‘L’Europa semilibera’ di Piovène: un continente ambiguo

Può essere interessante rileggere un saggio di taglio giornalistico tutto focalizzato su un’Europa che non c’è più ma che riserva ancora aspetti conoscitivi tali da essere sviluppati in testi apparentemente lontani. L’Europa semilibera di Guido Piovene proponeva nel 1973 una carrellata rapida ma incisiva sopra nazioni che già allora emanavano problemi istituzionali non secondari. Oggi tutto sembra essere mutato ma il dilemma di fondo era già nelle pagine francesi d’apertura: l’unificazione europea. Quale ragione ha di farsi – si chiedeva Piovene – sottolineando quel problema d’identità che affiancava un’unità tutta ancora da inventarsi a oggi secondo criteri non economicistici. Un’unità omogenea veniva rilevata per certi versi nell’area scandinava ma nel contempo trovava campo la consapevolezza di un’Europa disposta a considerare anche l’altro da sé: cercare di capire chi è diverso; pensiero che può tornare utile in una temperie di trapasso come la nostra dove assistiamo ad una fase di forte compressione dell’informazione verso forme liquidatorie di problemi complessi, sotto l’accelerazione di un sapere così frantumato da apparire irriconoscibile.

Ottusità, ritardi, violenze sfidano l’intelligenza, la razionalità, caratteristiche che già allora sembravano emergere dallo strano capitalismo cinese in grado di coniugare stato e mercato, mettendo in risalto le debolezze di una legislazione commerciale già troppo permissiva, a danno di quella cultura media che proprio la Francia ergeva nella cerchia della propria borghesia forse il lascito più speranzoso per un riflesso continentale minimamente adeguato. Una cerchia piuttosto mobile, che oggi vediamo ridotta e di molto, ma che Piovene certificava come una società evoluta, molto diversa a confronto di quella inglese, accreditata di una capacità di adattamento al mondo artistico, con il genio del bizzarro, in grado di screditare a vari livelli gli estremi sociali e ritrovarsi in una medietà anomala rispetto a quella francese e tedesca. Una medietà che offriva comunque un sistema universitario selettivo ma nel contempo non precludeva una certa quantità di anarchia che ha condotto verso una Londra cosmopolita ma depotenziata in prospettiva e ad ampie periferie in sofferenza, nell’incertezza della Brexit, periferie che comprendono anche la mossa Scozia, alla ricerca della propria indipendenza, della quale Piovene ci dà una splendida pagina di carattere naturalistico. La libertà personale diventa una problematica costante dei viaggi europei dell’autore, è la questione che più sta a cuore come un’ossessione pervasiva ai cittadini europei, quanto la libertà di coscienza in Olanda, che in modo esplicito considera le prostitute rispettabili lavoratrici in quanto puntuali con il fisco, e ove la pillola cautelativa – solo per fare un esempio – regge e domina il confronto con la querelle della verginità materiale della madre di Cristo, tema nettamente minoritario a confronto. Non erano quisquilie nel 1973 quando gli scricchiolii nel mondo cattolico se da una parte affermavano valori dall’altra cozzavano con la volontà di vivere liberamente per altre vie, pur rimanendo la spada di Damocle di cercare sentimenti e cuore per un’Europa sfuggente. Un’Europa orizzontale, federale, diffusa, decentrata, di densità omogenea si concretizzava permanentemente anche attraverso vuoti istituzionali, istituzioni alla deriva alla ricerca di nuove forme di rappresentanza. Sono discorsi che in Belgio, Piovene e non solo si sentono preconizzare insistentemente con la curiosa coincidenza che ci troviamo nelle zone di maggiore centralizzazione del potere europeo attuale.

La parentesi scandinava è molto interessante tra lo scorrere veloce di una Svezia pienamente consapevole della propria forza di marketing – una grande compagnia di assicurazione grazie a un welfare ora non più sostenibile con quel vigore – e si badi bene oltre la cornice del MEC e di una Unione Europea che andrebbe a minare equilibri di una compattezza partecipativa ricorrente. Ma anche peculiare e singolare negli atteggiamenti familiari e individuali, una Swedish way of thinking che si impone in via istituzionale a combattere persino la solitudine, nella forma più estrema. Un’ipertrofia della socialità, la definisce Piovene, con la natura ad impersonare il ruolo trascendente del divino. La Norvegia mantiene una mentalità marinara autentica, un profilo più “barbaro” della Svezia, di navigatori che sanno attardarsi in un gioco che avanza sicuro e autonomo, ma con meno autocompiacimento e più ruvidezza. La maestosità dei fiordi norvegesi tesse un ordito che lascia spazio all’immaginazione ma anche alla presenza più presaga di avventura complice e parzialmente prevedibile.

La Finlandia è un coagulo di certezze raffinate, di straordinarie vitalità appartate e quasi gelose di un’intimità naturale e molto autoctone, di architetture fisiche e mentali che hanno subìto l’influsso russo e svedese preservando una quasi intatta specificità culturale (l’arte dei cristalli è sapienziale). Qui l’Europa incontra qualcosa che le è proprio ma anche un accento diverso, uno spazio di laghi e betulle, tra rocce nere e boschi di una terra nazionalista, un’essenza speciale piena di sottigliezze e distinzioni che rifrangono uno stile sinuoso. La luce di Helsinki mostra la città più silenziosa e forse più bella del Nord. La Danimarca mantiene qualcosa del tratto tedesco nella sua cultura in un misto anglosassone e proprio: è stato il primo paese a sdoganare la pornografia e primordiali forme di poliamore. Piovene registra per tempo: siamo pur sempre nel paese di Andersen ma anche di Kierkegaard verrebbe da aggiungere, favola e una certa forma di misticismo si toccano. L’Irlanda è una tappa quasi turistica per Piovene che ha vissuto più volte tutti i paesi esplorati in epoche anche molto diverse – ciò avvalora una sorta di viaggio nel viaggio già complesso in un novecento multiforme – e tra gli alberi più belli d’Europa si stempera quella voglia di Europa, vedendo già l’illusione di un continente ancora da edificare, tra impressioni fresche e datate, ambizioni e illusioni che alludono a un futuro precario.

Lo splendidamente intatto dell’entroterra spagnolo vale ancora, come la speculazione edilizia della costa, ma quale balzo ha fatto la hispanidad odierna nel mondo, l’investimento sicuro ed efficace nel turismo e nell’agricoltura, nei trasporti di qualità, nel gusto igienico decoroso per chiunque frequenti beni pubblici e servizi. La Spagna ha virato con forti autonomie e un’attenzione speciale all’uomo – qualunque esso sia – che metta piede sul proprio suolo. La Spagna – scriveva bene non solo Piovene, ma Ortega, Unamuno, Giusso e molti altri – non è solo Europa e Africa, ma anche molto altro e soprattutto Spagna nella sua diversificata forma e sostanza. Popoli orgogliosi di essere parti decisive di una sedimentazione varia e ampia, ordinatissima nei suoi vigneti ed oliveti, persino commovente nel reale e concreto sussiego della Andalusia, con Granada e l’Alhambra allo zenit e la Giralda a Cordoba come torre eletta araba nel mondo per bellezza. Piovene ammira pure il Portogallo delle coste, un paese attardato ma dolce, gentile, permaloso, orgoglioso e indolente. Una periferia tutta particolare, così lontana dal sentire quasi montanaro di una certa Spagna. Europeo ma anche qui con caratteristiche così tipiche da farne un microcosmo, un mondo a parte.

L’Europa oggi è la Germania unita, il tedesco la occupa con la forza di un’economia globalizzata, di stampo statunitense, è un paese che ha fatto i conti con il proprio passato rielaborandolo profondamente e passando ad altro, superando quell’ansia che Piovene registrava nelle terre che non vedono quasi del tutto il mare come sosteneva Savinio (e Sorte dell’Europa sarebbero pagine da leggere accanto a quelle dello scrittore vicentino), Piovene avverte per tempo a Berlino che l’aria sta cambiando nella città dell’assurdo recinto, così come Monaco l’aveva preceduta in quella gigantesca opera di ricostruzione dove vi è un curioso e interessante incontro con Konrad Lorenz. Piovene crede negli individui, nelle nazioni, nelle ragioni di un continente che rimane ambiguo e anfibio, come quando esisteva la grande divisione ad Est, ora venuta meno, ma che non ha dissolto quel grado di diffidenza tra le nazioni che sembra portare verso accordi a più velocità, tra fanatismi, opportunismi e silenzi prudenti interni ed esterni alle dinamiche delle relazioni internazionali.

La crescita paritaria dell’Europa è una favola sentenziava Piovene nel 1973, che credeva nel ruolo guida della Francia (aveva già dedicato nel 1966 un notevole saggio, Madame la France, che merita di essere vagliato con attenzione quanto il suo De America, per non parlare di quel capolavoro che resta Viaggio in Italia) dove la crisi dell’idea di Europa, l’Europa semilibera appunto, era anche una crisi di sogni, di utopie vitali, di ipotesi realmente percorribili nel tempo lungo di un’unificazione graduale e sensata. In un panorama editoriale raramente attrattivo come il nostro, non appare fuori luogo attuare qualche ripescaggio di autori di alto livello, il caso di Piovene poi offre anche sul fronte narrativo e biografico ampi spazi inediti di indagine. Europeo lo era già per vocazione, ma non aveva dimenticato la sovrana bellezza e stanchezza di un certo paesaggio veneto, a lui carissimo.

 

Stefano Chemelli

Processo dell’Islam alla civiltà occidentale, il resoconto di Guido Piovène

Nel settembre 1955 un gruppo di autorevoli intellettuali islamici e italiani si riunisce a Venezia, presso la Fondazione Cini, per discutere dei rapporto tra la civiltà islamica e quella occidentale. Prendono parte i maggiori studiosi dell’Islam, da Giorgio Levi della Vida ad Alessandro Bausani, a Francesco Gabrieli; un economista, Pasquale Saraceno; un giurista, Francesco Carnelutti, che all’incontro dà la forma di un vero e proprio dibattimento tra accusa (i paesi mussulmani) e difesa (l’Occidente), e uno scrittore, Guido Piovène, che due anni dopo pubblica il resoconto di tali conversazioni dal titolo Processo dell’Islam alla civiltà occidentale.

Lucido e disincantato osservatore, Guido Piovène non solo riesce a restituire con puntualità al lettore la fitta schermaglia degli interventi, ma assume il ruolo di commentatore appassionato, fino a diventare protagonista e giudice della discussione nelle riflessioni conclusive. Processo dell’Islam alla civiltà occidentale è un documento prezioso e di estrema attualità per le tematiche trattate, tra cui la compatibilità tra Islam e democrazia e la possibilità di integrazione tra l’universo mussulmano e il sistema economico occidentale. Piovène si dimostra abile nel coniugare i toni brillanti del reportage culturale con una prosa intrisa di umori filosofici e di suggestioni letterarie, lasciando emergere quel suo tipico carattere tragico di una scissione dell’uomo e della sua storia destinata a non risanarsi.

I ’50 sono gli anni degli ultimi fuochi del colonialismo, pensiamo alla crisi di Suez, ai rapporti tra Francia e Algeria, quando al rifiuto degli U.S.A. di finanziare la costruzione della diga di Assuan, Nasser rispose nazionalizzando la Compagnia del canale e assicurando il proprio appoggio alla ribellione algerina, provocando l’immediata reazione di Israele che, con il conforto di Francia ed Inghilterra, occupò la striscia di Gaza e la penisola del Sinai, minacciando di invadere l’Egitto. Stati Uniti e Unione Sovietica fermarono però l’invasione costringendo Francia ed Inghilterra a ritirarsi. Piovène intuisce una lotta atavica, una tensione tra Oriente e Occidente.
Egli deduce da questo incontro che Islam e Cristianesimo non potrebbero mai contrastare se osservassero il loro credo sempre e fino in fondo. La discussione ad un certo punto viene portata su un piano politico: le differenze vengono rimarcate riflettendo sulla loro natura non tanto religiosa ma soprattutto, politica ed economica. Ciò che elimina il dialogo infatti non è il credo, la fede ma il denaro, gli interessi, le armi, e le guerre. Piovène dunque piuttosto che fare il moderatore della discussione ha esposto le sue riflessioni senza timore.

Venezia è stato il luogo più adatto ad un incontro come questo, in quanto è stato anche un luogo nel quale, di fronte all’Oriente, si è portati a una maggiore umiltà; se una città come Bagdad mostra quello che abbiamo dato all’Oriente in tempi moderni, a Venezia tutto ci parla di quello che l’Oriente ci ha dato in tempi più antichi.

Entrando nello specifico degli interventi da parte degli autorevoli protagonisti dell’incontro, è oppurtuno sottolineare la frase di Carnelutti secondo il quale non solo bisogna conoscersi per amarsi ma bisogna amarsi per conoscersi; solo l’ignoranza genera avversione ma basta conoscersi perché, grazie ad una specie di automatismo dello spirito, ne possa scaturire un’intesa reciproca, i luoghi comuni fanno parte di un idealismo pigro e fatuo.

Senza dubbio è stato Taha Husein, l’uomo che più di tutti ha parlato in maniera diffusa dalla parte islamica, con tono sentenzioso ed insinuante. Egli sostiene che gli occidentali sono stati discepoli degli orientali, poi superatili, ne sono diventati i maestri e insieme gli oppressori; mentre l’Occidente dinamico, razionale, agnostico, materialista e scientifico, ha insegnato agli orientali i metodi di ricerca scientifica, ha svegliato il mondo dell’Islam, gli ha dato coscienza dei suoi diritti, ma nello stesso tempo lo ha oppresso. Incolpevoli gli sicenziati, i veri uomini di pensiero, nessun processo al Cristianesimo, nessuna colpa al popolo. La vera colpa secondo Husein è dei politici, degli industriali, dei banchieri, fautori e autori della colonizzazione.

In effetti se si pensa all’aspetto puramente religioso l’idea di carità cristiana è affine a quella mussulmana di fratellanza e uguaglianza, ma bisogna tener contro che quella mussulmana ha anche un forte accento giuridico e che i mussulmani stessi sono stati dominatori dell’Occidente (basti pensare alla Spagna mussulmana). L’Islamismo rispetto al Cristianesimo è un movimento di ritorno verso la saggezza classica; dalla più ardua qualità dell’insegnamento di Cristo può nascere una duplice conseguenza: un sentimento, un approccio alla vita più tragico e rigido da una parte, e un ascetismo profano, dell’arte e dell’ambizione, dall’altra. Non è un caso che proprio il Cristianesimo è stato chiamato agonistico, per la sua coscienza drammatica del peccato e della colpa, d’altra parte molti cristiani, ritenendo che una vera vita cristiana sia troppo alta per lui, rinunciano a mettere in pratica i principi della loro fede e si affidano alla Grazia di Dio. La Legge che tramanda il Corano ha in sé qualcosa di teologicamente arbitrario, è tale perché voluta da Dio, ma si tratta di un Dio meno legale di quello evangelico e meno affine al pensiero umano. Nel Corano tutte le virtù si riducono ad una, l’obbedienza a scapito del pensiero umano.

Nella civiltà storica derivata dal Cristianesimo l’incarnazione che moltiplica il valore dell’uomo porta ad un’esaltazione delle attività umane; si ha dunque una civiltà ricercatrice, laica, attiva, (attraversata dal Rinascimento e dall’Illuminismo), propensa ad accettare l’errore. Nell’Islam invece nasce una civiltà teocratica, in cui potere religioso e potere civile coincidono. Naturalmente il biasimo dei mussulmani nei confronti degli occidentali è quello di leggere male il Corano, come sostiene anche Husein, il quale però non tocca fino in fondo l’aspetto puramente religioso del contrasto tra Oriente e Occidente. E se questo contrasto in realtà non ci fosse, poiché, come sostiene l’inglese Philby, convertito all’Islam, la civiltà islamica si è occidentalizzata? Dunque anche per Philby, occidentale in crisi, il contrasto tra Oriente e Occidente è solo politico.

Un’osservazione che può costituire la migliore chiave di lettura della discussione di Venezia nel settembre del 1955 è la seguente:

Quando nel 641 il califfo Omar occupò l’Egitto, davanti alla celebre biblioteca di Alessandria fu lapidario: <<O questi libri! Contengono ciò che già c’è nel Corano e allora sono inutili, oppure dicono qualcosa che nel Corano non c’è, e allora sono pericolosi>>.

La biblioteca venne distrutta e Hegel nel ricordare l’episodio nelle Lezioni sulla filosofia della storia, dimostra come il fanatismo consustanziale al mondo islamico può prendere sul piano storico le direzioni più impensate.

Da quel Convegno risultano evidenti il carattere poco saldo e superficiale dell’idea che il mondo islamico riesce a dare di se stesso, la sua rinuncia ad approfondire ciò che sul piano culturale e religioso lo differenzia da quello occidentale, la sua deliberata scelta, come evidenzia Piovène, a porre tutto su un piano puramente politico. Ma nel 1955 erano forse gli avvenimenti del momento ad assecondare la piega politica del dibattito. Il clima internazionale in cui si svolse era certamente meno drammatico e convulso di quello all’indomani dell’attacco terroristico alle Torri Gemelle di Manhattan, alla metropolitana di Madrid, alla redazione di Charlie Hebdo; L’Islam era considerato un problema geograficamente lontano da noi.

L’autore vicentino è convinto che l’occidente si debba sbarazzare di due idee: quella di grande potenza e di una sua superiorità morale, di civiltà-guida; “Possiamo antivedere”-conclude-“una civiltà nella quale nessuno avrà l’egemonia e in cui tutti appariranno in veste di contribuenti”.

 

Lettere di una novizia, la malafede secondo Piovène

“Noi uomini moderni non possiamo aspirare alla stupenda ignoranza di alcune zone pericolose dell’animo che garantiva la vita dei nostri antichi”, afferma Guido Piovène nell’introduzione alle Lettere di una novizia (seconda opera di Piovène dopo la Vedova allegra del 1931), romanzo epistolare del 1941 che racconta la contrastata e sbagliata vocazione di una ragazza della buona borghesia. Fulcro dell’opera è però, come recita la sinossi, la rappresentazione del sentimento della “malafede”, quella scarsa o nulla coscienza di sé che porta i personaggi a nascondere le proprie ragioni sotto le giustificazioni più tortuose, le motivazioni più capziose. Confondendo valori e false promesse di un’educazione cattolica e di una formazione fascista, Piovène dà espressione alla condizione di una intera generazione di intellettuali e di uomini forse liberi di scrivere, muoversi e pensare, ma carichi di pregiudizi, prescrizioni, sovrastrutture, prevenzioni.

Tuttavia i personaggi del romanzo possiedono una specie di diplomazia che insegna a nascondere anche a loro stessi le cose meno degne del proprio animo, si difendono dalla verità attraverso una guerriglia di lucide contraffazioni, di reticenze, si sincerità esibite. Nella fitta corrispondenza che fa luce a poco a poco la tragica vicenda della protagonista di nome Rita Passi, erede della Religiosa di Diderot, della monaca di Monza di Manzoni e della Capinera di Verga, colpevole di un omicidio involontario e costretta dalla madre a chiudersi in convento, in cambio del silenzio sull’accaduto, la realtà si frantuma per effetto della moltiplicazione dei punti di vista: Rita cerca di giustificare le proprie azioni, ma le sue parole sono contraddette da quelle degli altri personaggi che ruotano intorno alla vicenda. Ogni punto di vista si rivela dunque vero e falso contemporaneamente; Piovène rigetta deliberatamente di suggerire al lettore una chiave di lettura univoca e confortante, adoperando un linguaggio chiaro, coinvolgente.

Piovène, assiduo lettore della letteratura moralistica del Settecento francese, è un illuminista del mistero che non rinuncia alla propria razionalità ma nemmeno rinnega la sua formazione cattolica attraverso le vicende dei suoi “disperati”. La sua è una sfida metafisica, come progressivo sforzo di eliminazione della spiritualità, sentita come menzogna; in questo senso Rita che si sente “il cervello arido e positivo come quello di un vecchio” e prova “orrore del sogno”, desidera essere bianca nell’anima, “come passata in un bagno di cloro”.

I personaggi di Lettere di una novizia non vogliono conoscersi a fondo, ognuno capisce se stesso solo quando gli fa comodo, senza lasciare mai la loro intima diplomazia. Rita più che una persona sembra un paesaggio del Veneto tanto caro allo scrittore vicentino: ella si fonde con le cose in una sola mollezza umana e si sente che Piovène ama la sua protagonista, in quanto ella è sintesi del suo paesaggio che lo conduce al ricordo, ma i gusti di Piovène, che spesso è stato accusato dalla critica di quel tempo di “psicologismo”, sono anche più ragionevoli: la maggior parte dei moralisti moderni, secondo lui, prescrive l’acume e l’intrepidezza mentale per ottenere sincerità con noi stessi e chiarezza interiore. Nell’insegnamento moderno infatti si ordina all’uomo morale di chiarire senza pietà la sua più intima natura, per ricavarne tutte le conseguenze, ma dice Piovène nella Prefazione al romanzo:

“La sincerità e la chiarezza sono due grandi virtù; il loro culto non deve essere né passivo né cieco, e perde ogni valore morale se non è regolato e condotto dalla pietà. La morale fanatica della chiarezza interiore non è utile all’arte in quanto combatte e distrugge il mondo dei sentimenti, che quando essa interviene paiono tutti fittizi, non perché siano tali, ma perché giudicati secondo una regola estranea che li fa parere illusioni”.

I personaggi del romanzo dunque sono da biasimare perché possiedono quell’intima diplomazia volta a cattivo scopo della loro pigrizia ed egoismo; tuttavia il metodo, come lo fanno, offre degli spunti di riflessione; è interessante notare come i personaggi del libro sia per la maggior parte religiosi: essi si muovono in ambienti vagamente ecclesiastici, senza però che nulla sia preso dal vero e senza ambire nemmeno alla verosimiglianza.

Risulta molto ambiguo il rapporto tra Rita e sua madre in una contaminazione costante di pietà e di vendetta e doloroso il loro reciproco bisogno di amore e distruzione; “Speriamo che Dio mi capisca” sono le ultime parole di Rita al cappellano della prigione, mentre i suoi occhi si velano e il corpo si intorpidisce, crescendo dentro di sé la consapevolezza di essere stata in fondo sempre morta, con due omicidi sulle spalle, compiuti in uno stato di sonnambulismo.

Il lettore di Lettere di una novizia non può fare a meno di chiedersi cosa si nasconde dietro il castello di menzogne e quell’intricato raggiro psicologico di vescovi, preti, monache, serve, parenti e amici e perché nella mente di Rita c’è qualcosa che non può non riguardare tutti noi. Ma sarebbe riduttivo definire il romanzo di Piovène un giallo psicologico, al lettore stesso è affidato il compito di compiere un’indagine gnoseologica che però è vanificata da valori morali incerti, tanto che è impossibile dividere i buoni dai cattivi. Rita, per quanto falsa, diventa colei che smaschera le ipocrisie, le ingiustizie sociali e i conformismi. Come Gadda, che negli stessi anni di Lettere di una novizia scrive La cognizione del dolore, Piovène denuncia la retorica dei buoni sentimenti dando voce ad una generazione di personaggi che si scoprono spiritualmente orfani: “Le virtù sono vizi dissimulati”.

Guido Piovene, indagatore del declino umano

                                                              (Vicenza, 27 luglio 1907 – Londra, 12 novembre 1974)

Scrittore e giornalista italiano, Guido Piovene nasce a Vicenza nel 1907 da una famiglia di nobili. Si avvia senza indugi alla carriera giornalistica, incominciando a collaborare con <<Il Convegno>> e <<Pegaso>>. Nel 1935 entra a far parte de <<Il Corriere della sera>> (per il quale lavora come corrispondente estero a Parigi e Londra) per poi passare a <<La Stampa>>, del quale è collaboratore fino alla fondazione, con Indro Montanelli e altri, del quotidiano milanese <<Il Giornale>> (1974). Collabora più avanti anche con <<Solaria>>, <<Pan>>, <<Il Tempo>>.

Nel 1931 pubblica i suoi primi racconti: “La vedova allegra” e dieci anni dopo “Lettere di una novizia”.L’opera di Piovene varia dalla corrispondenza e dai servizi di giornalismo d’alto livello alle pagine di viaggio e di riflessione (in un secondo momento della sua produzione infatti, la sua attenzione si rivolge ai reportage di viaggio; ricordiamo a tal proposito il “De America” del 1953 e “Viaggio in Italia” nel 1957, una delle sue opere più famose), al racconto, al romanzo, è quella di uno scrittore- saggista formatosi a metà strada tra un cattolicesimo sensuale, dal sapore fogazzariana, e un illuminismo che si ispira ai moralisti e ai romanzieri francesi del Sei-Settecento; e fondendo queste due peculiarità in un suggestivo freudismo esistenzialista (riferendosi specialmente a Nietzsche).

Nel 1968 è presidente della giuria della Mostra internazionale del cinema di Venezia, ma la massima riuscita della mai dimenticata introspezione psicologica dei personaggi la ottiene grazie al romanzo del 1970 “Le stelle fredde”, dove una trama asciutta, ridotta all’osso fa da cornice ad un’acutissima analisi della morale.“Le stelle fredde”è stato insignito del premio Strega nello stesso anno, ricevendo consensi positivi anche dal pubblico.
Al centro delle riflessioni di Piovene, come si è accennato, vi sono il declino morale e quindi anche umano, l’aspetto psicologico,i costumi della provincia, un’ ambigua e repressa sensualità che nasce dal sentimento religioso. Sono tutti elementi che danno consistenza alla complessità del personaggio-io proposto dallo scrittore vicentino.

Tuttavia “Le stelle fredde” che insieme a “Lettere di una novizia” costituisce l’opera più nota di Piovene, offre diverse chiavi di lettura da quella psicoanalitica (sebbene in questo romanzo Piovene cerca di “purificare” la narrazione da risvolti psicoanalitici) a quella semiologica ed intertestuale, entrando a pieno titolo nell’incandescente territorio della postmodernità. Piovene riflette anche sulla condizione della mitografia occidentale che ha eseguito ormai il suo ultimo canto: il grande mondo umano non c’è più, al suo posto c’è il mondo della finzione e dei simulacri. Questa è l’amara constatazione del conservatore Piovene che dimostra tutta la sua sensibilità nell’indagare intorno al declino della morale i cui protagonisti hanno paura di conoscersi fino in fondo, preferendo condurre una vita misera basta su rapporti di convenienza.

Sottrattosi alle istanze ottocentesche dove il realismo la faceva da padrone, Guido Piovene riserva un posto ristrettissimo al suo anti-personaggio (protagonista assoluto del romanzo novecentesco) che descrive con uno stile essenziale, scarnificato, quasi a voler fare terra bruciata di tutti i generi letterari, per poterne creare di nuovi, in fondo solo distruggendo si può creare nuove forme. Lo scrittore è dissacratorio, ironico, sottile, mimetico, quando entra nel cuore delle situazioni, dei personaggi, delle storie, consapevole di appartenere ad un mondo culturale ormai sull’orlo della fine e di essere vittima anch’egli di quel declino umano. Questa presa di coscienza è soprattutto supportata dalla sofferenza di Piovene dovuta alla sua malattia che ne avrebbe causato la morte.

Di Ilaria Formisano.

Premio Strega 2014: la rosa dei candidati

Si sono chiuse a Roma le candidature per la sessantottesima edizione del Premio Strega 2014; le prime ventisette opere sono presentate dagli Amici della domenica, la storica giuria composta da giornalisti, scrittoti, artisti, letterati che dal 1944 attribuiscono il riconoscimento a un libro di narrativa italiana pubblicato tra il 1° aprile dell’anno precedente e il 31 marzo dell’anno in corso. Nella prima riunione degli Amici della domenica hanno partecipato personalità del calibro di Maria Cristina Donnarumma, Carlo Bernari, Paola Masino, Palma Bucarelli e Alberto Savinio.

Il comitato degli Amici della domenica quest’anno è presieduto da  Maria Pia Ammirati, scrittrice e vicedirettore di Rai Uno; Pietrangelo Buttafuoco, giornalista e scrittore; Anna Grazia D’Oria, direttore editoriale Manni editori; Franco Di Mare, giornalista, conduttore televisivo e scrittore; Maria Cristina Donnarumma, insegnante e operatrice culturale; Dario Franceschini, scrittore e attualmente Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo; Linda Giuva, archivista e docente universitaria; Roberto Ippolito, giornalista e scrittore; Massimo Lugli, giornalista e scrittore; Lisa Roscioni, storica e saggista; Rossana Rummo, direttore generale per le biblioteche, gli istituti culturali ed il diritto d’autore del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo; Benedetta Tobagi, giornalista, scrittrice e consigliere di amministrazione della Rai; Monique Veaute, giornalista, presidente della Fondazione Romaeuropa.

Come di consueto l’11 Aprile il Comitato direttivo del Premio, presieduto da Tullio De Mauro, selezionerà tra le ventisette proposte degli “Amici” i dodici libri che andranno avanti nella selezione fino alla proclamazione del vincitore del Premio Strega 2014. Oltre a Tullio De Mauro, a Valeria Della Valle (rispettivamente presidente e consigliera della Fondazione Bellonci) ad Alberto Foschini e  a Giuseppe D’Avino (presidente e amministratore delegato di Strega Alberti spa), al comitato direttivo si aggiungono: gli scrittori vincitori del Premio Strega Paolo Giordano, Melania G. Mazzucco, Edoardo Nesi, Simonetta Fiori, il giornalista Enzo Golino e lo storico della lingua Luca Serianni. In questa nuova composizione il comitato resterà in carica per il triennio 2014-2016.

Quest’anno i dodici finalisti si contenderanno il Premio Strega Giovani, novità assoluta; una giuria di circa quattrocento ragazze e ragazzi, di età compresa tra i 16 e i 18 anni, in rappresentanza di licei e istituti diffusi su tutto il territorio italiano e all’estero (tra cui Berlino, Bucarest e Parigi) potranno esprimere la loro preferenza e determinare il vincitore di questo nuovo titolo.

I ventisetti libri presentati sono:

1. Intanto anche dicembre è passato ed. Baldini&Castoldi di Fulvio Abbate; presentato da Michele Mari e Massimo Onofri.

2. Oltre le Colonne d’Ercole  ed. Book Sprint di Lorenzo Bracco e Dario Voltolini; presentato da Daria Bignardi e Paolo Di Stefano.

3. Match nullo ed. Cavallo di Ferro di Luca Canali; presentato da Roberto Pazzi e Paolo Ruffilli

4. Non dirmi che hai paura ed. Feltrinelli di Giuseppe Catozzella; presentato da Giovanna Botteri e Roberto Saviano.

5. Lisario o il piacere infinto delle donne ed. Mondadori di Antonella Cilento; presentato da Nadia Fusini e Giuseppe Montesano.

6. Il mantello di porpora ed. La Lepre di Luigi De Pascalis; Presentato da Filippo La Porta e Claudio Strinati.

7. Il paese senza nome Ed. Carabba di Lucianna Di Lello; presentato da Vittorio Avanzini e Ludovico Gatto.

8. C’è posto tra gli indiani ed. Perrone di Alessio Dimartino; presentato da Antonio Augenti e Elena Clementelli.

9. Bella mia ed. Elliot di Donatella Di Pietrantonio; presentato da Antonio Debenedetti e Maria Ida Gaeta.

10. Publisher ed. Fazi di Alice Di Stefano; presentato da Giuseppe Conte e Francesca Pansa.

11. Riscatto ed. Libroteca Paoline di Melo Freni; presentato da Giampaolo Rugarli e Giovanni Russo.

12. Una storia ed. Coconino Press di Gipi; presentato da Nicola Lagioia e Sandro Veronesi.

13. To Jest Edizioni il Foglio di Fabio Izzo; presentato da Predrag Matvejević ed Elisabella Kelescian.

14. Calcio e acciaio ed. Acar di Gordiano Lupi; presentato da Marcello Rotili e Wilson Saba.

15. Viaggiatori di nuvole ed. Marsilio di Giuseppe Lupo; Presentato da Salvatore Silvano Nigro e Sebastiano Vassalli.

16. Come fossi solo ed. Giunti di Marco Magini; presentato da Maria Rosa Cutrufelli e Piero Gelli.

17. Ganymede e la notte dei cristalli ed. Biblioteca dei Leoni di Franco Massari; presentato da Giorgio Bàrberi Squarotti e Luciano Luisi.

18. Oltre il vasto oceano ed. Avagliano) di Beatrice Monroy; presentato da Renato Besana e Corrado Calabrò.

19. Nella casa di vetro ed. Gaffi di Giuseppe Munforte; presentato da Arnaldo Colasanti e Massimo Raffaeli.

20. La mia ora di vento ed. Il Papavero di Gerardo Pepe; presentato da Piero Mastroberardino e Cesare Milanese.

21. La terra del sacerdote ed. Neri Pozza di Paolo Piccirillo; presentato da Valeria Parrella e Romana Petri.

22. La vita in tempo di pace ed. Ponte alle Grazie di Francesco Pecoraro; presentato da Giuseppe Antonelli e Gabriele Pedullà.

23. Il desiderio di essere come tutti ed. Einaudi di Francesco Piccolo; presentato da Paolo Sorrentino e Domenico Starnone.

24. Storia umana e inumana ed. Bompiani di Giorgio Pressburger; presentato da Gianfranco De Bosio e Sergio Givone.

25. Venga pure la fine ed. e/o di Roberto Riccardi; presentato da Francesco Guccini e Giuseppe Leonelli.

26. Ovunque, proteggici ed. nottetempo di Elisa Ruotolo; presentato da Marcello Fois e Dacia Maraini.

27. Il padre infedele ed. Bompiani di Antonio Scurati; presentato da Umberto Eco e Walter Siti.

Non resta che augurare buona fortuna a tutti e aspettare l’11 Aprile per la prima selezione. La prima votazione per definire la cinquina dei finalisti avrà invece luogo l’ 11 Giugno in casa Bellonci, così come tradizione vuole. La seconda votazione e la proclamazione del vincitore avverranno il 3 Luglio in Villa Giulia.

Intanto, buona lettura!

‘Conversazione in Sicilia’: la scoperta dell’Uomo

Tra sogno e realtà, Conversazione in Sicilia sembra stato scritto sotto il segno di un’allucinazione continua da Elio Vittorini, il quale porta il lettore nelle splendide terre siciliane, accompagnandolo in un lungo viaggio fatto di incontri surreali, momenti paradossali, attimi che restano nella memoria, nel ritorno alla terra natia.

Il protagonista di quella che resta una delle migliori opere scritte da Vittorini, è Silvestro Ferrauto, intellettuale e tipografo che, ormai, vive a Milano da 15 anni. Dopo aver ricevuto una lettera dal padre, un ferroviere libertino, buono a nulla, uno di quegli uomini, padri, a cui forse speri di non assomigliare mai, che ha deciso di lasciare la moglie, Concezione, per andare a vivere a Venezia con un’altra donna, decide di tornare a casa, la sua Sicilia. Decide così di percorrere quel lungo viaggio che porta con se un cambiamento e un ritorno al passato. Accompagnato da una miriade di ricordi che affollano la mente, Silvestro incontra, durante il tragitto, personaggi che lo colpiscono particolarmente. Sul traghetto che lo porta da Villa San Giovanni a Messina, conosce un piccolo siciliano disperato con una moglie bambina, che lo scambia per americano e gli offre delle arance. Sul treno che lo porta a Siracusa, incrocia un uomo in cerca di doveri più grandi, che chiama Gran Lombardo, un vecchio, un catanese e un ragazzo malato di malaria. Conosce poi due polizziotti, a cui lo stesso protagonista da i nomignoli di Senza Baffi e Con Baffi, disprezzati dagli occupanti siciliani del vagone. E così, attraverso quello che si presenta come un pretesto, il viaggio di ritorno verso casa, Vittorini mostra al lettore punti di vista, idee, pensieri personali che si vestono attraverso le parole dei personaggi.

Conversazione in Sicilia è un’opera che mostra la grandezza dei romanzi del ‘900, un’opera che scorre, trascina il lettore fino all’ultima pagina, all’ultima parola, all’ultimo ricordo, a quell’addio che sembra doveroso ma che, in qualche modo, lascia un sapore amaro nell’anima.

Silvestro giunge cosi nella sua terra, tra quegli odori e sapori che solo chi ama davvero quell’isola può sentire su di se, perchè quegli odori, quei sapori, sono parte delle terre del sud, sono un amore incondizionato verso quel tempo che ancora vive nella memoria, che guida il nostro protagonista fino alla sua casa, fino a quel luogo che ancora ricorda con gioia, con un sorriso, con un cuore che batte più di quanto dovrebbe, perchè le origini non le cancelli, ti restano attaccate addosso, ti riportano indietro, ti avvolgono, ti insegnano a respirare. Ed è durante quel pranzo accanto alla madre, in un dialogo che scorre lento e forse un pò ripetitivo, che Silvestro ripercorre la strada dei ricordi. In una serie di immagini chiare e nitide, vive il ricordo della vita nelle casa cantoniere. Ma il nostro protagonista ha ricordi diversi da quelli della madre, fatti di mancanze, sacrifici, dolori, tradimenti da dover sopportare o, forse, da voler sopportare. Concezione ricorda la miseria, Silvestro ricorda un passato felice. Ed ecco che emergono ancora parole e ricordi che avvolgono quelle pagine, insieme a momenti che sembrano allucinazioni.

L’arrotino Calogero, che sostiene che nessuno ha più coltelli da affilare, si rallegra del temperino che Silvestro ha con sé. Calogero lo porta così dall’uomo Ezechiele, che gli racconta di come il mondo sia offeso. Il trio si sposta poi dal panniere (venditore di stoffe) Porfirio e infine alla bottega di Colombo, dove bevono alcuni bicchieri di vino. Lasciata la compagnia, Silvestro si reca da solo in via Belle Signore, dove incontra un soldato che rimane nell’ombra per non farsi vedere. I due discutono al cimitero e il soldato gli confessa che si ricorda di quand’era piccolo, mentre giocava con il fratello Silvestro. Gli racconta che lui recita ogni giorno una parte al cimitero insieme a tutti i “Cesari non scritti. Macbeth non scritti”. Il soldato inoltre, prima di scomparire, dice metaforicamente di trovarsi da trenta giorni su un campo di battaglia innevato.

Il lettore giunge così ai capitoli finali di Conversazione in Sicilia, tra quelle lacrime per la scoperta della morte del fratello in guerra e un’immagine che riporta quel gusto amaro, quel sapore che di dolce non ha più nulla ormai, la madre, piegata, inginocchiata, davanti a quell’uomo che Silvestro non può non riconoscere, non può amare, non può non disprezzare, un padre la cui figura è ormai solo un altro pò di quel gusto amaro che si posa sulla pelle.

In un’opera che si presenta come un vero capolavoro della narrativa del ‘900, Vittorini ci accompagna in un mondo che si mostra come un misto di realtà e finzione. Una Sicilia che «è solo per avventura Sicilia; perché il nome Sicilia mi suona meglio del nome Persia o Venezuela.»

Conversazione in Sicilia mostra così la possibilità di una doppia interpretazione. La prima è quella nel segno dell’allucinazione, del sogno, tecnica adottata da autori come Antonio Tabucchi in “Notturno indiano” e “Requiem”, oppure da Guido Piovène ne “Le stelle fredde”. Un ‘interpretazione che spiegherebbe il tono bizzarro e inconsueto verso cui procede la narrazione.

La seconda possibile interpretazione avvolge il romanzo in una chiave allegorica, perchè non tutto è come sembra. Vittorini, per non scontrarsi con le conseguenze della censura fascista, copre ogni denuncia, attacco al regime, con personaggi, azioni, parole che sembrano surreali, allucinazioni, appunto. Una critica al perbenismo borghese che non mostra il minimo interesse per i dolori, i disagi, la povertà di un mondo che sembra non appartenere loro. Attraverso uno stile e una tecnica che avvolgono 49 capitoli in un alone di misero in cui tutto potrebbe apparire paradossale, pura e semplice invenzione, Vittorini riesce ad avvicinarsi a quel verismo che ha reso indimenticabile un’opera come “I Malavoglia”.

E così, tutto viene avvolto da quel tentativo di denuncia verso quel regime che porta solo morte e distruzione, che priva gli uomini della loro libertà, dignità, forza, di quella vita che non è vita, di quei momenti che sono solo immagini da voler cancellare, dimenticare, come non fossero mai esistiti, come fossero  stati solo un brutto sogno, un’allucinazione.

Conversazione in Sicilia è uno straordinario viaggio di fantasia, una nobilitazione dello spirito puro dei contadini alla Tolstoj che conduce alla conoscenza e alla realizzazione dell’essere umano attraverso il dubbio. La narrazione procede per vie simboliche e dialoghi immediati. Magico, denso, storico e mistico.

“Scrivere è fede in una magia: che un aggettivo possa giungere dove non giunse, cercando la verità, la ragione; o che un avverbio possa recuperare il segreto che si è sottratto a ogni indagine.”

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