‘Thérèse Desqueyroux’: la solitudine di una donna scellerata secondo Mauriac

François Mauriac è uno scrittore francese oggi, purtroppo, dimenticato. Eppure è stato, per un cinquantennio, un’epoca cruciale che va dagli anni ’20 alla fine degli anni ’60 del secolo scorso, uno degli intellettuali francesi più noti e influenti. Cattolico, unì all’impegno letterario quello civile: si schierò contro il franchismo in Spagna e la Repubblica di Vichy, e nel dopoguerra condannò il colonialismo francese e la repressione in Algeria. Nel 1952 gli fu attribuito il Premio Nobel. Il suo cattolicesimo “eretico” lo portò ad essere criticato sia da “destra” sia da “sinistra”: famosa al riguardo è la critica, che gli rivolse Sartre, di essere poco credibile come ricco fustigatore della classe a cui apparteneva.

Thérèse Desqueyroux, pubblicato nel 1927, è il romanzo più noto di Mauriac, da cui nel 1962 è stato tratto un omonimo film, alla cui sceneggiatura collaborò lo stesso Mauriac. La storia è quella di una moglie che tenta di avvelenare il marito, ed il romanzo, che inizia al momento della dichiarazione del non luogo a procedere da parte del giudice, ci narra, con un ampio flashback reso attraverso le riflessioni della protagonista nel suo viaggio di ritorno verso casa, la vita di Thérèse, dalla sua infanzia al matrimonio, dalla vita coniugale al tentato uxoricidio; quindi la storia riprende il suo corso e ci mostra ciò che accade in conseguenza di quel gesto. La scelta di lasciare che sia Thérèse a presentarsi, a narrarci la sua vita pregressa, è un primo elemento di indubbio fascino del romanzo: è la protagonista stessa che dovrebbe e potrebbe dirci le motivazioni del suo gesto, ed il fatto che non ce lo dica significa che non ci sia una ragione, o perlomeno non ci sia una ragione puntuale e immediatamente riconoscibile del tentato avvelenamento del marito. Thérèse decide infatti quasi casualmente di avvelenarlo, e nel colloquio finale con il marito, ad una precisa domanda di quest’ultimo, Thérèse risponde: “Stavo per risponderti. Non so perché l’ho fatto”. Ma forse lo so, figurati! Potrebbe darsi che abbia compiuto quell’azione per vedere nei tuoi occhi un’inquietudine, una curiosità, un po’ di turbamento, insomma.”

Thérèse Desqueyroux: trama e contenuti del romanzo di Mauriac

Sin dalle prime pagine del romanzo di Mauriac – quando vediamo Thérèse, il piccolo volto «livido e inespressivo», uscire dal Palazzo di Giustizia dopo essere stata prosciolta dall’accusa di omicidio premeditato – ci appare chiaro per quale ragione questo memorabile personaggio non abbia mai smesso di ossessionare Mauriac. La seguiremo, questa scellerata eppure irresistibile creatura, nel viaggio verso Argelouse. Là Thérèse ritroverà quel marito che ha tentato di avvelenare, ma che l’ha scagionata per salvare «l’onorabilità del nome»: un ragazzone di campagna amante della caccia e del buon cibo, che lei ha sposato nella speranza di trovare rifugio da se stessa e da un pericolo oscuro. I cuori puri, scrive Mauriac, non hanno storia; ma «quella dei cuori sepolti e intimamente legati a un corpo di fango» pochi hanno saputo raccontarla come lui.

Se allora non c’è un motivo contingente che spinge Thérèse, quali sono le cause profonde del suo gesto? E’ questo il grande interrogativo che Mauriac pone, ed è anche quello la cui risposta va ricercata nell’intera vicenda narrata, ed in particolare nella prima parte in cui la protagonista racconta sé stessa. La risposta risulta abbastanza sorprendente per uno scrittore profondamente cattolico come Mauriac: la causa del gesto di Thérèse è la “famiglia”, i rapporti sociali ed umani che si instaurano all’interno dell’istituzione che la chiesa cattolica (e non solo) considera il pilastro dell’ordine morale e sociale.

La vicenda è ambientata nella profonda provincia francese, le lande rimboschite con pini neri a sud di Bordeaux, uno dei paesaggi più monotoni di tutta la Francia. Thérèse è figlia di un notabile locale, è sin da piccola uno spirito indipendente, è agnostica, le piace leggere e stare sola, ma il suo destino è già segnato: sposerà Bernard Desqueyroux, perché questo permetterà di riunire due grandi proprietà fondiarie. L’interesse supremo della famiglia, che è essenzialmente basato sull’accumulazione e sul mantenimento del prestigio sociale, non può essere messo in discussione, e Thérèse vi si sottomette docile, anche se il coniuge si rivela da subito gretto, più interessato alla caccia che a lei, e prevaricatore – se non violento – anche nei momenti di intimità. L’interesse della famiglia prevale anche nel caso di Anne, sorellastra di Bernard, che si invaghisce di un giovane ebreo che ha il torto di non avere un patrimonio: contro questa possibile unione si mobilitano tutti, facendo emergere anche un gretto antisemitismo, ed anche Thérèse accetta di giocare una parte non piccola nel ricondurre la pecorella smarrita all’ovile. Thérèse vive comunque i suoi ruoli di figlia, di moglie, e presto anche quello di madre, con indifferenza, perché questo è l’unico atteggiamento che le consente di non far esplodere le sue contraddizioni interne, di sopportare lo iato tra le sue nebulose aspirazioni di emancipazione e i binari sociali entro cui è costretta.

Subisce il fascino del giovane innamorato di Anne, figura di pseudo-intellettuale cinico e fintamente libero dalle convenzioni sociali, ma senza tradire il marito e capendone presto la personalità ipocrita. Il tentato avvelenamento del marito non è gesto che segnala la rottura di un equilibrio interiore, ma è pienamente inscritto in quell’equilibrio dell’indifferenza che la caratterizza e che le consente di andare avanti.

La famiglia determina anche le conseguenze del gesto: il marito può immaginare che la causa del gesto di Thérèse sia stata solamente il tentativo di lei di essere l’unica proprietaria delle terre e dei pini, depone a suo favore solo perché è necessario salvare le apparenze nei confronti della società, e costruisce la terribile punizione di Thérèse facendo in modo che “la gente” continui a crederli una coppia felice. Nel bel finale, sembra per un attimo che Bernard si metta in discussione, che cerchi di spogliarsi del suo ruolo, di capire perché, ma subito rientra nei ranghi, ed a Thérèse non resta che andare incontro ad una nuova vita, sottomettendosi ancora una volta con indifferenza alla volontà altrui. Non c’è redenzione, non c’è speranza, non c’è una mano tesa veramente ma solo un abbozzo di mano tesa da parte del marito. C’è solo altra sicura solitudine per Therese.

“Che importa amare questo o quel paese, i pini o gli aceri, l’oceano o la pianura? Degli esseri viventi la interessavano solo quelli di carne e sangue. “Quello che amo non è la città con le sue pietre, né le conferenze, né i musei, ma è la foresta viva che vi si agita, attraversata da qualsiasi tempesta. Il lamento dei pini di Argelouse, la notte, era emozionante solo perché si sarebbe detto umano. Therese aveva bevuto un po’ e fumato molto. Rideva da sola beata. Si passò del fard sulle guance e si ritoccò le labbra, con cura meticolosa; poi raggiunta la strada, camminò senza meta.”

 

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Nicola Lisi, tra magia e religione

Nicola Lisi nasce l’11 Aprile del 1893 nel Mugello, da una famiglia borghese e cattolica. Qui esercita la professione di geometra. Nel 1923 fonda, assieme a Bargellini e Betocchi Il calendario dei pensieri e delle pratiche solari, poi rivista Frontespizio, un vero e proprio almanacco in cui si cercava di avvicinare chi leggeva alla natura e a Dio. Gli esordi ci svelano un autore favolista ed amante del teatro ma anche molto religioso, infatti il cristianesimo è alle fondamenta del suo pensiero e di ogni sua opera.

I personaggi delle sue storie sono caratterizzati da un certo candore, collocati tra mistero e fede, ”rurali”. Egli stesso fu un uomo  modesto, amante della sua terra. E tutto questo traspare, senza ombra di dubbio, anche dallo stile adottato seguendo il criterio della semplicità. Lisi Partecipa alla prima guerra mondiale combattendo nel Friuli e, durante quegli anni, entra in contatto con i più illustri esponenti di alcuni caffè letterari fiorentini come quello delle Giubbe Rosse e il Caffè Paszkowski. Proprio in queste occasioni ha modo di conoscere Aldo Palazzeschi.

Nicola Lisi, autore dalla grande spiritualità religiosa, si pone come scopo quello di raccontare una realtà che è in mano alla Provvidenza ma è necessario sottolineare che in lui non ritroviamo lo ”sdegno”, Lisi non prova ad indottrinare nessuno, crede semplicemente nella verità della Grazia.

Aderenza alla realtà ed ortodossia cattolica sono dunque i pilastri su cui lo scrittore toscano si appoggia per l’immediatezza della sua scrittura che è umile perché ha bisogno di arrivare al popolo e condurlo alla riflessione e alla contemplazione. Ritroviamo, nelle sue pagine, tutta la dolcezza ed il candore di un autore che non riesce, ma soprattutto non vuole, svincolarsi dal passato, dai ricordi d’infanzia, dagli incontri per lui più significativi.

 Lo scrittore racconta anche la guerra, in una delle sue opere più apprezzate e cioè Amore e desolazione, testimonianza importante dove smisurato è il suo amore per tutta la natura, custode di tutte le cose e per la sua gente: “Ma ecco, chiedo una grazia, la stessa forse di molti tra i presenti. Così penso, perché domando a Dio che Firenze sia salvata dalla guerra, mi sento dilatato in comunione e perciò uscito dall’angustia di me stesso”.

Oltre alle Favole, sua prima opera narrativa, compone anche opere di genere teatrale, fondamentali per lo sviluppo dei suoi lavori successivi. Ma il suo testo più celebre resta indubbiamente Diario di un parroco di campagna del 1942, dove, a fine della lettura, ci si aspetta quasi una rivelazione sorprendente, e che riassume i temi già affrontati nel Paese dell’anima e ne L’Arca dei semplici.

Del 1950 è La nuova Tebaide, una raccolta di racconti che vede come protagonisti gli angeli, emblema della fede e della spiritualità. Opera a metà tra il reale e il soprannaturale e sarà per questo motivo che, alcuni, quando si riferiscono a Nicola Lisi, parlano anche di ”magia bianca” e di ‘simbolismo’. L’elemento mistico e magico, infatti, non mancherà mai.
Successiva a questo periodo è l’opera La faccia della terra in cui ancora è evidente il suo stile conciso caratterizzato da interessanti e ricchi aforismi e che getta le basi per la stesura della sua opera più tarda La parlata dalla finestra di casa, un bilancio della sua esistenza, un resoconto dettagliato delle avventure più meritevoli di memoria; scritto raggiunti ormai gli ottant’anni ma degno dell’attenzione della critica perché ritenuto un capolavoro pieno di grazia e non l’ultimo sospiro di uno scrittore al tramonto, come si potrebbe pensare.
A differenza di molti suoi contemporanei, ormai sfiduciati e pessimisti, Nicola Lisi crede possa esserci un mondo migliore, un mondo oltre l’umano. All’interno di quell’ elite di ”scrittori cattolici’, possiamo ritenere che si distinse in quanto figura singolare ed autonoma, probabilmente inclassificabile. Uno scrittore, Lisi, ingiustamente incompreso. Lontano da certi stereotipi ma vicino al cuore degli uomini.
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