‘Post Zang Tumb Tuuum. Art Life Politics: Italia 1918-1943’, il primo libro d’artista delle storia, in mostra fino ad oggi a Milano

Fino ad oggi,  25 giugno, a Milano, sarà possibile visitare una mostra davvero particolare: ci riferiamo a Post Zang Tumb Tuuum. Art Life Politics: Italia 1918-1943, collocata negli spazi espositivi della Fondazione Prada (Largo Isarco, 2). Zang Tumb Tuuum è stato il primo “libro d’artista” della storia, espressione di quelle parole in libertà che divennero manifesto del movimento futurista. La ricerca di Germano Celant, curatore dell’esposizione, parte dal poema visivo di Marinetti, personaggio chiave tanto per la letteratura quanto per la storia dell’arte, per esplorare il sistema della cultura italiana tra le due guerre mondiali.

Sono diverse le peculiarità che rendono questo progetto degno di menzione. Prima di tutto, l’intento di Celant è stato quello di mettere in discussione il setting espositivo comune – il cosiddetto white box, costituito dalla parete monocroma e asettica – per collocare invece le opere in uno spazio storico comunicativo. Dallo studio di documenti e fotografie storiche (immagini di cronaca, fotografie, pubblicazioni, lettere, riviste, articoli), reso possibile da una proficua collaborazione con archivi, fondazioni, musei, biblioteche e raccolte private, sono state selezionate le testimonianze più significative della produzione artistica e culturale del periodo, per poi contestualizzarle nei luoghi in cui sono state realizzate, esposte e fruite. Attraverso il rendering fotografico si è voluto tentare di ricreare in mostra, con la presenza delle opere originali, le situazioni storiche: il percorso di visita propone quindi venti ricostruzioni di sale istituzionali, studi e gallerie, costituite dall’ingrandimento in scala reale delle immagini d’epoca. Qui vengono (ri)collocate le opere d’arte, come testimonianza e, al contempo, come risorsa di studio.
Lo spazio attorno ai quadri e alle sculture è valorizzato dalla presenza di tracce informative: fotografie, disegni, modelli, cartoni preparatori. L’obiettivo, come scrive Celant, è quello di attivare la visione, l’interpretazione e la conoscenza degli aspetti sociali e pratici delle vicende dell’arte italiana nel periodo preso in considerazione.

Il focus sta nella critica alla decontestualizzazione espositiva, che comporta un dialogo unidirezionale tra le opere in stile “l’art pour l’art”, cui si oppone invece la ricollocazione dell’artefatto nel suo sistema d’uso. L’approccio è assai distante dalle pratiche curatoriali correnti, in certi casi comunque molto evocative: la mostra romana Time Is Out of Joint (diretta da Cristiana Collu, situata alla Galleria Nazionale) per esempio, intende sondare un concetto di tempo non lineare, accostando con estrema libertà ed elasticità artisti come Balla, Klimt, Fontana e Giacometti, per approdare a un approccio sincronico all’opera d’arte. La mostra di Celant è invece più simile a una sequenza cinematografica, in cui ogni oggetto della scenografia riflette fedelmente un’epoca e si fa vettore di una visione del mondo: una vera e propria esperienza immersiva per lo spettatore, che assiste alla fedele ricostruzione della storia delle arti durante la parabola del Ventennio fascista.

La temperie culturale dell’epoca è caratterizzata da un rapporto d’interdipendenza tra ricerca artistica, dinamiche sociali e attività politica. Il regime mussoliniano manifesta il proprio potere attraverso le parate, i gesti, le uniformi, le musiche; enfatizza i propri valori ricorrendo ai nuovi media, dalla radio al cinema; fa un uso propagandistico delle grandi esposizioni. Cura la scenografia urbana, impregnando l’architettura di spirito arcaico; attraverso l’affresco e la decorazione murale istruisce il pubblico rispetto all’utilità sociale del nuovo pensiero. Punta quindi sulla spettacolarizzazione dell’arte e sull’estetizzazione della politica, raccogliendo consensi. All’interno della mostra ritroviamo più di cinquecento lavori: dai dipinti di Depero, Balla, Morandi, Sironi, Carrà, Casorati e de Chirico ai marmi di Wildt e le sculture di Martini, ma non solo. Oltre allo Stato Maggiore delle arti visive del tempo viene dato spazio ai piani architettonici e urbanistici – e quindi ad artisti come Portaluppi e Terragni – ma anche alla grafica pubblicitaria e alla progettazione d’interni. L’esposizione ripercorre la dialettica tra singoli autori e gruppi come futurismo e astrattismo, anche attraverso la riproposizione di materiale tratto da riviste come “Valori Plastici” e “Corrente”: ne emerge un panorama di eclettismo e pluralismo in cui convivono avanguardia e “ritorno all’ordine”, sperimentazione e propaganda.

Il futurismo risulta uno dei movimenti artistici più legati all’ideologia dominante. Gli artisti inscritti in questa corrente intravedono nel fascismo i medesimi valori anticlericali e nazionalistici (espressi nel Manifesto del Partito Politico Futurista Italiano), e anzi per molti storici è proprio il fronte rivoluzionario artistico a ispirare quello politico. Benedetto Croce sostiene che:
Veramente per chi abbia senso delle connessioni storiche, l’origine ideale del fascismo si ritrova nel futurismo: in quella risolutezza a

scendere in piazza, a imporre il proprio sentire, a turare la bocca ai dissidenti, a non temere tumulti e parapiglia, in quella sete del nuovo, in quell’ardore a rompere ogni tradizione, in quella esaltazione della giovinezza, che fu propria del futurismo.

Anche Prezzolini sottolinea questa origine ideale in un articolo intitolato Fascismo e futurismo (1923):

Evidentemente nel Fascismo c’è stato del Futurismo e lo dico senza alcuna intenzione. Il futurismo ha rispecchiato fedelmente certi bisogni contemporanei e certo ambiente milanese. Il culto della velocità, l’amore per le soluzioni violente, il disprezzo per le masse e nello stesso tempo l’appello fascinatore alle medesime, la tendenza al dominio ipnotico delle folle, l’esaltazione di un sentimento nazionale esclusivista, l’antipatia per la burocrazia, sono tutte tendenze sentimentali passate senza tara nel fascismo dal futurismo.

Il rapporto tra futurismo e potere conoscerà comunque, durante il Ventennio, fasi altalenanti, e rimane ancora oggi un tema piuttosto discusso.

Filippo Tommaso Marinetti (il cui rapporto con Mussolini è di certo forte, nonostante le occasionali tensioni) potrebbe rappresentare l’emblema di questa fase culturale, ed è infatti proprio alla sua figura che è dedicata la prima sala dell’esposizione. Come fondatore del futurismo, Marinetti si dedicò alla promozione del movimento e dei suoi artisti in Italia e all’estero; per questo si è scelto di riportare due suoi significativi ritratti firmati da Fortunato Depero e Rougena Zátková negli anni Venti come prime testimonianze pittoriche, nella cornice di una fotografia, datata 1931, che immortala l’artista nel suo studio. La discrepanza temporale rappresenta un’eccezione, una licenza alle parole in libertà: da qui in poi le opere esposte sono scandite dalla data delle fotografie-guida che le mostrano nei contesti d’epoca. Il percorso continua quindi con la ricostruzione dei grandi appuntamenti espositivi del tempo, dalla prima Biennale “futurista” veneziana del ’26 alla Mostra del Decennale della Rivoluzione Fascista, organizzata nel ’32 al Palazzo delle Esposizioni a Roma. A quell’evento è dedicata la monumentale installazione del Deposito, dove su otto altissimi schermi scorrono gli ingrandimenti delle foto delle sale, ognuna assegnata a un artista o a un architetto. Non mancano poi esempi di importanti rassegne internazionali – come Das Junge Italien, tenutasi a Berlino nel 1921, o Fantastic Art Dada and Surrealism, realizzata per il MoMA nel 1936 – e riproduzioni delle più influenti gallerie private, come la Casa d’Arte Bragaglia e la Galleria del Cavallino. L’epilogo, datato 1943, lo troviamo nella sala del Podium, con i bozzetti per l’ultimo, grande “ruggito” urbanistico del regime: l’E42, pensato per celebrare il ventennale della Rivoluzione fascista con l’Eur (Esposizione Universale di Roma). Di fronte, come contraltare, le voci degli artisti dissidenti – rappresentate dalla serie satirica Dux di Mino Maccari, fascista pentito – e le macabre immagini della guerra.

Non mancano, tra le sale, focus tematici dedicati a personalità-chiave per la cultura del ’900: si tratta sia di personaggi che aderiscono al partito, come Luigi Pirandello e Margherita Sarfatti, sia di intellettuali d’opposizione, come Piero Gobetti, Antonio Gramsci, Carlo Levi e Alberto Moravia. Anche in campo artistico non mancano le figure di “artisti ribelli” al culto del duce e alla retorica monumentale: pensiamo al gruppo europeista dei Sei di Torino o alla Scuola romana di stampo espressionista. Si può affermare che, a livello teorico, il regime non sposò né rigettò ufficialmente l’opera di alcun artista, movimento o tendenza, mantenendo un atteggiamento di relativa tolleranza nei confronti di tutte le proposte estetiche. Operò a livello politico, soprattutto dopo gli anni Trenta, censurando i pensatori che si opponevano in modo esplicito all’azione mussoliniana.

Tra il 1918 e il 1943, anche in seno a un regime autoritario, fiorisce in Italia una stagione artistica e architettonica di prim’ordine, che è giusto tornare a studiare ed esporre. Ma come si può esporre del materiale inevitabilmente connotato in senso ideologico? La riflessione è quanto mai attuale, considerando le ultime polemiche riguardanti la conservazione dei monumenti fascisti ancora presenti nella penisola. Celant suggerisce e sperimenta con successo la via della contestualizzazione, per cui la comprensione dell’opera d’arte avviene nella piena consapevolezza della sua genesi, fatto che – paradossalmente – depura la visione da anacronistici giudizi morali.

 

Maria Ceraso

Kandinskij al MUDEC di Milano, il colore come metafora della vita

Con la mostra “Vasilij Kandinskij- Il cavaliere errante. In viaggio verso l’astrazione”, il Museo delle culture di Milano vuole rendere nuovamente omaggio al grande artista russo, il quale ha segnato l’inizio di un rivoluzionario cambiamento nell’arte moderna, col dipingere un’opera astratta, proponendo per la prima volta in assoluto un percorso nuovo e originale di “visita immersiva” a 360 gradi nei colori accesi e gioiosi delle opere del “cavaliere errante”.

A partire dal prossimo 15 marzo, nelle sale del polo multidisciplinare, nato negli anni ’90, nella zona ex industriale dell’Ansaldo, sito in Via Tortona, i visitatori potranno “entrare” e “camminare” nella bellezza, quindi, assieme alla perfetta espressione della sensazione con cui il pittore ricerca la dimensione della realtà spirituale attraverso la scelta ampia e libera dei mezzi espressivi del suo linguaggio: linee e macchie di colore convivono sulla tela con elementi ancora riconoscibili nel mondo visibile fino all’uso di colori puri privi di forme e, dunque, nell’espressione interiore tramite la sola forma colorata, con il raggiungimento dello opere astratte della maturità; grazie agli innovativi strumenti di alta tecnologia applicati al mondo dei beni culturali.

La rassegna, a cura di Silvia Brini e Ada Masoero, è concepita sulla metafora del viaggio e sul rapporto tra arte e scienza, due temi legati all’astrattismo di cui Kandinskij è oggi riconosciuto come il principale esponente tra i pittori del Novecento, comprendendo le opere provenienti dai più importanti musei russi, alcune mai viste prima in Italia, appartenenti a tutto il periodo della formazione  del pittore moscovita fino all’anno 1921, quando, dopo aver rivestito un ruolo di primissimo piano in Russia, egli ottenne il permesso di recarsi in Germania per sei mesi, non facendo più ritorno in patria.

Vasilij Kandinskij: dalle emozioni verso l’astrattismo

Con sguardo sensibile verso il mondo invisibile contro quella società contemporanea materialista e non spirituale, Vasilij Kandinskij (1866-1944) ha esteso la sua audace ricerca artistica e nel contempo teorica nella musica e nella natura, proprio perché capaci di suscitare emozioni e sentimenti durevoli.

Dopo la laurea in Giurisprudenza conseguita nel 1892 all’Università di Mosca, il giovane Kandinskij rifiutò la cattedra che gli venne subito offerta volendosi dedicare alla pittura. La meditazione sulle esperienze pittoriche francesi, sui colori come mezzo espressivo della realtà sensibile utilizzati da Claude Monet, celebre pittore impressionista, le quali opere lo colpirono profondamente, e specie su quelle dei ‘Fauves‘, condussero il giovane Kandinskij ad avvicinarlo sempre più alla pittura, affidando all’arte la capacità di stimolare la crescita spirituale dell’osservatore.

Il trasferimento a Monaco di Baviera, una delle città europee culturalmente più vitali del primo Novecento, diede all’artista un originale impulso al suo spirito artistico avendo modo di entrare in contatto con numerosi pittori, poeti, critici d’arte e musicisti. Dall’incontro con il pittore tedesco Franz Marc e dalle comuni passioni per l’azzurro e per i cavalli che Kandinskij diede vita al gruppo di artisti che si raccoglievano sotto il nome di “Der Blaue Reiter” (Il cavaliere azzurro), indirizzandosi già verso la non riconoscibilità della forma, e quindi, verso il fronte astrattista, ma comprendendo ancora altre correnti artistiche come il realismo, dipingendo cose conosciute nella realtà oggettiva.   

Sulla scia della breve ma intensa esperienza baverese (1911-1914) si sviluppò il suo immaginario formativo che vide la musica come fonte d’ispirazione: dalle necessità delle emozioni suscitate dalla musica che, in rapporto alla pittura, diventò pura espressione di esigenze interiori, dunque, astratta, fino allo sviluppo della scienza. La pittura infatti arriva a essere come la musica. Il pittore diede vita a una produzione di quadri e acquerelli che intitola Improvvisazioni e Composizioni, come fossero opere musicali, nate dalla combinazione di due elementi: il colore e la forma. La natura, invece, non è semplice imitazione ma viene come osservata al microscopio sulla base degli avanzati studi che in quest’epoca raggiunge la biologia e, dunque, le forme sono fluide e minute, disgregandosi dalla forma esteriore riconoscibile nel mondo oggettivo.

Nelle riflessioni di Kandinskij l’artista deve esprimere le emozioni della mente, abbandonando la mimesis, cioè l’imitazione di un modello, di ascendenza classica greco-romana, liberando la forma dalla dipendenza con l’oggetto fisico. È quanto il pittore riuscì a ottenere con un acquerello eseguito nel 1910, il primo acquerello astratto. Sul foglio di carta ci sono soltanto due chiazze colorate e dei segni a matita e a penna. Il legame fra ciò che si vede (realtà) e ciò che non si vede (inconscio), fra imitazione e creazione si scindere nel coglierne l’essenza interiore, il valore più autentico, per il tramite dei colori e della sola forma colorata, quando il pittore aveva già ultimato la stesura del suo Lo spirituale dell’arte, uno scritto sintetico che ha per oggetto non l’arte ma la spiritualità come ‘necessità interiore’ che scaturisce dal suo inconscio, astraendo la forma esteriore degli oggetti . 

V.KANDINSKIJ, Improvvisazione 34, 1913, olio su tela, 120 x 139 cm, Kazan, Museo di Arti Figurative

L’esposizione, percepita come un viaggio di immagini che oltrepassa la figurazione e approda all’astrazione, dunque, è un percorso che coinvolge il visitatore nei colori densi mossi dall’anima dell’artista per esprimere uno stato d’animo, per rendere visibili le suggestioni della musica, le strutture invisibili della natura.

La mostra Kandinskij 2017 al Mudec di Milano sarà visitabile a partire dal prossimo 15 marzo fino al 9 luglio e si inersisce nel ricco e variegato programma culturale e internazionale delle mostre inaugurato dal comune milanese con l’intento di offrire una grande qualità scientifica di divulgazione e arricchimento per la comunità.

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