barbarie e civiltà tipico di Sheridan (in questo senso è lampante l’episodio che, come nel mitico “Il cavaliere della valle solitaria”, mostra un adulto e un bambino che imparano a conoscersi e a riflettere insieme sul senso della violenza) per poi disseminarlo di riferimenti all’attuale clima politico.

Inoltre dimostra una notevole personalità, per non dire faccia tosta scegliendo d’incrementare l’aggressività generale discostandosi dal prototipo per potere liberamente flirtare con il ritmo e lo stile utilizzati da De Palma in “Scarface”: a conti fatti, insomma, nel secondo capitolo della saga si tratta ancora di descrivere la brutalità e l’illegalità dilaganti in quella desolata no-mans land, ma limitando molto certe pause malinconiche, certi soprassalti elegiaci, certe fughe poetiche connaturati alle inclinazioni autoriali di Villeneuve.

Soldado: trama e contenuti

Persuaso che i terroristi islamici approfittino del traffico d’esseri umani controllato dai narcos per infiltrarsi in territorio americano, il governo di Washington incarica l’agente federale Graver (Brolin) di contrastare costi quel che costi la minacciosa escalation; quest’ultimo, a questo punto, non esita a mettersi in combutta col famigerato sicario Gillick (Del Toro) per effettuare un sequestro e provocare un conflitto fratricida tra i cartelli rivali di Reyes e dei Matamoros che induca i rispettivi accoliti a sbranarsi a vicenda.

Ne segue una serie di raid sanguinari, fughe rocambolesche, trappole, tradimenti e vendette scandita dalla musica ossessiva dell’islandese Guonadòttir, stagliata sui toni espressionisti della fotografia del veterano Wolski e dominata dai due interpreti principali del tutto degni della galleria di combattenti perpetui delle epopee criminali tramandate dalle pagine del maestro di polizieschi Don Winslow di Il potere del cane e Il cartello.

In pratica non ci sono né buoni né cattivi e né vincitori né vinti in uno scenario, già di per sé apocalittico ma aggiornato dagli inevitabili fiotti di rabbia anti-Trump, dove non ci si fa scrupolo d’utilizzare a scopo poliziesco anche i bambini ed è normale concordare all’inizio delle missioni sotto copertura la parola d’ordine: “Stavolta nessuna regola”.

Se dal punto di vista squisitamente formale, Villeneuve era stato più elegante, in Soldado Sollima è troppo concentrato a martellare adrenalina su ogni tragitto, ogni interrogatorio, ogni pedinamento per accontentarsi di allestire una sorta di “Sicario 2” in qualità di semplice traghettatore.

Non è escluso che la sua impronta sconti qualche ramanzina o addirittura ripulsa perché tratteggia messicani e arabi senza osservare i canoni del politicamente corretto oppure esagera nel conferire al personaggio di Del Toro poteri degni dei supereroi dei fumetti, ma ciò che importa e vale riguarda l’evidenza con cui sullo schermo s’afferma un truce realismo lontano anni luce dalla sadica e anestetizzata violenza imperante nei film-videogiochi.

 

Soldado

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