‘La Notte’, l’autobiografia di Elie Wiesel per la giornata della memoria

E’ sempre un lavoro delicato e spinoso raccontare di un libro autobiografico sull’Olocausto, ma parlare del La Notte di Elie Wiesel risulta più arduo del previsto. Pubblicato da Giuntina nel 1958, appartenente alla collana Shulim Vogelmann. Il romanzo non racconta solo la storia di un bambino ebreo, ma introduce ad una testimonianza reale di sofferenze, dolore, cattiveria e brutalità circa la persecuzione ebraica degli anni trenta e quaranta del XX secolo.

Eliezer Wiesel nato il 30 settembre del 1928 a Sighet, in Transilvania, in una comunità di ebrei ortodossi, affronta in tenera età la deportazione nei capi di concentramento nel 1944, quando l’Ungheria fu invasa dai Tedeschi. Liberato nel 1945, visse gran parte della sua vita in Francia dove si formò alla Sorbona e in seguito, insegnò la lingua ebraica. Nel 1954 inizia a scrivere la sua autobiografia e, in collaborazione con Turkov, pubblicò il manoscritto in lingua yiddish. Non riscosse però molto successo. L’incontro con lo scrittore premio Nobel François Mauriac, autore della prefazione, fu determinante per la diffusione del libro in lingua francese, avvenuta nel 1958.

 

Ciò che risalta subito all’occhio attento del lettore è quanto l’autobiografia di Elie Wiesel mostri l’oscurità di quella pagina di storia che fu l’Olocausto: infatti La Notte è tra i tre libri più significativi sul genocidio del XX secolo, insieme con il Diario di Anna Frank e Se questo è un uomo di Primo Levi. Ambientato nel 1944, il racconto ripercorre i momenti più significativi vissuti prima, durante e dopo la deportazione nei campi di Birkenau, Auschwitz, Monowitz, Buchenwald.

In tutta la narrazione, di importanza fondamentale è il dialogo interiore e i riferimenti alla fede che il giovane riprende di continuo. Elie, ragazzo di 15 anni inizialmente sente forte il desiderio di conoscenza della parola di Dio, passa molto tempo in sinagoga, studia il Talmud e discute di Cabala. Con le prime restrizioni antisemite, la sua sete di risposte e domande aumenta e quando la notizia della possibile deportazione diventa concreta intraprende un vero e proprio dissidio interiore con Dio.

Con l’arrivo al campo e la visione di episodi disumani, la conflittualità si inasprisce, fino a quando, il giovane arriverà a domandarsi “Dio dov’è?”. Per quanto la sua fede abbia vacillato, essa resterà comunque presente. Questo punto importante, Elie sembra aver trovato nell’idea di Dio, un appiglio inconscio utile per restare in vita. Toccante è sicuramente l’episodio che racconta l’impiccagione del piccolo pipel, sottolineato come tra i momenti che meglio descrivono la conflittualità interna del giovane Elie.

Nel libro i momenti di interiorità sono alternati a passi narrati dove Wiesel è solito riportare alla luce personaggi per lui importanti con le loro azioni e pensieri. Uno in particolare risulterà essenziale: il padre. Descritto con un aspetto autorevole, è un punto di riferimento per la comunità ebrea di Sighet: è illustrato come colui che annuncia la chiusura dei ghetti e avverte tutti gli altri di prepararsi alla deportazione. Sarà unico sopravvissuto della famiglia Wiesel , dalla quale l’autore-narratore non si allontanerà mai.

Di grande impatto emotivo è il racconto che Elie fa di come il padre abbia sopportato botte, percosse e soprusi con grande dignità, suscitando la sua rabbia e la sua ammirazione per non aver reagito. Molto intenso è il ricordo doloroso della madre e della sorella più piccola , alla quale è poi dedicato il libro: le vede l’ultima volta allo smistamento ad Auschwitz e solo in seguito capirà che non le rincontrerà più. Altre figure menzionate sono: Moshè lo Shammas, custode della sinagoga di Sighet che cerca di avvisare la comunità invano; Juliek, Idek, l’operaia francese, Franek, Rabbi Eliau , altri deportati che condividono la prigionia e che ricreano quella parvenza lontana nucleo socio-comunitario ormai scomparso. I kapò , le SS e i capi del campo raccontati nella loro efferatezza, nei comportamenti e nei particolari che li differenziavano o li univano.

Non si può non accennare alla straziante descrizione sociale e umana che l’autore fa della vita nei lager: ricca di pathos e così vivida nei particolari, illustra come tanti esseri umani abbiano perso la razionalità e si siano abbandonati agli istinti. E’ l’intento vero nazista a prevalere nei campi ovvero ridurre gli ebrei, considerati inumani, a comportarsi come bestie. Per questi suoi contenuti così forti, prima della pubblicazione , il libro ebbe difficoltà a trovare un editore disposto a mandarlo in stampa: il manoscritto di circa 400 pagine era troppo morboso. Fu fatta dunque una scrematura che ne riducesse o eliminasse tratti considerati troppo forti per un lettore. In merito alla scrittura di questo libro, ancora aperta appare una controversia che stenta a stabilire se il libro sia interamente bibliografico o romanzato, in alcune parti. Questa questione viene sollevata con la pubblicazione de “La Notte” negli Stati Uniti.

Il libro ,uscito durante un periodo in cui le memorie erano accolte con molta titubanza, fu Rut Franklin a incentivare la sua diffusione e, a questo proposito, afferma che trattare di ricordi è sempre complicato e la verità in prosa, che segue una linea morale, non è sempre conforme alla verità della vita.

Nonostante tutto, il libro resta un vero capolavoro della memoria collettiva Ebrea negli anni della Shoah. La linea labile tra verità e romanzo, opportunamente presente, è ridotta al minimo. Eliezer Wiesel ha saputo in modo esemplare riportare le sue memorie con uno stile unico e inimitabile e, non a caso, per questo libro e per il suo impegno sociale e umanitario, fu insignito del premio Nobel per la pace nel 1987.

Il libro per alcuni tratti ha ispirato anche il celebre film, vincitore del Premio Oscar 1998, La Vita è Bella di Roberto Benigni, nel quale protagonisti sono proprio un padre e un figlio deportati ad Auschwitz.

‘Thérèse Desqueyroux’: la solitudine di una donna scellerata secondo Mauriac

François Mauriac è uno scrittore francese oggi, purtroppo, dimenticato. Eppure è stato, per un cinquantennio, un’epoca cruciale che va dagli anni ’20 alla fine degli anni ’60 del secolo scorso, uno degli intellettuali francesi più noti e influenti. Cattolico, unì all’impegno letterario quello civile: si schierò contro il franchismo in Spagna e la Repubblica di Vichy, e nel dopoguerra condannò il colonialismo francese e la repressione in Algeria. Nel 1952 gli fu attribuito il Premio Nobel. Il suo cattolicesimo “eretico” lo portò ad essere criticato sia da “destra” sia da “sinistra”: famosa al riguardo è la critica, che gli rivolse Sartre, di essere poco credibile come ricco fustigatore della classe a cui apparteneva.

Thérèse Desqueyroux, pubblicato nel 1927, è il romanzo più noto di Mauriac, da cui nel 1962 è stato tratto un omonimo film, alla cui sceneggiatura collaborò lo stesso Mauriac. La storia è quella di una moglie che tenta di avvelenare il marito, ed il romanzo, che inizia al momento della dichiarazione del non luogo a procedere da parte del giudice, ci narra, con un ampio flashback reso attraverso le riflessioni della protagonista nel suo viaggio di ritorno verso casa, la vita di Thérèse, dalla sua infanzia al matrimonio, dalla vita coniugale al tentato uxoricidio; quindi la storia riprende il suo corso e ci mostra ciò che accade in conseguenza di quel gesto. La scelta di lasciare che sia Thérèse a presentarsi, a narrarci la sua vita pregressa, è un primo elemento di indubbio fascino del romanzo: è la protagonista stessa che dovrebbe e potrebbe dirci le motivazioni del suo gesto, ed il fatto che non ce lo dica significa che non ci sia una ragione, o perlomeno non ci sia una ragione puntuale e immediatamente riconoscibile del tentato avvelenamento del marito. Thérèse decide infatti quasi casualmente di avvelenarlo, e nel colloquio finale con il marito, ad una precisa domanda di quest’ultimo, Thérèse risponde: “Stavo per risponderti. Non so perché l’ho fatto”. Ma forse lo so, figurati! Potrebbe darsi che abbia compiuto quell’azione per vedere nei tuoi occhi un’inquietudine, una curiosità, un po’ di turbamento, insomma.”

Thérèse Desqueyroux: trama e contenuti del romanzo di Mauriac

Sin dalle prime pagine del romanzo di Mauriac – quando vediamo Thérèse, il piccolo volto «livido e inespressivo», uscire dal Palazzo di Giustizia dopo essere stata prosciolta dall’accusa di omicidio premeditato – ci appare chiaro per quale ragione questo memorabile personaggio non abbia mai smesso di ossessionare Mauriac. La seguiremo, questa scellerata eppure irresistibile creatura, nel viaggio verso Argelouse. Là Thérèse ritroverà quel marito che ha tentato di avvelenare, ma che l’ha scagionata per salvare «l’onorabilità del nome»: un ragazzone di campagna amante della caccia e del buon cibo, che lei ha sposato nella speranza di trovare rifugio da se stessa e da un pericolo oscuro. I cuori puri, scrive Mauriac, non hanno storia; ma «quella dei cuori sepolti e intimamente legati a un corpo di fango» pochi hanno saputo raccontarla come lui.

Se allora non c’è un motivo contingente che spinge Thérèse, quali sono le cause profonde del suo gesto? E’ questo il grande interrogativo che Mauriac pone, ed è anche quello la cui risposta va ricercata nell’intera vicenda narrata, ed in particolare nella prima parte in cui la protagonista racconta sé stessa. La risposta risulta abbastanza sorprendente per uno scrittore profondamente cattolico come Mauriac: la causa del gesto di Thérèse è la “famiglia”, i rapporti sociali ed umani che si instaurano all’interno dell’istituzione che la chiesa cattolica (e non solo) considera il pilastro dell’ordine morale e sociale.

La vicenda è ambientata nella profonda provincia francese, le lande rimboschite con pini neri a sud di Bordeaux, uno dei paesaggi più monotoni di tutta la Francia. Thérèse è figlia di un notabile locale, è sin da piccola uno spirito indipendente, è agnostica, le piace leggere e stare sola, ma il suo destino è già segnato: sposerà Bernard Desqueyroux, perché questo permetterà di riunire due grandi proprietà fondiarie. L’interesse supremo della famiglia, che è essenzialmente basato sull’accumulazione e sul mantenimento del prestigio sociale, non può essere messo in discussione, e Thérèse vi si sottomette docile, anche se il coniuge si rivela da subito gretto, più interessato alla caccia che a lei, e prevaricatore – se non violento – anche nei momenti di intimità. L’interesse della famiglia prevale anche nel caso di Anne, sorellastra di Bernard, che si invaghisce di un giovane ebreo che ha il torto di non avere un patrimonio: contro questa possibile unione si mobilitano tutti, facendo emergere anche un gretto antisemitismo, ed anche Thérèse accetta di giocare una parte non piccola nel ricondurre la pecorella smarrita all’ovile. Thérèse vive comunque i suoi ruoli di figlia, di moglie, e presto anche quello di madre, con indifferenza, perché questo è l’unico atteggiamento che le consente di non far esplodere le sue contraddizioni interne, di sopportare lo iato tra le sue nebulose aspirazioni di emancipazione e i binari sociali entro cui è costretta.

Subisce il fascino del giovane innamorato di Anne, figura di pseudo-intellettuale cinico e fintamente libero dalle convenzioni sociali, ma senza tradire il marito e capendone presto la personalità ipocrita. Il tentato avvelenamento del marito non è gesto che segnala la rottura di un equilibrio interiore, ma è pienamente inscritto in quell’equilibrio dell’indifferenza che la caratterizza e che le consente di andare avanti.

La famiglia determina anche le conseguenze del gesto: il marito può immaginare che la causa del gesto di Thérèse sia stata solamente il tentativo di lei di essere l’unica proprietaria delle terre e dei pini, depone a suo favore solo perché è necessario salvare le apparenze nei confronti della società, e costruisce la terribile punizione di Thérèse facendo in modo che “la gente” continui a crederli una coppia felice. Nel bel finale, sembra per un attimo che Bernard si metta in discussione, che cerchi di spogliarsi del suo ruolo, di capire perché, ma subito rientra nei ranghi, ed a Thérèse non resta che andare incontro ad una nuova vita, sottomettendosi ancora una volta con indifferenza alla volontà altrui. Non c’è redenzione, non c’è speranza, non c’è una mano tesa veramente ma solo un abbozzo di mano tesa da parte del marito. C’è solo altra sicura solitudine per Therese.

“Che importa amare questo o quel paese, i pini o gli aceri, l’oceano o la pianura? Degli esseri viventi la interessavano solo quelli di carne e sangue. “Quello che amo non è la città con le sue pietre, né le conferenze, né i musei, ma è la foresta viva che vi si agita, attraversata da qualsiasi tempesta. Il lamento dei pini di Argelouse, la notte, era emozionante solo perché si sarebbe detto umano. Therese aveva bevuto un po’ e fumato molto. Rideva da sola beata. Si passò del fard sulle guance e si ritoccò le labbra, con cura meticolosa; poi raggiunta la strada, camminò senza meta.”

 

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