Per la prima volta a Roma, ‘Luca Signorelli e Roma. Oblio e riscoperte’, dal 19 luglio al 3 novembre

Nell’avvicinarsi dell’anniversario dei cinquecento anni dalla morte di Raffaello, i Musei Capitolini rendono omaggio a Luca Signorelli (Cortona, 1450 ca. -1523) nelle sale di Palazzo Caffarelli con la mostra Luca Signorelli e Roma. Oblio e riscoperte. Viene così celebrato, per la prima volta a Roma, uno dei più grandi protagonisti del Rinascimento italiano, la cui altissima parabola pittorica è stata oscurata solo dall’imponderabile arrivo di due giganti della generazione successiva: Michelangelo (1475-1564) e Raffaello (1483-1520), che al maestro di Cortona si erano però ispirati per raggiungere quell’insuperabile vertice della pittura che gli stessi contemporanei gli attribuirono.

Come scrisse infatti Giorgio Vasari, Luca Signorelli «fu ne’ suoi tempi tenuto in Italia tanto famoso e l’opere sue in tanto pregio, quanto nessun altro in qualsivoglia tempo sia stato già mai».

La mostra, a cura di Federica Papi e Claudio Parisi Presicce, è promossa da Roma Capitale, Assessorato alla Crescita culturale – Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, con l’organizzazione di Zètema Progetto Cultura. Catalogo edito da De Luca Editori d’Arte.

La mostra su Luca Signorelli

Attraverso un’attenta selezione di circa 60 opere di grande prestigio provenienti da collezioni italiane e straniere, molte delle quali per la prima volta esposte a Roma, l’esposizione intende mettere in risalto il contesto storico artistico in cui avvenne il primo soggiorno romano dell’artista e offrire nuove letture sul legame diretto e indiretto che si instaurò fra l’artista e Roma.

Il percorso, organizzato in sette sezioni, parte da un’introduzione sull’errore vasariano del vero volto dell’artista, rappresentato nelle due diverse sembianze dai Busti realizzati da Pietro Tenerani (Museo di Roma) e da Pietro Pierantoni (Musei Capitolini, Protomoteca).

I visitatori vengono poi accompagnati nella Roma del pontefice Sisto IV (1471-1484), fra le Antichità Capitoline, e davanti ad alcune opere del Maestro in cui monumenti, antichità cristiane, e statuaria classica osservati a Roma rivivono o vengono rievocati, come il Martirio di san Sebastiano (Pinacoteca Comunale di Città di Castello), il Cristo in croce e Maria Maddalena (Galleria degli Uffizi), il tondo di Monaco e la pala di Arcevia.

Il percorso prosegue all’interno della Cappella Nova di Orvieto, ricostruita attraverso un gioco di riproduzioni retroilluminate, per giungere davanti ad alcuni suoi capolavori sul tema della grazia e dell’amore materno, fra cui la Vergine col Bambino del Metropolitan Museum of Art di New York e la preziosa tavola di proprietà della principessa Pallavicini. Seguono poi le sezioni dedicate al soggiorno di Signorelli a Roma sotto il pontefice Leone X (1513-1521) e ai suoi rapporti con Bramante e Michelangelo.

A conclusione della visita, un capitolo è dedicato alla riscoperta del Maestro tra Otto e Novecento nell’arte, nella letteratura e nel mercato antiquario, con la Flagellazione (Galleria Giorgio Franchetti alla Ca’ d’Oro, Venezia) e la Madonna col Bambino fra quattro santi e angeli (Museo Nazionale di Castel Sant’Angelo)

Signorelli e Roma

Il nome del Maestro cortonese è legato alla città pontificia da una sola commissione documentata, l’affresco con il Testamento e morte di Mosè eseguito per la Cappella Sistina nel 1482. A Roma, infatti, Signorelli non ottenne quel riconoscimento che gli fu tributato in Umbria, nelle Marche e in patria, neppure quando nel 1513 fu eletto al soglio pontificio Leone X Medici, presso la cui famiglia era stato ‘a servizio’ a Firenze.

Se Roma non fu generosa con lui, fu proprio in seguito alle sue esperienze romane che Signorelli elaborò il linguaggio pittorico originale che contraddistinse sia la sua produzione giovanile sia quella matura, con la «perfetta fusione tra civiltà classica e cristiana». A Roma Signorelli ebbe occasione di conoscere direttamente le origini della cristianità e le sculture antiche: in particolare quelle già presenti sul Campidoglio, come lo Spinario – il celebre bronzo giunto sul colle capitolino nel 1471 con la donazione al popolo romano da parte di Sisto IV.

Dallo studio dell’Antico Signorelli ricavò un particolare repertorio tipologico di nudi maschili e una varietà di pose che rivivono nelle figure che abitano, come ‘comparse’, le sue scene dipinte. Nella sua continua evoluzione, ingredienti come dinamismo, tensione, animazione, classicità e grazia troveranno una perfetta fusione nel suo capolavoro assoluto: gli affreschi sulle pareti della Cappella Nova a Orvieto (1499-1504), una scuola per i grandi Maestri del Rinascimento.

 

L’Andromède ritrovata di Rodin in mostra a Milano: l’esaltazione dei valori pittorici della materia

In occasione del centenario della morte di Auguste Rodin (Parigi, 1840- Meudon, 1917), sulla scia delle celebrazioni parigine inauguratesi con un convegno nazionale e una grande mostra dedicati al genio della scultura moderna, l’Italia ricorda l’artista francese con la presentazione di un importante capolavoro, testimone di una affascinante storia della durata di 130 anni. Si tratta della seconda copia tra i tre esemplari attualmente esposti delle cinque di una scultura in marmo bianco che rappresenta la figura mitologica di Andromeda realizzata dall’artista nel 1887 e che dal 4 al 6 maggio è stata presentata in asta per la cura di Artcurial di Milano in via Corso Venezia 22, dopo essere stata ritrovata nel 2017 dai due direttori associati della casa d’asta Stephan Aubert e Bruno Jaubert.

Prima del suo recupero l’opera era stata sempre all’interno della potente famiglia cilena dei Morla a partire dalla coppia formata da Carlos Lynch e da sua moglie Luisa, amici e committenti del talentuoso scultore della naturalezza, i quali entrarono in contatto con l’artista durante il loro soggiorno nella capitale francese. Il grande maestro Rodin creò e donò la scultura – ritrovata e considerata dagli studiosi la rappresentazione di Andromède – alla coppia cilena, come gesto di gratitudine per aver accettato, su richiesta dell’artista, di cedere il busto in marmo della moglie Luisa al Musée du Luxembourg, opera realizzata da Rodin su loro commissione.

L’opera in questione sintetizza la ricerca estetica rodiniana nel mutare dei profili della figura di donna nuda e piegata sulla roccia nel blocco dal quale essa prende forma attraverso gli accurati e studiati punti di vista dell’artista nella fase di modellamento del materiale, in questo caso lapideo. La peculiare lucentezza e mordidezza plastica date alla superficie della figura, la quale emerge in contrasto con la ruvidezza della roccia, è interpretata come un accorgimento espressivo nel chiaro intento dell’artista di conferire alla scultura il senso del dramma di disperazione e rassegnazione umana, per il riferimento al racconto del mito greco di Andromeda. Figlia di Cefeo, re di Etiopia, Andromeda, infatti, sarà legata allo scoglio per essere data in sacrificio al mostro marino, come rispose di agire l’oracolo cui interrogò il padre Cefeo, affinché le coste del suo regno fossero state liberate dalla mareggiata che aveva inflitto Poseidone, come castigo alla superbia della madre Cassiopea che, nel vantarsi di possedere insieme alla figlia la bellezza più grande di tutte le Neredi, le ninfe del dio dei mari, aveva offeso le sue creature. L’infausta vicenda vedrà la luce con l’intervento dell’eroe Perseo che ucciderà il mostro con la sua spada, libererando Andromeda e facendola sua sposa.

Affascinato dall’opera di Michelangelo, Rodin approda ad una scultura che esalta i valori pittorici della materia, dinamica e palpitante. Non a caso l’artista scrisse: “Io vedo tutta la verità, e non solo quella della superficie. Io accentuo le linee che esprimono nel modo migliore lo stato spirituale che interpreto”. All’esecuzione della materia, Rodin fa precedere numerosi disegni, tracciati dal vero, per catturare l’essenza e la vitalità del proprio modello.

Le opere di Rodin, sin dai suoi esordi, riproducono il vero con tale veridicità da scatenare il dubbio nella giuria del Salon che egli eseguisse le proprie sculture mediante calchi dei modelli. Per sfuggire all’accusa, Rodin si vide costretto a modificare le dimensioni delle proprie statue. allontanandosi dalle misure naturali, ma che sempre mostrano la sua modernità che media con equilibrio il naturalismo della forma, la memoria della tradizione classica, la dinamicità delle pose e la complessità del simbolo.

Due capolavori di Daniele da Volterra eccezionalmente esposti alla Galleria Corsini di Roma

Fino al prossimo 7 maggio, la Galleria Nazionale di Arte Antica di Palazzo Corsini a Roma ospita due capolavori del grande pittore, decoratore e scultore del ‘500, Daniele Ricciarelli, meglio noto come Daniele da Volterra o “Braghettone”, ingiustamente ricordato nell’immaginario collettivo per aver messo le “braghe” alle figure degli ignudi di Michelangelo nel suo grandioso affresco del Giudizio finale della Sistina in Vaticano.

La mostra, curata da Barbara Agosti e Vittoria Romani, presenta la tela con Elia nel deserto (1545 circa) e la tavola con la Madonna con il Bambino e Santi (1548), opere custodite da centinaia di anni in una collezione privata senese, quella dei conti Pannochieschi d’Elci, cui pervennero per via ereditaria da Casa Ricciarelli e che, oggi, grazie alla stretta collaborazione con la settecentesca Galleria del cardinale Neri Corsini, sono accolte nel contesto museale per portare alla luce le due preziose opere che raramente sono state esposte al grande pubblico.

L’evento espositivo dal titolo Daniele da Volterra. I dipinti d’Elci” mira ad offrire una rara opportunità di apprezzare da vicino i colori e l’originale maniera del grande artista toscano la cui vicenda artistica deve essere resa sempre più diffusa e che in questo spazio si vuole mettere in risalto il livello altissimo della sua pittura raggiunto in queste due opere riconosciute dalla critica capolavori, realizzati dal pittore a Roma negli anni in cui regnò Paolo III Farnese (1534 – 1549).

Daniele da Volterra e la lezione michelangiolesca

Come riferisce Giorgio Vasari nella biografia dedicata a Daniele da Volterra nella sua monumentale opera de Le Vite, non era ancora trentenne quando il giovane Daniele Ricciarelli (1509-1566), nato a Volterra, approdò a Roma, come molti artisti toscani. La scena artistica romana vedeva Michelangelo come il protagonista della committenza papale. Dai difficili esordi senesi presso il Sodoma e Baldassarre Peruzzi (come indica sempre Vasari), a Roma Daniele lavorò con la collaborazione di Perin del Vaga, allievo del grande Raffaello, e nell’orbita di Michelangelo, con il quale egli fu legato da un lungo e profondo legame di amicizia. Suo grande ammiratore, Daniele assorbì e reinterpretò la lezione michelangiolesca estrema, quella ormai elusa da ogni abbellimento di tipo naturalistico e che diventa, invece, frutto di una visione del mondo drammatica e angosciata nel gran numero di figure inventate, disegnate, concepite, ognuna a sé stante e liberamente sospese, nelle varie pose in una composizione straordinaria e innovativa: l’affresco del Giudizio finale (1536-1541). Daniele realizzò il diventato celebre ciclo di affreschi nella chiesa romana di Trinità dei Monti (1542-1549), ove nella Cappella Orsini oggi sopravvive soltanto il capolavoro con la Deposizione, probabilmente eseguito su cartone del Maestro, per il quale egli realizzò anche un busto in bronzo.

La sorte, però, volle che proprio Daniele da Volterra fosse il pittore incaricato da papa Paolo IV di coprire le nudità ritenute vergognose, in seguito al Concilio di Trento che aveva condannato le nudità nell’arte religiosa, legando per sempre il suo nome all’intervento di coprire con panni sottili dipinti a tempra sopra l’affresco originale, contribuendo invece al salvataggio del capolavoro michelangiolesco.

Da qui si arriva alle due opere in mostra che rappresentano il suo personalissimo stile segnato dall’incontro tra la tendenza manieristica di Perin del Vaga, il quale andò oltre il suo maestro, il grande Raffaello, e dal contatto con l’ultimo Michelangelo, suo grande ammiratore, nel momento espressivo del Giudizio finale e degli ultimi affreschi per la Cappella Paolina. Nella più antica, cioè il dipinto che vede il profeta Elia nel deserto, infatti, l’uomo presenta le forme muscolose e gigantesche tipiche del Maestro. Nella seconda, invece, con la Madonna col Bambino, San Giovannino e Santa Barbara, le figure sempre dalle forme entatizzate sembrano marmo più che carne e seguono un innovativo impulso alla perdita di schematico delle pose segnato da un profilo calligrafico con l’utilizzo di colori accesi e sgargianti che richiama la lezione del classicismo di tradizione fiorentina di Rosso Fiorentino, derivata dalla frequentazione di Perin del Vaga; costituendo un esempio eclatante dello stile della seconda fase della cosiddetta ‘maniera’ moderna.

 

Il progetto non ha previsto la necessità di restaurare le opere prima dell’eccezionale esposizione poiché esse si trovano in perfetto stato di coservazione ma una serie di riflettografie analizzate da Angela Cerasuolo, responsabile del Centro Documentazione Restauro della Soprintendenza, Museo di Capodimonte, hanno permesso di indagare all’infrarosso le superfici dipinte, circoscrivendo meglio la genesi creativa delle due opere, i loro caratteri stilistici e la datazione.

La Tomba di Giulio II di Michelangelo Buonarroti ritrova la sua luce “naturale”

Da qualche giorno il celeberrimo Mosè di Michelangelo, che fa parte della Tomba di Giulio II, custodita nella chiesa di San Pietro in Vincoli a Roma, si è illuminato di nuova luce alla stregua della luce naturale cinquecentesca creata dal genio rivoluzionario, grazie al nuovo progetto d’illuminazione realizzato da Mario Nanni, uno dei più importanti light designer italiani, nonché il terminato intervento di manutenzione e restauro condotto da Antonio Forcellino.

Il progetto, promosso dalla Soprintendenza per il Colosseo e l’area archeologica centrale di Roma con il sostegno del Gioco del Lotto, è nato grazie alla riscoperta della personalissima tecnica scultorea del grande artista, sulla base dei dati emersi dall’esame delle superfici marmoree eseguito da Forcellino in fase di pulitura sul momento visitato da milioni di visitatori ogni anno. Come spesso accade nell’ambito del restauro infatti, l’attuale intervento (luglio 2016) – dopo cinquindici anni dall’ultimo (2001) affidato alle mani dello stesso esperto- ha evidenziato dalla lettura del Mosè, ma non è la sola figura del complesso scultoreo, il raffinato gioco di luci e ombre che nel Cinquecento Michelangelo realizzò lavorando le superfici del marmo di Carrara con diverse difficoltà, per consentire di differenziarne l’aspetto: dalla lucentezza e levigatezza alla massima opacità e ruvidità; riuscendo a controllare la rifrazione della luce nelle sculture, partendo da una finestra che in quel tempo era aperta sul lato destro del monumento.

Come procedeva Michelangelo nella lavorazione del marmo?

Prima di tutto è bene evidenziare che il marmo adottato era quello di Carrara che l’artista stesso andava a scegliere nella cava. Le catteristiche di questo materiale quali l’omogeneità della struttura cristallina e la leggera trasparenza  del colore bianco e uniforme del marmo consentono  di valorizzare al massimo il gioco della luce e delle ombre. Soprattutto, ha spiegato Forcellino: “Michelangelo lustra con il piombo e quindi rende più brillanti e scintillanti quelle parti che voleva far venire avanti e lascia più scabre le parti destinate a rimanere in secondo piano”.

Molti artisti contemporanei a Michelangelo fra cui lo storico aretino Giorgio Vasari, nella biografia dell’artista inclusa nella prima edizione de “Le Vite” (1550), usò queste parole per descrivere la sua rivoluzionaria tecnica scultorea: “far emergere la figura dalla pietra come se la vedesse affiorare da uno specchio d’acqua”.

Questo eccezionale virtuosismo pittorico si vede bene anche nelle quattro “Prigioni” (1530-34) attualmente conservati presso la Galleria dell’Accademia di Firenze ma anche in altre opere dello scultore lasciate incompiute, come il “San Matteo” (1506 ca.) e l’estrema “Pietà Rondanini” (1564).

Nella Tomba di Giulio II la percezione di questo chiaroscuro scultoreo era andata perduta per secoli per la chiusura della finestra con la costruzione della Facoltà di Ingegneria, quindi dal 1865. L’obiettivo del nuovo progetto, dunque, è stato quello di riportare all’antico splendore tutto il complesso monumentale nelle condizioni di luce in cui Michelangelo progettò l’intera opera, uno dei monumenti più famosi e anche più difficili, commissionata all’artista nel 1505 da Papa Giulio II della Rovere, la cui costruzione è durata fino al 1545.

“Per realizzare l’impianto sono stati analizzati i momenti della giornata”– ha raccontato Nanni- “quanta luce entrasse all’interno della chiesa, quanta luce entrasse vicino a Mosè, nei quattro grandi momenti dell’alba, del giorno, del tramonto e del crepuscolo, in cui la luce naturale ha una grande capacità di mutare la colorazione”; anche se Michelangelo aveva studiato l’opera per essere vista con altra luce, ovvero proveniente da una finestra oramai chiusa da secoli.

Michelangelo: scultore di luce

Quest’arte di cavare la forma umana dal marmo, “per via di levare e non per via di porre”, così diceva Michelangelo, cioè modellando una materia duttile, interessava più al mondo che al grande artista. Nato a Caprese nel 1465 e cresciuto alla corte di Lorenzo il Magnifico, Michelangelo Buonarroti fu scultore per vocazione, pittore, architetto, ma non solo, scrittore di lettere e maestro delle “Rime”, grazie anche all’amore spirituale legato al rapporto ideale con Vittoria Colonna. La sua poesia è una poesia autobiografica legata strettamente alle fasi della vita dell’artista – uomo che, di fronte alle monumentali e sofferte creazioni, ha sempre vissuto un eterno conflitto tra corpo e spirito, dello spirito che vuole liberarsi dal corpo, per l’implacabile forza che ha reso la sua arte universale e irripetibile.

Michelangelo tornò nella Roma rinascimentale, quando era già noto per aver realizzato all’età di ventitré anni la Pietà Vaticana (1499) e i capolavori fiorentini rappresentati dalla fierezza del colossale David (1501-4), per ricevere l’incarico di grossissimo impegno che lo portò a un eterno conflitto interiore per le continue interruzioni ai lavori della tomba di Giulio II, in cui le forme gigantesche richieste dal Papa stimolarono la fantasia dello scultore già incline verso forme gigantesche. Fino alla ben nota fuga dalla corte papale, durante i lavori che lo vedevano legato ai ponteggi della volta della Cappella Sistina come pittore,per lo stesso papa, mentre Michelangelo avrebbe voluto impugnare lo scalpello e proseguire l’arte che più sentiva propria. Intorno alla Tomba, quindi, si intrecciano e si colorano tutti i cambiamenti artistici del grande artista che andrà oltre quel perfezionismo naturalistico – in cui si era calato nella Pietà e nel Bacco, ad esempio – a partire dal 1505.

La superiorità di Mosè, come nel gigantesco gruppo scultoreo del Laocoonte– venuto alla luce nel 1506 nella zona delle terme di Tito, scoperta che gli confermò quello che lui stava progettando e pensando già da tempo, e cioè di aver superato gli antichi –  è resa dalla muscolatura così perfetta che doveva esprimere il mondo interiore, la superiorità divina. Michelangelo ha superato gli antichi con le stesse armi, le anatomie perfette, ponendosi nella ricostruzione storica di Vasari, il quale con “Le Vite” offre la prima periodizzazione della storia dell’arte attraverso le biografie degli artisti, soprattutto fiorentini, come il termine assoluto della rinascita dell’arte, come colui che supera tutti gli artisti, viventi e non, nella parabola evoluzionistica che ha inizio con Giotto e termina con il “divino” Michelangelo.

Oggi lo sguardo assennato del Mosè dal santissimo volto ritratto dal marmo con la torsione del capo verso destra, motivata verso la fonte luminosa della finestra che per secoli ha privato il pubblico dell’eccezionale tecnica scultorea, ha riconquistato la sua luce originale nella percezione degli effetti chiaroscurali per il riflesso creato da un sistema di luci a led sulle superfici dei bellissimi panni straforati sulla muscolatura di braccia e gambe condotte a perfezione, in maniera del tutto gratis, eliminando l’odioso sistema alimentato con le monetine del visitatore di turno.

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