Lettere di una novizia, la malafede secondo Piovène

“Noi uomini moderni non possiamo aspirare alla stupenda ignoranza di alcune zone pericolose dell’animo che garantiva la vita dei nostri antichi”, afferma Guido Piovène nell’introduzione alle Lettere di una novizia (seconda opera di Piovène dopo la Vedova allegra del 1931), romanzo epistolare del 1941 che racconta la contrastata e sbagliata vocazione di una ragazza della buona borghesia. Fulcro dell’opera è però, come recita la sinossi, la rappresentazione del sentimento della “malafede”, quella scarsa o nulla coscienza di sé che porta i personaggi a nascondere le proprie ragioni sotto le giustificazioni più tortuose, le motivazioni più capziose. Confondendo valori e false promesse di un’educazione cattolica e di una formazione fascista, Piovène dà espressione alla condizione di una intera generazione di intellettuali e di uomini forse liberi di scrivere, muoversi e pensare, ma carichi di pregiudizi, prescrizioni, sovrastrutture, prevenzioni.

Tuttavia i personaggi del romanzo possiedono una specie di diplomazia che insegna a nascondere anche a loro stessi le cose meno degne del proprio animo, si difendono dalla verità attraverso una guerriglia di lucide contraffazioni, di reticenze, si sincerità esibite. Nella fitta corrispondenza che fa luce a poco a poco la tragica vicenda della protagonista di nome Rita Passi, erede della Religiosa di Diderot, della monaca di Monza di Manzoni e della Capinera di Verga, colpevole di un omicidio involontario e costretta dalla madre a chiudersi in convento, in cambio del silenzio sull’accaduto, la realtà si frantuma per effetto della moltiplicazione dei punti di vista: Rita cerca di giustificare le proprie azioni, ma le sue parole sono contraddette da quelle degli altri personaggi che ruotano intorno alla vicenda. Ogni punto di vista si rivela dunque vero e falso contemporaneamente; Piovène rigetta deliberatamente di suggerire al lettore una chiave di lettura univoca e confortante, adoperando un linguaggio chiaro, coinvolgente.

Piovène, assiduo lettore della letteratura moralistica del Settecento francese, è un illuminista del mistero che non rinuncia alla propria razionalità ma nemmeno rinnega la sua formazione cattolica attraverso le vicende dei suoi “disperati”. La sua è una sfida metafisica, come progressivo sforzo di eliminazione della spiritualità, sentita come menzogna; in questo senso Rita che si sente “il cervello arido e positivo come quello di un vecchio” e prova “orrore del sogno”, desidera essere bianca nell’anima, “come passata in un bagno di cloro”.

I personaggi di Lettere di una novizia non vogliono conoscersi a fondo, ognuno capisce se stesso solo quando gli fa comodo, senza lasciare mai la loro intima diplomazia. Rita più che una persona sembra un paesaggio del Veneto tanto caro allo scrittore vicentino: ella si fonde con le cose in una sola mollezza umana e si sente che Piovène ama la sua protagonista, in quanto ella è sintesi del suo paesaggio che lo conduce al ricordo, ma i gusti di Piovène, che spesso è stato accusato dalla critica di quel tempo di “psicologismo”, sono anche più ragionevoli: la maggior parte dei moralisti moderni, secondo lui, prescrive l’acume e l’intrepidezza mentale per ottenere sincerità con noi stessi e chiarezza interiore. Nell’insegnamento moderno infatti si ordina all’uomo morale di chiarire senza pietà la sua più intima natura, per ricavarne tutte le conseguenze, ma dice Piovène nella Prefazione al romanzo:

“La sincerità e la chiarezza sono due grandi virtù; il loro culto non deve essere né passivo né cieco, e perde ogni valore morale se non è regolato e condotto dalla pietà. La morale fanatica della chiarezza interiore non è utile all’arte in quanto combatte e distrugge il mondo dei sentimenti, che quando essa interviene paiono tutti fittizi, non perché siano tali, ma perché giudicati secondo una regola estranea che li fa parere illusioni”.

I personaggi del romanzo dunque sono da biasimare perché possiedono quell’intima diplomazia volta a cattivo scopo della loro pigrizia ed egoismo; tuttavia il metodo, come lo fanno, offre degli spunti di riflessione; è interessante notare come i personaggi del libro sia per la maggior parte religiosi: essi si muovono in ambienti vagamente ecclesiastici, senza però che nulla sia preso dal vero e senza ambire nemmeno alla verosimiglianza.

Risulta molto ambiguo il rapporto tra Rita e sua madre in una contaminazione costante di pietà e di vendetta e doloroso il loro reciproco bisogno di amore e distruzione; “Speriamo che Dio mi capisca” sono le ultime parole di Rita al cappellano della prigione, mentre i suoi occhi si velano e il corpo si intorpidisce, crescendo dentro di sé la consapevolezza di essere stata in fondo sempre morta, con due omicidi sulle spalle, compiuti in uno stato di sonnambulismo.

Il lettore di Lettere di una novizia non può fare a meno di chiedersi cosa si nasconde dietro il castello di menzogne e quell’intricato raggiro psicologico di vescovi, preti, monache, serve, parenti e amici e perché nella mente di Rita c’è qualcosa che non può non riguardare tutti noi. Ma sarebbe riduttivo definire il romanzo di Piovène un giallo psicologico, al lettore stesso è affidato il compito di compiere un’indagine gnoseologica che però è vanificata da valori morali incerti, tanto che è impossibile dividere i buoni dai cattivi. Rita, per quanto falsa, diventa colei che smaschera le ipocrisie, le ingiustizie sociali e i conformismi. Come Gadda, che negli stessi anni di Lettere di una novizia scrive La cognizione del dolore, Piovène denuncia la retorica dei buoni sentimenti dando voce ad una generazione di personaggi che si scoprono spiritualmente orfani: “Le virtù sono vizi dissimulati”.

Guido Piovene, indagatore del declino umano

                                                              (Vicenza, 27 luglio 1907 – Londra, 12 novembre 1974)

Scrittore e giornalista italiano, Guido Piovene nasce a Vicenza nel 1907 da una famiglia di nobili. Si avvia senza indugi alla carriera giornalistica, incominciando a collaborare con <<Il Convegno>> e <<Pegaso>>. Nel 1935 entra a far parte de <<Il Corriere della sera>> (per il quale lavora come corrispondente estero a Parigi e Londra) per poi passare a <<La Stampa>>, del quale è collaboratore fino alla fondazione, con Indro Montanelli e altri, del quotidiano milanese <<Il Giornale>> (1974). Collabora più avanti anche con <<Solaria>>, <<Pan>>, <<Il Tempo>>.

Nel 1931 pubblica i suoi primi racconti: “La vedova allegra” e dieci anni dopo “Lettere di una novizia”.L’opera di Piovene varia dalla corrispondenza e dai servizi di giornalismo d’alto livello alle pagine di viaggio e di riflessione (in un secondo momento della sua produzione infatti, la sua attenzione si rivolge ai reportage di viaggio; ricordiamo a tal proposito il “De America” del 1953 e “Viaggio in Italia” nel 1957, una delle sue opere più famose), al racconto, al romanzo, è quella di uno scrittore- saggista formatosi a metà strada tra un cattolicesimo sensuale, dal sapore fogazzariana, e un illuminismo che si ispira ai moralisti e ai romanzieri francesi del Sei-Settecento; e fondendo queste due peculiarità in un suggestivo freudismo esistenzialista (riferendosi specialmente a Nietzsche).

Nel 1968 è presidente della giuria della Mostra internazionale del cinema di Venezia, ma la massima riuscita della mai dimenticata introspezione psicologica dei personaggi la ottiene grazie al romanzo del 1970 “Le stelle fredde”, dove una trama asciutta, ridotta all’osso fa da cornice ad un’acutissima analisi della morale.“Le stelle fredde”è stato insignito del premio Strega nello stesso anno, ricevendo consensi positivi anche dal pubblico.
Al centro delle riflessioni di Piovene, come si è accennato, vi sono il declino morale e quindi anche umano, l’aspetto psicologico,i costumi della provincia, un’ ambigua e repressa sensualità che nasce dal sentimento religioso. Sono tutti elementi che danno consistenza alla complessità del personaggio-io proposto dallo scrittore vicentino.

Tuttavia “Le stelle fredde” che insieme a “Lettere di una novizia” costituisce l’opera più nota di Piovene, offre diverse chiavi di lettura da quella psicoanalitica (sebbene in questo romanzo Piovene cerca di “purificare” la narrazione da risvolti psicoanalitici) a quella semiologica ed intertestuale, entrando a pieno titolo nell’incandescente territorio della postmodernità. Piovene riflette anche sulla condizione della mitografia occidentale che ha eseguito ormai il suo ultimo canto: il grande mondo umano non c’è più, al suo posto c’è il mondo della finzione e dei simulacri. Questa è l’amara constatazione del conservatore Piovene che dimostra tutta la sua sensibilità nell’indagare intorno al declino della morale i cui protagonisti hanno paura di conoscersi fino in fondo, preferendo condurre una vita misera basta su rapporti di convenienza.

Sottrattosi alle istanze ottocentesche dove il realismo la faceva da padrone, Guido Piovene riserva un posto ristrettissimo al suo anti-personaggio (protagonista assoluto del romanzo novecentesco) che descrive con uno stile essenziale, scarnificato, quasi a voler fare terra bruciata di tutti i generi letterari, per poterne creare di nuovi, in fondo solo distruggendo si può creare nuove forme. Lo scrittore è dissacratorio, ironico, sottile, mimetico, quando entra nel cuore delle situazioni, dei personaggi, delle storie, consapevole di appartenere ad un mondo culturale ormai sull’orlo della fine e di essere vittima anch’egli di quel declino umano. Questa presa di coscienza è soprattutto supportata dalla sofferenza di Piovene dovuta alla sua malattia che ne avrebbe causato la morte.

Di Ilaria Formisano.

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