Il Moco Museum di Amsterdam: la dimensione fenomenale dell’arte contemporanea

La delicata interazione tra le coordinate del moderno all’intersezione di tutto ciò che è contemporaneo e da strada ha portato, nel 2016, alle fondamenta del favoloso, con l’istituzione del MOCO museum ad Amsterdam; e c’è una precisa correlazione di forma e contenuto al suo interno per cui l’unità stilistica degli interni dell’edificio che ospita il museo diventa la collezione permanente del museo stesso e i lavori che sono di volta in volta ospitati sono i dispositivi audio in uscita di una sontuosa sinfonia estetica: la prima strofa del poema dell’incanto e dello stupore al Moco museum è il museo stesso, chiuso in un’unità di stile dall’estetica prelibata, laddove la prima vera grande esperienza è il museo, e il museo è di per sè stesso un’esperienza tematica unitaria.

La sensazione è molto intima, il succinto del discorso si compie con la visita di una casa e dei suoi molti appartamenti le cui opere sembrano quasi adornative, decorative, alla ricerca di un senso archeologico ancorché archetipico del discorso artistico – ma in realtà in mostra ci sono pezzi grossi e importanti della storia delle arti figurative.

Probabilmente nel complesso la faccenda è molto pop, abbagliante, accecante nella sua coerenza espositiva; le sensazioni sono immediate, compatte nell’univocità stilistica del concept, ed evocative della percezione soprannaturale del discorso delle esposizioni, il cui rimando è un’eternità brillante e fantasmagorica di nozioni di entità cultura del contemporaneo.

Innanzitutto c’è il Moco Garden con installazioni di volta in volta diverse e fatte come apposta nella voragine introduttiva di un mondo fantastico in cui il gioco, lo stupore e il magico trasportarsi senza un vera destinazione sono le mete terminali dell’esposizione. Ed è proprio da qui che il museo apre ai non luoghi, luoghi di passaggio, alle cattedrali dell’infaticabile ricerca di un’immagine in grado di estrapolare dai nostri sensi un significato di confusa memoria di sconfinata pace e fervida gioia – e una volta arrivati all’ingresso ne esce il magico come da sorpresa.

Tutto è ovattato da un manto di meccanica trasposizione verso una realtà multididmensionale e ancora ignota e ignote nel concreto sono le identità degli espositori, qui si va vesro il mondo dell’inconoscibile.

Innanzitutto JR (jr-art.net): un sacrificio di fotografia manipolata, e qui vediamo sia KIKITO, progetto di un bambino gigante che si sovrappone dall’alto guardando in basso degli adulti microscopici, ammonendo a far crescere il bambino in noi fino a farlo assurgere al ruolo di guida silenziosa e di angelo custode, e comunque è una prospettiva ribaltata, una geometria extraterrestre e impossibile e l’effetto è affatto considerevole, il lavoro è gigantesco; ma poi sempre JR ci consegna dei collage fotografici impostati alla maniera della copertina di Sgt. Pepper, di cui sappiamo tutti di cosa e di chi, o di We’re only in it for the money di Frank Zappa, che di Sgt Pepper è la copia forsennata; c’è anche Banksy, molto di Banksy, e soprattutto del suo lato meno conosciuto come le interpolazioni di Tom&Jerry (Gene Deitch è morto a fine aprile) in quadri di paesaggio classico; c’è Kusama, Koons, Basquiat, il ritratto che Warhol fece a Mick Jagger, ma, e non so se si può dire così ma diciamolo lo stesso, c’è soprattutto da dire che il Moco Museum è una gran figata, con tutta una serie di emozioni a cascata che parlano direttamente al tuo cervello: il tempo non ti serve più a niente, c’è solo lo spazio di un’esposizione, tu non te ne accorgi nemmeno, ma tu sei emozionato, tu sei già confuso, sei diventato la tua proiezione in un mondo altro dal nostro, entri al volo in una dimensione che è più la tua.

Il brutto che avanza nell’arte, ovvero quando l’artista è diventato anche antropologo e sciamano: da Duchamp ai giorni nostri

Nell’immaginario collettivo entrare in un museo o in una galleria d’arte ha significato accedere a una sorta di wunderkammer: luogo speciale dove erano esposte mirabilia, statue e quadri carichi di fascino e di bellezza. Guardare un’opera d’arte, in passato, significava entrare in empatia con essa e sottoporsi a un’esperienza estetica, ovvero a un confronto critico e intellettuale diretto con la creazione dell’artista, finalizzato ad esprimere un giudizio personale: le sculture e i dipinti potevano essere decodificati e vagliati, seppur in maniera soggettiva, dalla sensibilità dell’osservatore. Oggi questo non accade più: le opere, andando oltre i tradizionali valori dell’estetica, sono esposte nei musei e nelle gallerie di tendenza, collocate all’interno di scenografie e di allestimenti realizzati con l’intento di esaltare la loro natura meta-artistica, il loro essere intrise di iper-significati o di espressioni dal carattere puramente concettuali, e i musei di rispondere a esigenze di marketing e di show looking.

Al di là delle potenzialità offerte dai nuovi mezzi espositivi e tecnici messi a disposizione degli artisti, all’opera d’arte è venuto a mancare quel quid di magia, di fantasmagorico e di sublime che garantiva all’oggetto artistico il fascino di una certa aura. Ciò che ha mutato l’odierno approccio dello spettatore all’opera d’arte è stata una questione di natura non solo estetica ma il frutto di un processo comunicazionale e cognitivo che ha coinvolto chi la guarda e gli artisti stessi nel modo di concepire il loro lavoro creativo.

L’artista si è trasformato in filosofo, in scienziato, in antropologo, in messaggero portatore di verità assolute, ha vestito i panni del sacerdote e dello sciamano incaricato di iniziare i profani al culto dell’arte: figure dotate di potere, di visibilità e che non sfigurano rispetto al ruolo principale dell’essere Artista. Tuttavia, tali attività parallele hanno finito per inficiare la capacità creativa degli artisti e il loro essere fino in fondo visionari, senza mettere in evidenza la qualità essenziale della loro pura creazione artistica, ossia l’originalità. Questo nuovo ruolo ha fatto sì che la stessa opera d’arte, superando gli argini della figurazione e della ricerca della qualità del disegno, ha finito per diventare installazione, esibizione di gesti o di materiali, anche di scarto, prelevati dalla realtà, riattualizzati in nuove finzioni e messi accanto a oggetti culturali inclusi in contesti alternativi.
Tale sviluppo ha portato l’artista a superare i limiti imposti dalla propria natura fisica, occultando il significato e le finalità delle sue azioni artistiche. D’altro canto i visitatori di musei, di gallerie, di installazioni en plein air, sono stati costretti ad addomesticarsi e a mutare il modo di vedere l’arte per ripensarla, per lasciarsi assorbire da realtà nuove, finendo proiettati in spazi, in ambienti e creazioni liberate da qualsiasi parametro estetico tradizionale, giungendo sino a varcare la soglia dell’inutilità e dell’immateriale: in talune situazioni, l’artista è arrivato a redigere un atto notarile nel quale ritirava dalle sue creazioni qualsiasi qualità e contenuto di carattere estetico, o dichiarava di non essere più interessato ad esporre le proprie opere e di non dipingere più.

Il padre storico, l’iniziatore di questa radicale sovversione artistica è stato Marcel Duchamp che, all’inizio del Novecento, con i ready-made (e gesti) dadaisti, prelevando gli oggetti dal mondo reale e trasformandoli in opere d’arte, ha attaccato il concetto di rappresentazione artistica per introdurre una Nuova estetica vocata alla distruzione del mito della Bellezza, ma che, purtroppo, incompresa nella sua complessità, ha avvantaggiato l’avvento dell’osceno e della bruttezza in arte.

L’Arte moderna ha coltivato questa insurrezione contro il buon senso comune: nel Novecento ha riecheggiato la volontà di demolire i principi dell’arte tradizionale e prima di Duchamp, la rivolta contro il Bello è cominciata con la violenza pittorica del Cubismo, passando attraverso l’Espressionismo tedesco, snodandosi dal Futurismo al Dadaismo, dal Surrealismo all’Astrattismo, dall’Arte Povera all’Arte Concettuale, sino all’avanguardia post-moderna e post-umana. Il gesto rilevante di Duchamp di proporre al pubblico nei musei il suo orinatoio rovesciato (Fountain) o di esporre una ruota di bicicletta appoggiata a uno sgabello, ha rappresentato l’inizio di una rivoluzione che ha trasformato l’azione simbolica di rottura dell’artista in una norma, anzi nella prassi quotidiana del lavoro artistico; tant’è vero che tutte le forme d’arte e le performance che hanno fatto scandalo in passato sono diventate dei luoghi comuni, dei modelli di riferimento e gli artisti oggi hanno diluito il loro potere di scandalizzare la gente copiando le gesta precedenti incapaci di inventare qualcosa di nuovo.

Secondo un mostro sacro dell’arte moderna, Joseph Beuys, teorizzatore dell’arte sociale negli anni Settanta, tutti gli individui potevano essere artisti, senza avere la pretesa di essere stati educati all’Arte e alla emozione estetica: un concetto già espresso dal fondatore del Futurismo, Filippo Tommaso Marinetti, il quale fu il primo a sostenere l’esigenza della fusione-sintesi della vita e dell’arte in ogni sua espressione e manifestazione. Con Marinetti prima, e con Beuys dopo, l’arte è cambiata, o meglio, nel mondo dell’arte si è andato affermando il principio per cui non è più necessario saper scolpire, dipingere e disegnare: per essere artisti occorre invece saper trasformare le proprie creazioni in cose visibili e percepibili dai sensi, e non importa a quali sensi si va incontro attraverso la loro presentazione al pubblico.

Al tempo stesso è diventato assolutamente relativo che le creazioni di un’artista siano belle o brutte: basta che assorbano l’attenzione degli osservatori, ne perturbino la mente con provocazioni fini a se stesse, e che l’opera, grazie alla manipolazione dei media, diventi uno scandalo. Persino le mostre allestite nei grandi spazi espositivi e museali, diventano l’occasione per provocare e scandalizzare, e nel caso di esposizioni come Sensation (1997) e Post-Human (2006) sono apparsi cartelli che avvisavano i visitatori che il contenuto delle mostre poteva essere disgustoso, provocare shock, nausea, confusione mentale, panico, euforia o angoscia. Con l’avvento della modernità il disgusto è entrato prepotentemente nella riflessione estetica costringendo lo spettatore a dimenticarsi la contemplazione pura e disinteressata dell’opera d’arte, privilegiando una esperienza fisica basata sull’interazione, sulla collaborazione e anzitutto su di un mescolamento di attrazione e repulsione, rifiuto e complicità.

Non esiste una classifica in arte del Brutto e delle opere considerate attualmente più disgustose, ma vale la pena ricordare che a riprova di questo (cattivo?) gusto della pretesa partecipazione e compartecipazione del pubblico alle creazioni artistiche, nel 2011 il tedesco Carsten Höller ha invitato i partecipanti ad un evento nel museo Hamburger Bahnhof a Berlino a bere l’urina di un gruppo di renne che aveva ingerito sostanze afrodisiache e allucinogene prima di osservare le sue opere esposte; mentre, restando in tema di Brutto intenzionale, lo scultore Marc Quinn ha realizzato il suo autoritratto utilizzando il proprio sangue congelato, e Chris Ofili ha presentato un sacrilego ritratto della Madonna, The Holy Virgin Mary, realizzato assemblando con la tecnica del collage sterco di elefante e immagini pornografiche; ancora, Damien Hirst continua a proporre anti-graziosi animali sezionati e conservati in formaldeide sostenendo in maniera apotropaica di voler esorcizzare in questa maniera la morte fisica, e di recente ha incapsulato persino il corpo defunto di un bancario impiegato presso la Merryl Linch intitolando l’opera Oh Shit – Oh Merda –, poi venduta all’asta per oltre due milioni di euro.

Senza dimenticare le performance trash di Paul McCarthy, le sculture porno-kitsch di Jeff Koons e le sculture-installazioni di Maurizio Cattelan che più che costringere a una reazione invitano lo spettatore ad arrendersi di fronte alla banalità e alla volgarità della provocazione (a differenza del progetto espositivo offerto dall’avveniristico Museo della Merda, realizzato a Castelbosco in provincia di Piacenza, non a caso definito dai curatori: un contemporaneo gabiNel settembre del 1957, artisti come Piero Manzoni, il padre della celebre (e malentendu) Merda d’artista, Arman, Yves Klein, Lucio Fontana e altri, nel redigere il manifesto programmatico intitolato Contro lo stile, dichiararono che ogni invenzione, creazione o performance artistica da allora rischiava di divenire oggetto di ripetizioni stereotipe a puro carattere mercantile e che era quindi urgente intraprendere una vigorosa azione anti-stilistica per un’arte che fosse sempre unica:

Noi affermiamo l’irripetibilità dell’opera d’arte: e che l’essenza della stessa si ponga come “presenza modificante” in un mondo che non necessita più di rappresentazioni celebrative ma di presenze.

Gli artisti che li hanno succeduti nel panorama artistico internazionale hanno finito per non avere più idee: le loro novità, senza alcun input creativo (se non una celebrativa autoreferenzialità), non sono altro che repliche costanti di idee altrui, prive quindi di originalità e essenzialmente brutte ma idolatrate dal pubblico dimentico del fatto che – come sostiene il critico americano George Dikie – si può fare un’opera d’arte con l’orecchio di una scrofa, ma ciò non ne fa necessariamente una borsa di seta.

 

Guido Andrea Pautasso

 

Il mercato dell’Arte tra aste, musei e alta finanza

Una riflessione sul mercato dell’arte deve necessariamente partire dall’analisi del rapporto tra storia dell’arte e storia del mercato dell’arte. Tradizionalmente i due ambiti hanno sempre avuto andamenti paralleli, pur presentando talvolta punti di convergenza.
La consacrazione di un artista avveniva prima a opera del museo o della critica d’arte e, successivamente, del mercato; quest’ultimo, di fatto, si trovava a ratificare le scelte sugli artisti compiute ‘fuori’ di esso. Così è accaduto per alcuni grandi nomi dei movimenti artistici storici italiani. La consacrazione commerciale di un artista, quindi, avveniva – e in parte avviene tuttora – prima a livello istituzionale o, meglio, grazie allo storico dell’arte o del critico, e poi da parte degli operatori commerciali e dei collezionisti che, agendo sul prezzo di ciascuna opera, non incidevano sul riconoscimento del valore artistico intrinseco dell’opera stessa o del suo autore, ma solo sul valore d’acquisto.

Oggi sta avvenendo un cambiamento di tendenza che è possibile definire epocale: le interrelazioni tra storia dell’arte e mercato dell’arte sono fortissime, e quasi sempre è il mercato a influenzare il mondo istituzionale o le valutazioni dello storico dell’arte; non esiste artista contemporaneo, riconosciuto come tale, che non sia stato prima consacrato dal mercato e dai collezionisti nel momento in cui decidono se acquistare o meno, e a quali prezzi, le sue opere. Diventato l’artista un ‘fatto’ di mercato sufficientemente forte o rilevante, che in genere significa internazionalmente affermato, consegue il riconoscimento del suo valore da parte del museo.

Così, mentre Alberto Burri (1915-1995) è stato consacrato prima da avveduti storici dell’arte e da alcune coraggiose soprintendenze statali, e solo dopo si è affermato nella storia del mercato dell’arte (anche se va precisato che si deve guardare alle aggiudicazioni degli ultimi cinque anni per poter riscontrare prezzi importanti o all’altezza di artisti altrettanto riconosciuti a livello internazionale e musealizzati), oggi artisti come Jeff Koons, Maurizio Cattelan o Damien Hirst sono totalmente nati ‘nel’ mercato, accreditati dalle aste e dalle esposizioni delle loro opere nelle fiere-mercato mondiali, e successivamente, anche, dalla storia dell’arte con esposizioni presso i musei.
La nuova realtà del mondo dell’arte, come già sotto-lineato, vede palesarsi il seguente scenario: non vi è artista che entri nella storia dell’arte senza prima aver avuto uno o più passaggi nella storia del mercato dell’arte.

Mercato e museo

Una prova di questa nuova realtà, almeno per quanto riguarda gli artisti italiani, si è avuta alla Biennale di Venezia del 2007, dove il padiglione italiano che, nell’ambito di un’esposizione internazionale d’arte, ha il compito istituzionale di rappresentare a livello mondiale i nostri migliori ‘nomi’, era in parte dedicato a un artista come Francesco Vezzoli (n. 1971), già affermato sul mercato nazionale e internazionale.

Può essere interessante sottolineare che questo nuovo rapporto museo-mercato è declinato con modalità diverse all’estero rispetto a quanto accade nel nostro Paese. Un esempio in tal senso è rappresentato dalla Young British school, tra cui si distingue Hirst (n. 1965), o dalla London school, tra cui eccelle Lucien Freud (n.1922). In questi casi si è assistito a un fitto dialogo tra istituzioni/Stato, mercato/case d’asta e collezionisti. Per la sinergia fattiva e lungimirante tra il museo, dove avviene la consacrazione istituzionale di un artista, la casa d’asta, dove negli ultimi anni si sono avute le più alte aggiudicazioni degli stessi, e il collezionista, anello fondamentale di connessione del sistema, si è innescato un sistema virtuoso, che ha portato alla valorizzazione nazionale e non solo di questi artisti, i quali – benché rappresentino temi, stili e problematiche distinti – sono stati sostenuti a tal punto da essere attualmente tra i più apprezzati e ricercati.
Questo meccanismo di condivisione sinergica de-gli sforzi, finalizzata alla propositiva valorizzazione sistemica degli artisti, si è verificato all’estero anche per autori già storicizzati come, per es., gli statunitensi Cy (Edwin Parker) Twombly (n. 1928) e Mark Rothko (1903-1970) o l’inglese Francis Bacon (1909-1992), le cui esposizioni di livello internazionale in diversi musei del mondo vengono organizzate parallelamente alla vendita delle loro opere presso le più accreditate case d’asta del mondo.

In Italia, purtroppo, si assiste assai meno a un tale rapporto sinergico tra i diversi esponenti del mondo dell’arte: è questa forse una delle principali cause per cui gli artisti italiani partono svantaggiati rispetto a quelli stranieri, in termini di riconoscimento pubblico e di prezzo. Un notevole passo avanti è stato compiuto, nell’ultimo decennio, da alcune iniziative di tipo commerciale: le fiere-mercato nazionali e internazionali, caratterizzate da una forte presenza di artisti italiani anche all’estero; e le aste esclusivamente dedicate all’arte italiana. Ancora una volta viene confermato il fatto che, negli ultimi anni, la massima parte dei cambiamenti o delle innovazioni nel mondo dell’arte sono partiti dal mercato dell’arte per poi essere ratificati o valorizzati, a diversi livelli, sul piano istituzionale della storia dell’arte.

Caratteristiche e specificità

Il mercato dell’arte è dunque fortemente cambiato, in quanto ha acquisito caratteristiche e specificità che lo hanno reso notevolmente diverso rispetto a quello del recente passato. A conferma di questo, innanzitutto, la crescita del volume di affari, che ha comportato un incremento di milioni in termini di fatturato, è dovuta in modo particolare all’ampia affermazione dell’arte moderna e contemporanea.
Più in generale si può notare che, se da una parte permangono le peculiarità intrinseche alla natura del bene scambiato in questo tipo di mercato, dall’altra si è assistito a un cambiamento della natura della domanda e dell’offerta e, di conseguenza, a un mutamento tipologico e geografico del mercato stesso. Infatti, se permangono le caratteristiche tipiche dell’opera d’arte – quali originalità, unicità in termini ideativi, aderenza ai canoni estetici e culturali di un determinato contesto storico, permeabilità alle mode e ai gusti, rappresentatività di un certo momento storico e socioculturale, maturazione delle plusvalenze finanziarie a essa connessa in un orizzonte temporale che generalmente prevede sempre il medio-lungo periodo – sono parzialmente cambiate la natura e le motivazioni sia di chi vende sia di chi acquista. Si è insomma registrato un cambiamento nella cultura del collezionismo, tanto che l’offerta e la domanda nel mercato dell’arte oggi non sono più legate unicamente all’azione di chi vende e di chi compra, ma interdipendenti, vincolate, influenzate e condizionate da altri soggetti o operatori di mercato: l’artista, il gallerista, la casa d’asta, il museo, il critico, il consulente, oltre naturalmente al collezionista, che è al tempo stesso venditore e compratore. Di conseguenza si parla di un mutamento nella natura della domanda e dell’offerta, che complessivamente si palesa nei comportamenti dei diversi attori di mercato sopraindicati.

Tutto ciò ha avuto un forte riflesso sulle forme assunte dal mercato; infatti negli ultimi dieci anni si è assistito soprattutto a due fenomeni. Il primo è costituito dall’allargamento delle vendite di opere d’arte dai Paesi tradizionalmente più ricchi e sensibili a quelli fino a pochi anni fa considerati meno attivi se non nuovi al mercato dell’arte. Dalle poche e storicizzate vendite effettuate negli Stati Uniti si è passati a una quantità esponenzialmente più ampia non solo in quel mercato, ma anche in Europa e in Asia. Alle importanti vendite di New York si sono così affiancate quelle di Londra e di Hong Kong, nel segno di un ampliamento del raggio operativo dell’offerta, che ha comportato uno storico cambiamento nella geografia del mercato dell’arte. Il secondo fenomeno è costituito dall’incremento del numero di vendite, o di offerte di vendita, di opere d’arte, sia mediante vendite pubbliche internazionali (aste) sia mediante vendite private (fiere). Tale incremento, unito alla mancanza di limitazioni geografiche, ha determinato una globalizzazione sia dell’offerta di mercato sia, di fatto, della sua informativa, con effetti rivoluzionari e inediti in termini di velocità e confrontabilità delle informazioni, di trasparenza e democraticità dei meccanismi di formazione dei prezzi.

Mercato pubblico e privato, primario e secondario

Tradizionalmente, il mercato dell’arte viene classificato in pubblico e privato, e in primario e secondario. Per mercato pubblico s’intende quello delle vendite appunto pubbliche, ossia degli incanti o aste, storicamente gestito a livello nazionale e internazionale da soggetti strutturalmente preposti a questo tipo di attività di intermediazione commerciale, cioè le case d’asta. In quanto vendite aperte a un numero indifferenziato e imprecisabile di potenziali acquirenti, che può in taluni casi trovare un criterio di selezione dei partecipanti nella verifica delle credenziali finanziarie, le aste costituiscono l’unico sistema in cui il libero incontro della domanda e dell’offerta determina il prezzo delle opere. Le aste hanno costituito, e costituiscono tuttora, un sistema di misurazione obiettiva del livello dei prezzi, una sorta di ‘borsino’ dell’arte. La trasparenza del sistema, fondato sulla valorizzazione del bene scambiato a seguito dell’incontro liberamente perseguito fra domanda e offerta, accredita l’ufficialità del prezzo. È il motivo per cui il prezzo d’asta di un’opera diventa un efficace criterio di valutazione per opere analoghe, un insuperabile parametro di confronto, un misuratore oggettivo dell’andamento reale del mercato.

Si definisce invece mercato privato quello costituito dalla compravendita di opere e oggetti d’arte che avviene tra due soggetti privati o tramite l’intermediazione di un terzo. Sono vendite caratterizzate sempre dalla bipolarità dell’incontro fra domanda e offerta e contraddistinte dalla riservatezza, elemento essenziale in questo tipo di intermediazioni. Il prezzo finale è, in genere, il frutto o il termine d’incontro a cui si perviene dopo un’iniziale proposta dell’offerente, alla quale a sua volta corrisponde una controproposta dell’acquirente: una vera e propria negoziazione. Questo tipo di prezzo è per sua natura non verificabile, come tale non ufficiale, dunque non può essere assunto come parametro di confronto o misurazione dei prezzi in generale. Se si volesse sintetizzare queste definizioni in una semplice equazione, si potrebbe dire che il pubblico sta al privato come il prezzo d’asta sta al prezzo riservato delle trattative private.

A queste classificazioni, propedeutiche a spiegare perché il prezzo debba essere parametrato pressoché esclusivamente sul mercato pubblico delle aste, si affianca la distinzione tra mercato primario e secondario. Come il mercato di borsa, anche quello dell’arte si distingue in primario e secondario: il primario è quello in cui lo scambio di opere d’arte avviene tra il produttore-artista e il primo acquirente, in genere il gallerista e il collezionista o committente; il secondario è quello avente per oggetto le successive transazioni dello stesso bene che, dal primo acquirente, transita ai successivi proprietari attraverso una serie di passaggi mediante vendite pubbliche o private.
Fino a tempi recenti le caratteristiche dei prezzi relativi ai mercati primario e secondario comportavano che il prezzo fissato dal primo avesse le tipicità del mercato privato, cioè fosse essenzialmente stabilito sulla base di uno scambio di proposte tra privati, il produttore-artista e il primo acquirente. In genere, il prezzo era riservato, non pubblico, e solitamente condizionato dalla fama dell’artista (per cui le opere di un artista poco conosciuto costavano meno, almeno nella prima intermediazione, soprattutto quando il committente era il gallerista, il quale in genere ne comprava una gran quantità). Se quest’ultimo aveva già una fama commerciale riconosciuta e accreditata, il prezzo, anche nell’ipotesi che ad acquistare fosse il gallerista, diveniva via via più alto. In entrambi i casi, la caratteristica del mercato primario, ovvero dei suoi prezzi, era quella di sottrarsi completamente al mercato pubblico delle aste; dall’altra parte, il mercato secondario, per lo meno quello legato alle vendite all’asta, era sempre caratterizzato da prezzi pubblici, confrontabili e misurabili. Il fatto rivoluzionario che contraddistingue invece le transazioni più recenti è dato dall’assottigliamento del confine tra mercato primario e secondario: un caso significativo si è verificato nel settembre del 2008, quando un artista di fama mondiale ha venduto personalmente e direttamente all’incanto le proprie opere presso una casa d’asta internazionale. Per la prima volta si è assistito a una sovrapposizione sia del mercato primario con il secondario sia tra il ruolo dell’artista e quello del gallerista o del venditore-collezionista, provocando riflessi inevitabili anche sulla costituzione dei prezzi e sulla natura degli stessi, sottratti alla riservatezza del circuito privato del mercato primario per essere immediatamente e obiettivamente pubblici.

Aste

Il mercato dell’arte coincide dunque in larga misura con quello delle aste, l’unico, come s’è detto, in grado di offrire valori pubblici e obiettivi, misurabili e verificabili. Poiché i maggiori e più importanti incrementi, in termini sia di fatturato sia di quantità di intermediazioni, negli ultimi anni sono stati registrati proprio dal mercato delle aste, si può dire che esso è radicalmente cambiato e fortemente cresciuto.
Il 2000 è stato un anno di capitale importanza per le case d’asta: New York è stata la sede principale di questo tipo di mercato, al secondo posto si è collocata Londra, mentre Hong Kong ha rappresentato la sede caratterizzata dalla maggiore crescita in termini percentuali. Solo pochi anni dopo, per la prima volta, si è determinata un’importante inversione di tendenza, che si è andata consolidando negli anni successivi: se l’Asia ha stabilizzato la sua posizione sul mercato, si è assistito a un affiancamento, dovuto alla crescente globalizzazione del mercato, dell’Europa agli Stati Uniti; i compratori quindi sono sempre più internazionali e disposti a comprare in qualsiasi parte del mondo. Inoltre, sono comparsi nuovi capitali liquidi provenienti dalle economie emergenti che, geograficamente e culturalmente, sono pronte a percepire l’Europa, e in particolare Londra, come un solido mercato internazionale alternativo e complementare a quello di New York.
Nel 2004 è stata registrata, da una parte, una moderata ma costante diminuzione delle vendite negli Stati Uniti, dall’altra, un lento ma continuo aumento di quelle in Europa e una rapida impennata in Asia. Questi dati sono fondamentali per delineare il processo che, se non si pone come vera e propria delocalizzazione delle vendite (dagli Stati Uniti verso altri continenti), sicuramente segna un netto ampliamento della geografia delle intermediazioni più importanti, e individua un nuovo tipo di cliente, molto più internazionale e ‘globalizzato’ rispetto al passato.
L’arte moderna e quella contemporanea hanno registrato la maggior parte delle compravendite divenendo comparti trainanti all’interno di tutto il mercato dell’arte; in particolare nell’arte contemporanea è esploso l’interesse per la pittura cinese. Il motivo per cui questi due comparti sono maggiormente in crescita è, prevedibilmente, legato alle culture di Paesi, quali Cina e Russia, le cui rispettive economie vanno rafforzandosi.

Nel 2005 il baricentro del mercato dell’arte ha continuato a spostarsi lentamente verso l’Europa: trainanti sono stati i dipinti moderni e contemporanei. Con siffatte caratteristiche, il mercato è definitivamente diventato internazionale, fortemente connotato dall’apporto di culture ed economie di Paesi come la Cina, l’India, la Russia e gli Emirati Arabi. Per la prima volta, nel 2007, le compravendite di opere d’arte contemporanea hanno superato quelle del periodo impressionista, tradizionale caposaldo del mercato internazionale. Questo si deve essenzialmente a certe caratteristiche del bene intermediato: mentre i dipinti antichi o le opere impressioniste disponibili sono numericamente sempre meno, poiché i migliori sono ormai musealizzati o di proprietà di istituzioni o collezioni private, le opere contemporanee sono, per loro stessa natura, indeterminate nel numero, in quanto continuamente oggetto di nuova produzione.
In minor misura incide invece il fattore generazionale: se è vero che l’età media di chi possiede opere antiche e/o impressioniste è molto avanzata, per cui diminuisce sempre più il numero di persone che le comprano o le vendono, è altrettanto vero che l’età media dell’acquirente/venditore di opere o di oggetti d’arte è comunque compresa tra i 50 e i 70 anni, con interessanti picchi rappresentati da collezionisti attivi oltre la soglia dei 70 e a volte degli 80 anni. Del resto, essendo le opere d’arte un bene di lusso, è comprensibile che i fruitori siano persone abbienti con una consolidata posizione finanziaria (cosa che in genere si verifica dopo una certa età). Appare interessante notare come, proprio per l’esiguità delle opere disponibili, le scelte dei collezionisti si siano spostate verso le opere contemporanee, facendo crescere in maniera esponenziale il loro valore.

Dall’analisi dei dati relativi al mercato delle aste del primo decennio del 21° sec. emergono elementi che possono aiutare a comprendere alcune caratteristiche della situazione attuale. Il mercato dell’arte, come tutti i mercati, è una realtà dinamica e duttile, sensibile ai cambiamenti e alle diverse pressioni esercitate dall’afflusso di capitali nuovi. Dal momento che è stato ed è legato alle economie di Paesi emergenti o che stanno vivendo una fase di forte sviluppo economico, il mercato dell’arte si è immediatamente orientato verso questi nuovi protagonisti, creando altri generi di collezionismo: di qui le vendite monografiche dedicate all’arte asiatica, russa o indiana. L’allargamento del numero dei soggetti interessati ai fenomeni di mercato è una conseguenza diretta della globalizzazione, che comporta importanti ricadute anche in termini di maggiore stabilità e solidità del mercato in generale. Infatti, quanto maggiore è il numero di soggetti coinvolti tanto maggiore è la qualità in rapporto all’incidenza del loro coinvolgimento; e in caso di crisi sistemica, per l’allargamento geografico dei Paesi coinvolti, ne diventa più sicura la gestione.

L’odierno ampliamento dei soggetti coinvolti (europei, americani, russi, cinesi, arabi, indiani ecc.) crea le condizioni per un mercato complessivamente più solido e stabile di quanto sia stato nel recente passato. La crescita costante registrata dal 2005 alla crisi finanziaria del 2008 è stata il frutto di una complessa dinamica di sviluppo economico, geograficamente dislocata in più Paesi, la quale ha portato nuova liquidità nel mercato e, di conseguenza, anche un aumento della domanda, che a sua volta ha determinato un rialzo delle quotazioni e del volume complessivo d’affari.

Arte e finanza

È opportuno aggiungere ancora alcune considerazioni relative alla natura della domanda e dell’offerta e, conseguentemente, alla formazione dei prezzi. L’odierno mercato dell’arte mantiene alcune peculiarità legate alle caratteristiche dei beni intermediati (beni di lusso, pertanto soggetti alle variazioni del gusto), ma mostra, oggi, tratti molto diversi rispetto a quelli di appena dieci anni fa. Innanzitutto, il carattere assolutamente internazionale rende quello dell’arte, come i mercati di borsa, un complesso network globale, in cui si muovono soggetti diversi a differenti latitudini che bilanciano nella loro azione le possibili contrazioni o correzioni che il mercato può accogliere nel tempo. La diversificata pluralità della domanda e delle valute coinvolte rende più stabile e solido il mercato, non solo per quanto riguarda la pluralità della richiesta, che garantisce una probabile costanza nel tempo della domanda, ma anche in termini di capacità di spesa. Se la quotazione del dollaro scende e, di conseguenza, la capacità di spesa degli americani diminuisce, solitamente sale quella dell’euro e i compratori europei aumentano: si controbilancia così un’eventuale contrazione del mercato imputabile alla minore capacità di spesa di una sua parte.

L’internazionalità di questo contesto operativo è, dunque, il primo ed essenziale tratto distintivo dell’attuale mercato dell’arte.
Per ciò che concerne il volume d’affari, le proporzioni sono tali e talmente diverse rispetto al passato da implicare un’altra considerazione: il mercato dell’arte è attualmente percepito come un consolidato assetto economico-finanziario. Mentre prima veniva visto unicamente, o prevalentemente, come il luogo di beni rifugio, espressione statica di un’economia di nicchia, ora mostra una diversa natura che privilegia la caratteristica di strumento finanziario autonomo e d’investimento alternativo rispetto a quelli tradizionali immobiliari e finanziari. Questa diversa percezione del mercato ha fatto mutare l’approccio dei compratori nei confronti delle opere. In passato infatti si comprava per bloccare nel bene un eccesso di liquidità, le opere d’arte rappresentavano un acquisto meramente edonistico e all’arte si arrivava come effetto secondario dello sviluppo di altri mercati considerati trainanti o principali. Oggi chi compra opere d’arte cerca soprattutto un solido investimento che, nel tempo, possa far maturare nuove plusvalenze.

La scelta di acquistare un bene con un valore intrinseco destinato a crescere nel tempo – l’atteggiamento tipico dei compratori attuali –, ovvero la ricerca di un riscontro o di una verifica della rivalutazione finanziaria di un bene, è il tratto qualificante l’aspetto ‘dinamico’ del mercato odierno. Non è un caso che dell’importanza di questo strumento finanziario si siano ampiamente resi conto gli istituti di credito che, negli ultimi anni, hanno sviluppato il private banking. All’interno della maggior parte delle banche, il servizio viene gestito come collaterale rispetto a quelli tipici erogati, ma viene strategicamente evidenziato come leva per gestire, veicolare e monitorare le risorse finanziarie disponibili. Le banche, cioè, tendono a non valorizzare l’investimento in arte, inteso come autonomo, alternativo, ma a utilizzarlo per monitorare le ricchezze disponibili. Ancorché gestito come servizio supplementare rispetto al core business principale, l’evidenza che nessun istituto di credito, oggi, ometta di prestare alla propria clientela un servizio dedicato agli investimenti in opere d’arte, conferma la rilevanza acquisita dal mercato dell’arte sul piano economico generale. Nella stessa direzione vanno altre evidenze che vedono il proliferare di fondazioni, ovvero soggetti di diritto privato dedicati alla gestione di collezioni private. Molte di queste operano per finalità apparentemente non speculative (mostre, pubblicazioni ecc.), ma di fatto costituiscono la valorizzazione in termini istituzionali di ingenti capitali investiti in opere d’arte.

Analizzando la natura dell’offerta, si riscontra che tre sono, tradizionalmente, le motivazioni o leve per la vendita, generalmente sintetizzate nella regola delle ‘tre D’: il più delle volte le opere d’arte vengono vendute quando si verifica un decesso, un debito o un divorzio.
Alla morte di un collezionista corrisponde in genere la fine della collezione, intesa come entità dinamica che si arricchisce nel tempo di nuove opere, si perfeziona, si sfronda degli acquisti sbagliati o non coerenti con il corpus della raccolta. Finché è in vita, il collezionista si muove e opera in una sorta di simbiosi con la sua collezione, che nel tempo modifica, definisce, depaupera o amplia, ma rimane comunque nel mercato come soggetto attivo. La morte, le necessità ereditarie, l’impossibilità obiettiva di frazionare le opere o di dividerle equamente, se non quando vengono monetizzate, sono il più delle volte la ragione principale per la quale si possono trovare nuove opere in vendita sul mercato. Un improvviso tracollo finanziario, una crisi sistemica che richieda un’immediata liquidità per perdite in altri comparti, debiti di varia natura, possono essere un’altra frequente causa di dispersione di una collezione sul mercato. Spesso collegata alla precedente è, infine, la circostanza di un divorzio, solitamente caratterizzata da contenziosi tra coniugi separati o in procinto di separarsi. Un’altra causa di vendita, oltre a quelle che si sono individuate come le principali, è il gusto, legato alle mode o alle tendenze del momento, in base al quale si è inclini a vendere per rinnovare la collezione.

Se, da un lato, il forte sviluppo del mercato dell’arte negli ultimi anni è collegato all’ingresso di un nuovo tipo di compratore, spesso animato da un più dinamico approccio all’investimento nel settore, in quanto impiega le plusvalenze derivanti da altri mercati (soprattutto le borse), dall’altro, è pur vero che il decremento degli andamenti di borsa corrisponde, in genere, a un incremento del mercato dell’arte, muovendosi quest’ultimo spesso in maniera inversamente proporzionale al primo. In generale si può dire che si è assistito a un duplice fenomeno: in virtù di un inedito approccio speculativo all’arte, i nuovi ricchi hanno preferito investire la propria liquidità in opere d’arte, garantendosi l’esponenziale incremento dei valori che ne ha caratterizzato il mercato. L’arte è dunque considerata un investimento sicuro e stabile anche nei momenti di crisi finanziaria. In tale ultima ipotesi, tuttavia capita anche che a trarre i maggiori vantaggi dalla suddetta situazione siano i possessori di liquidità, in grado di approfittare di un eventuale momento di contrazione dei prezzi per acquistare opere d’arte. Dunque, quando il mercato di borsa è in crescita, aumenta la capacità di acquisto, aumenta il numero di nuovi ricchi ovvero si potenzia la capacità di acquisto di chi dispone comunque di liquidità; di contro, quando il mercato di borsa non è in crescita, si riduce la capacità di acquisto, diminuisce il numero di nuovi ricchi, ma aumenta la spesa di chi in ogni caso dispone di liquidità, perché riesce a comprare di più e a prezzi più convenienti.

Il fatto che l’investimento in arte sia sempre più considerato come uno strumento finanziario autonomo alternativo unitamente alla internazionalizzazione dei soggetti coinvolti nel mercato, rende l’odierno orizzonte di mercato molto più stabile rispetto al passato. Per es., negli anni 1991-92, il venir meno della liquidità dei compratori giapponesi, che avevano fatto prepotentemente salire le quotazioni al momento del loro ingresso sul mercato intorno agli anni Ottanta, provocò un crollo verticale del mercato; in questi casi la presenza di una pluralità di soggetti coinvolti, che congiuntamente o in tempi diversi hanno creduto e investito nelle opere d’arte, costituisce una possibile garanzia verso brusche regressioni del mercato. Sono sempre plausibili aggiustamenti o correzioni del livello dei prezzi, ma l’opera d’arte mantiene intrinsecamente la sua natura di bene unico, soggetto dunque a rivalutarsi nel tempo. Il mantenimento di un livello costante dei prezzi anche in fasi recessive dipende, da un lato, dalla reattività di quanti non soffrono le crisi finanziarie e hanno sempre liquidità disponibile, dall’altro, dal modo in cui si è costruito il mercato nel tempo. Nel caso di artisti il cui mercato ha subito crescite improvvise, verosimilmente frutto di operazioni speculative, in assenza del sostegno di un credibile livello di storicizzazione, le flessioni possono essere più evidenti. Laddove invece il mercato di certi artisti è sano, cioè è frutto di una crescita lenta ma costante, senza improvvise impennate, anche nei momenti di crisi il livello dei prezzi tende a rimanere costante, ed è mantenuto tale proprio da chi, godendo sempre di disponibilità economiche, è più favorevole a investire in un mercato sostenuto dalla critica o storicizzato nel tempo, invece di puntare su scelte di natura speculativa.

Italia

Un buon esempio di mercato – rispetto a ciò che si è appena detto – è dato dalla storia del mercato dell’arte italiana, sia all’interno sia all’estero. Dopo il grande successo di una mostra retrospettiva sull’arte italiana, The Italian metamorphosis, 1943-1968, presentata al Guggenheim Museum di New York (1995), si crearono le condizioni per un rilancio internazionale della produzione del nostro Paese; da allora alcune fra le principali case d’asta internazionali iniziarono a organizzare annualmente vendite monografiche dedicate all’arte italiana. Ben presto tali vendite si sono definite come un importante appuntamento, contribuendo a proporre la migliore produzione del Novecento all’attenzione dei mercati stranieri. Più ancora di eventi espositivi istituzionali presso i grandi musei, queste vendite hanno portato alla ribalta internazionale i nostri migliori artisti determinando una lenta ma costante crescita delle loro quotazioni. Si è così giunti alla completa valorizzazione delle opere che oggi finalmente sono vendute anche in contesti non monografici, poiché conosciute e apprezzate globalmente.

La crescita dei valori dell’arte italiana è confermata e anzi sostenuta dalle aste tenute nel Paese. Va tuttavia precisato che un forte limite alla crescita internazionale del nostro mercato è stato, ed è tuttora, rappresentato da vincoli di tipo legislativo: il complesso normativo che disciplina l’esportazione delle opere d’arte dall’Italia all’estero, in vigore da più di cinquanta anni, è fondamentalmente costituito dal d.l. 22 gennaio 2004 n. 42, che recepisce il Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’art. 10 della l. 6 luglio 2002 n. 137. Si tratta di una legge che si rifà sostanzialmente alla normativa vigente dal 1939 (l. n. 1089, Tutela delle cose di interesse artistico o storico), in base alla quale per esportare opere realizzate più di cinquanta anni fa è necessario chiedere alla Soprintendenza alle belle arti una licenza di esportazione. Di fatto è, questo, un vincolo all’esportazione: esso si esprime nei termini di un controllo sulla opportunità o meno che determinate opere siano portate all’estero. Il principio ispiratore è la tutela del patrimonio artistico nazionale; tuttavia il sistema soffre in quanto la legge è nata in presenza di circostanze e problematiche attuali nel 1939, ma ormai obsolete. Lo Stato esercita così un controllo sulla libera circolazione delle opere, e laddove la licenza di esportazione venga negata, l’opera non potrà lasciare il territorio nazionale; di conseguenza potrà essere commercializzata solo in Italia.

Limitare la commercializzazione di un bene unicamente all’ambito interno, escludendo di fatto la possibilità che l’oggetto sia acquistato da compratori stranieri, significa esercitare, indirettamente, un forzoso controllo sui prezzi: minore il numero dei potenziali acquirenti, più basso il prezzo di vendita finale. I prezzi non sono frutto dell’incontro fra la domanda e l’offerta sul mercato globale, ma unicamente espressione del mercato nazionale. Tale controllo interno ha un indotto negativo anche sui prezzi delle opere d’arte italiana vendute all’estero. Le opere migliori o più rare di alcuni artisti attivi nella prima metà del 20° sec. sono tutte realizzate da più di cinquant’anni (si pensi, per es., a Giorgio Morandi, Giorgio De Chirico, Filippo De Pisis ecc.); la massima parte di esse non può dunque essere venduta all’estero, salvo che si trovi già fuori dai confini nazionali. Ciò naturalmente determina un abbassamento dei prezzi e spiega il motivo per cui artisti italiani storicizzati, musealizzati e internazionalmente riconosciuti e apprezzati, abbiano quotazioni ancora inferiori rispetto ai loro equivalenti stranieri.

 

Fonte:

http://www.outsidernews.net/il-mercato-dellarte/

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