‘Conclave dei sogni’: il rifiuto della modernità di Vigolo

Conclave dei sogni è il libro con cui il poeta Giorgio Vigolo ha radunato le sue poesie nel 1935. La raccolta non appare tesa verso una deliberata ricerca di <<modernità>> nello spirito e nella forma. In alcuni passaggi dell’opera si avverte un sapore ungarettiano, in altri non si può fare a meno di pensare a Palazzeschi. Ma da quella modernità poetica, Giorgio Vigolo si esenta, obbedendo ad una diversa idea della poesia. Viceversa, una tipica contemporaneità possiamo trovarla nella sua cultura, nel sostrato teorico, di cui il suo sentimento ha bisogno di liberarsi. La cultura di Vigolo infatti si colloca tra due tipi categorici, quelli di “filosofo” e di “poeta”, di filosofo che serve al poeta e si fa poeta egli stesso.

In Conclave dei sogni, il poeta romano è mosso verso la sua più matura espressione da un’ansia profonda di ritrovare quell’armonia increata, preesistente al tempo, a cui le parvenze esteriori ed effimere del mondo sembrano alludere, mentre nel loro aspetto la tradiscono: <<Questo è convento/di monaci veri:/cimitero,/monastero/clausura per l’eternità>>. Ansia che potrebbe essere filosofica o comunque di natura conoscitiva, ed ecco che la conoscenza speculativa porge a un certo punto un’utile nomenclatura, una suggestione di immagini o di allegorie alla poesia che sta nascondendo. Alla sua radice c’è sempre la pregante favola platonica della caverna in fondo alla quale si disegnano le ombre, parvenze della vera realtà; più che un mondo organico, dunque, Conclave dei sogni disegna un movimento: le vicende di un’attesa e di un raggiungimento, di volta in volta rinnovate dalle varie occasioni ispiratrici.

Vigolo cerca la nascita di una determnata poesia, di “quella che ritrova la misura e la schiera, l’agmine dei segni primieri” e li restituisce al “dettato antico”. A rappresentare quest’ansia di ricerca non basterà più un simbolo esterno e oggettivo; occorrerà una figura che abbia l’intima esperienza della caduta e la figura del corpo rievoca contnuamente quell’armonia da dove esso è disceso: <<Malinconia di esistere con questo/ volto remoto che ci esprime l’anima/ e la sua storia e i giorni alti e perduti/senza più averne la memoria e il senso>>. Assunto a simbolo inconscio e oscuro protagonista di quelle corrispondenze in cui Vigolo cerca rivelazione e poesia, il corpo indirizza anche dall’interno e verso l’interno i suoi richiami. In questo senso non è un caso che in un’epoca ossessionata dai propri sogni, un poeta, per vie parallele, interroghi anch’egli la psiche. Conclave dei sogni rappresenta in fondo, una chiave per interpretare i sogni, spiegati in immagini:

<<Mura ch’io vidi in un sogno d’infanzia

cadermi addosso a strapiombo di torri, a blocchi d’ocrafulva e di tufo

sulla silenziosa via del sonno>>.

Queste mura e ruderi, l’ocra fulva e il tufo, devono assumersi in un spazio definito da tale musica, magica, ineluttabile che ci porta tutti ad abitarlo, come accade per la famosa ‘siepe’ sul colle dell’Infinito di Leopardi. In Conclave dei sogni, Giorgio Vigolo “petrarchizza” i paesaggi e si dimostra un abile illustratore, basterebbe  leggere solo il poemetto Erebo per rendersene conto, in cui l’aldilà è visto come in una serie di vignette che accompagnano il racconto di un giullare; il poeta le trascrive come altrettanti “dal vero” innalzandole a dono letterario. Al lettore più attento non sfuggirà un’altra caratteristica di Vigolo: la capacità di richiamare la tragedia classica, per cui i personaggi, per entrare nel gioco delle passioni, devono essere eroi, re e sacerdoti.

 

Bibliografia: G. Debenedetti, Saggi critici, seconda serie, Marsilio.

Giorgio Vigolo, poeta “platonico”

Giorgio Vigolo (Roma, 3 dicembre 1894 – Roma, 9 gennaio 1983), nome che ai più dirà poco o niente, è stato uno dei maggiori esponenti della cosiddetta Scuola Romana, formatosi sulle riviste <<La Voce>> e <<La Ronda>>. Assimilatosi, in certe fratture al sapore ungarettiano e in altre alla scrittura di Palazzeschi, Vigolo obbedisce, pur riconoscendogli una certa modernità, ad una diversa idea della poesia.

La cultura di Giorgio Vigolo potrebbe essere collocata tra l’estetismo di D’Annunzio e la dimensione demonica di Goethe, caratterizzata da un’ansia profonda di ritrovare un’armonia preesistente al tempo; si tratta di ansia filosofica? Certamente è una forma conoscitiva che dà vita ad una nuova forma di poesia molto suggestiva, fatta di immagini e di allegorie. Prendiamo il seguente frammento:

Da strade di notte

.   .    .   .

un’improvvisa porta

s’illumina di statue.

Al centro della poesia vi è il mito platonico della caduta di un ordine supremo, con il desiderio di ricomporre l’armonia perduta; non è difficile capire da quali fonti abbia attinto il poeta romano: principalmente ai mistici e agli esoterici. Alla base vi è sempre il celebre mito della caverna di Platone, da cui, a sua volta nasce una mistica. Giorgio Vigolo si sente un mistico toccato dalla Grazia e più che un mondo “organico”, egli disegna un movimento: le vicende di un’attesa e di un raggiungimento, segnati da momenti ispiratori. Afferma lo stesso Vigolo a proposito della propria arte poetica:

Facciamo che quel mito della caduta sia proiettato nel tempo: e i millenni appariranno come un varco cieco, che un attimo, un attimo solo, quello del ritrovamento, cioè della poesia, per miracolo abolisce, e riscatta.

Il poeta romano cerca la nascita di una determinata poesia, di quella che, come dice lui stesso, ritrova la misura e la schiera, l’agmine dei segni primieri e li restituisce al dettato antico. A rappresentare quell’ansia di ricerca dell’armonia, non basta più un simbolo esterno e oggettivo, come nota Giacomo Debenedetti; occorre invece una figura che abbia l’intima esperienza della caduta, che senta la sofferenza e il richiamo a quell’ordine supremo. C’è quindi bisogno della forma umana, “da oscuri segni e silente eternità”, calata “alle feste del sangue”:

…s’equilibra in me l’arcano

albero conoscente; e, se la luca

beve dall’aria, un più profondo filtro

trae dalla terra e lo nutrisce morte.

Ed è proprio la figura del corpo che rievoca quell’armonia dalla quale esso proviene; in questo modo il corpo è assunto dal poeta a simbolo inconscio ed oscuro delle corrispondenze in cui Vigolo cerca la poesia. Impossibile quindi che il corpo non crei arcani e fantasiosi messaggi: i sogni, protagonisti assoluti di questa epoca, atti a svelare i misteri più occulti della nostra vita; e non è casuale che Vigolo abbia intitolato una sua raccolta di poesie Conclave dei Sogni, sogni spiegati in immagini e melodia. Per quanto riguarda l’ambientazione, il poeta petrarchizza i paesaggi e l’arte con cui compie questa operazione deve una buona parte del suo ascendente ad una esperta abilità di illustratore.

La presenza del corpo inoltre consente che nella realizzazione dei personaggi interiori, il poeta debba mettere in relazione ogni cosa con una testimonianza del corpo stesso, una sorta di contatto fisico:

Malinconia d’esistere con questo
volto remoto che ci esprime l’anima
e la sua storia e i giorni alti e perduti,
senza più averne la memoria e il senso.

Scruti meglio la pietra; in selve amare
più domestica lingua hanno le foglie
e i paesi si leggono; s’intende
l’innocenza dei monti. Ma l’umano
viso, il tuo stesso, che ti senti in carne
fitto all’essenza, che vuol dire?
Indaghi
inutilmente questa tua persona
che sempre hai teco e nei notturni vuoti
s’ingrandisce di sogni, apre il suo libro
su figure dolcissime e tremende.

E’ allora che prendendo del tuo buio
una rapita conoscenza, credi
finalmente di leggerti; decifri
lettere e i nomi sciogli.
Illuso! in altro
specchio t’appari. O dispieghi in vaste
epoche d’astri e spaziati cosmi
o stringi i tempi in questi sensi d’uomo,

solo saprai di non saper chi sei.

Vigolo ci offre una classicità corposa, sensuale, barocca in conflitto con amori terreni come dimostrano anche le prose  La città dell’anima, (1923), Canto fermo (1931), Il silenzo creato (1934), che hanno spesso il rigore del poemetto. Oltre ad un’ottima antologia dei Sonetti di G.G. Belli, Vigolo ha curato la traduzione di liriche di Hölderlin e del Meister Floh di Hoffmann.

Giorgio Vigolo ci fa capire come dignità e bellezza formale siano elementi indispensabili per sostenere una poesia, per dare vita all’incanto letterario e ad una tensione conoscitiva.

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