‘Quando gli squali mangiano vento’, di Enrico Meloni

Quando gli squali mangiano vento è un romanzo di formazione di Enrico Meloni (Tre Padri, Arca allo sbando?) pubblicato da Edizioni Progetto Cultura nel 2012. Il testo è accompagnato dalla prefazione della professoressa di pedagogia dell’università di Pisa Maria Antonella Galanti, e dalla postfazione di Carlo Santulli, ricercatore e docente all’università di Roma e di Napoli.

Quando gli squali mangiano vento / S’accende al sole un lampo di follia

La storia di Alessio e Roberto, due adolescenti romani cresciuti negli anni Ottanta, viene raccontata dal loro professore di filosofia del liceo, Felice Rapisardi, ormai novantenne, il quale decide di rimettere mano a dei suoi vecchi appunti e al diario di Alessio per tornare con la memoria a quanto avvenuto ai due ragazzi fra il 1980 e il 1981. La loro amicizia limpida, infatti, viene a corrompersi fino a sfociare in una totale inimicizia quando la notizia di una serie di avventure omoerotiche fra i due sfocia in pettegolezzi e disprezzo all’interno della scuola. Siamo a cinque anni dall’assassinio, per motivi simili, di Pier Paolo Pasolini.

Fra la confusione sessuale (entrambi gli adolescenti frequentano altre ragazze, anzi Roberto è rinomato nel suo ambiente per essere un gran conquistatore) e gli sconvolgimenti e le manifestazioni politici dei primi anni Ottanta, si consuma questa piccola tragedia destinata a sfociare nel nulla. Parliamo di “piccola tragedia destinata a sfociare nel nulla” perché la carica di tensione accumulata da Alessio, principale vittima delle voci di corridoio e, a quanto pare, unico a soffrire per la situazione, non arriva a sfociare in qualche gesto eclatante. Come negli Indifferenti di Moravia il protagonista della storia rinuncia più volte all’azione che avrebbe forse potuto sistemare (o mandare al tracollo) gli eventi.

Dopo la maturità il professore perde di vista i due ragazzi, per cui poco o nulla sappiamo delle loro vite post liceo; alla fine del romanzo leggiamo una mail inviata da Alessio ad Aurora (vecchia fiamma del ragazzo e anch’essa alunna del professore), e da questa verosimilmente rigirata al narratore, in cui l’ormai cresciuto protagonista riporta tre possibili sviluppi della sua “storia” con Roberto. Il finale è dunque aperto ma di fatto la storia in sé risulta conclusa in modo più che soddisfacente, in quanto il core della trama è un altro: affrontare la (purtroppo ancora spinosa) tematica dell’omosessualità, e il modo in cui si  è evoluta fra gli anni Ottanta – durante quello che viene più volte definito “riflusso” socio-politico dopo i movimenti del Sessantotto e del Settantasette, ossia un ritorno quasi restauratore a una sorta di normalità borghese – e i nostri anni Dieci, che niente hanno di rivoluzionario al riguardo, se togliamo la neo (e tanto giustamente attesa) legge sulle unioni civili.

Un romanzo “quasi saggio”

Quando gli squali mangiano vento è un romanzo dalla struttura peculiare, quasi eclettica. A una narrazione in retrospettiva si accompagnano brandelli del diario di Ale, flashback, dialoghi pseudo teatrali. Il mix di forme viene giustificato dal fatto che il professore sta cercando di raccontare una storia avvenuta diversi anni prima ricostruendone come può le varie fasi; le lacune sono inevitabili, così come le diverse prospettive e le diverse fonti da cui il narratore attinge. A questa giustificazione Rapisardi aggiunge una dichiarazione d’intenti a inizio testo dal sapore un po’ manzoniano:

Scrivere la storia di Ale e Rob. Non possiedo tutti i dati per ricostruire l’intera vicenda in modo attendibile, e mi trovo nell’impossibilità di fare indagini o ricerche […]. Comincerò col loro primo incontro, che precedé l’inizio della scuola. Alessio Leonetti e Roberto Mangredi. Alunni di quinta effe, anno scolastico 1980/81. Ne sono al corrente soltanto grazie a una testimonianza orale e a qualche pagina del diario di Alessio.

Non ci perde mai nella lettura, pur scivolando fra una forma testuale e l’altra, complice anche una (fin troppo forte) struttura didascalica che mette il punto su determinati eventi spiegandoli al lettore, e a tratti spezzando il tacito gentlemen agreement che con questo l’autore deve intrattenere: il far sapere, cioè, di star leggendo una storia.

Questo ci porta a due elementi di debolezza di Quando gli squali mangiano vento: il primo è che a tratti sembra di avere a che fare con un saggio divulgativo di psicologia/sociologia, soprattutto verso la fine, quando Rapisardi e Aurora discutono sul tema dell’omosessualità e del pregiudizio nella società. Il secondo riguarda il modo in cui questi argomenti vengono trattati: laddove spesso si interrompe la narrazione per entrare nella mente del professore, il quale tenta di sviscerare a suo modo la faccenda nella sua complessità, ciò avviene in modo parziale. L’argomento “omosessualità e pregiudizio”, come il finale del romanzo, resta aperto, non viene sviscerato, non ne vengono esplorati i perché, le conseguenze, le ricadute sulla società. Per dirlo con un’immagine, si ha l’impressione di sorvolare una città con un aereo anziché attraversarla camminando: la si vede nella sua interezza, ma se ne perdono i dettagli.

Per comprendere meglio questo passaggio, si riporta una parte del discorso di Aurora a fine testo:

Io li chiamo nazigay: chi non si conforma ai loro canoni, alle loro convenzione ecc., viene ghettizzato e demonizzato peggio di un giudeo all’epoca del papa-re. E chi pensava di trovare nell’omosex una via alternativa per essere libero farà meglio a stare lontano da certe bande di conformisti che, se trascuriamo qualche dettaglio, hanno la mentalità di una casalinga anni ’50.

Il refuso nella parola “convenzione” (non concordanza di numero) è di utile esempio per un’ulteriore problematica: editing e correzione di bozze poco accurati hanno portato a un libro con alcune debolezze strutturali, perché molti sono i refusi (spazi ripetuti, mancanza di uniformità nella punteggiatura ecc.) e le carenze. Ad esempio, molti riferimenti letterari e musicali (compresi il più volte citato Rino Gaetano e la sua Mio fratello è figlio unico) e personaggi non risultano incorporati nel testo, rimanendo con una funzione di contorno o sfondo.

Il che è un peccato perché Quando gli squali mangiano vento è un testo che, di suo, avrebbe avuto moltissime altre potenzialità.

“Aida”: Il sorriso dolceamaro di Rino Gaetano

Un ragazzo in frac, cilindro ed ukulele che in televisione canta un brano leggero ed apparentemente senza senso. Il brano s’intitola Gianna, il palco è quello del Festival di Sanremo  1978 ed il ragazzo in questione si chiama Rino Gaetano. In un periodo storico ben preciso, la seconda metà degli anni ’70, ed in un panorama musicale dominato da cantautori politicamente e socialmente “impegnati” ( i vari Guccini, De Andrè, Venditti, Vecchioni, De Gregori) Rino Gaetano sa imporsi all’attenzione del grande pubblico attraverso una dote molto rara e decisamente fuori moda: l’ironia. I suoi testi, caratterizzati da iperboli, giochi di parole e nonsense, riuscivano a svelare il marcio della società con la semplice forza di un sorriso. L’intuizione di abbinare queste liriche così “sopra le righe” a melodie semplici ed immediate ha dato vita ad una miscela esplosiva ed allo stesso tempo innovativa. Tuttavia Rino non è stato capito subito (il primo disco Ingresso Libero andò malissimo, meglio il secondo Mio fratello è figlio unico). Ben presto viene  definito “giullare” ed i suoi brani  sono etichettati come semplici “canzonette” da quei critici che non sapevano leggere oltre le parole. La storia ha ampiamente dimostrato che non era cosi.

L’album Aida, forse è  il suo lavoro più completo e maturo, che funge da descrizione del mondo, nascosto dietro la fantasia di questo artista per molti aspetti unico.

“Ultimamente, qualche mese fa, io ho visto un film molto importante, che è Novecento di Bertolucci. Questo film era un po’ la storia dell’Italia, raccontata proprio in due parti. Io ho cercato di scrivere… di portare in canzonetta, la storia dell’Italia, degli ultimi 70 anni italiani, partendo un po’ dalle guerre coloniali fino ad oggi. E allora mi sono servito, per fare questa canzone qui, di una donna, che ha vissuto attraverso i suoi amori e i suoi umori, e la sua cultura, la politica italiana. Questa donna si chiama Aida”.(R. Gaetano)

L’apertura è affidata alla splendida title-track che, a dispetto del maestoso titolo di verdiana memoria, è ricca di riferimenti storici abilmente mescolati in un caleidoscopio di vocaboli e metafore degno di un prestigiatore della parola (ad esempio “Aida le tue battaglie, i compromessi, la povertà/ i salari bassi, la fame bussa / il terrore russo/ Cristo e Stalin”). Aida è chiaramente una trasfigurazione dell’Italia che, dopo aver acquisito le fattezze di una bella donna, racconta, ripercorrendo i suoi ricordi, la sua storia lunga quasi un secolo. L’intenzione dell’autore è proprio questa, ripercorrere attraverso dei simboli il novecento italiano.

L’ermetica Fontana chiara, che ruota tutt’intorno al criptico verso “Fontana chiara/Un poco dolce un poco amara”, apre la strada ad un altro capolavoro Spendi, Spandi, Effendi che affronta il tema della crisi petrolifera e del caro benzina. Il tono scherzoso e irriverente nasconde tutta la drammaticità dell’argomento trattato senza tuttavia sminuirlo. Le meravigliose Sei Ottavi (in duetto con Marina Arcangeli della Schola Cantorum) ed Escluso il cane possono essere considerate il vertice della produzione di Rino Gaetano grazie alla carica fortemente evocativa delle liriche usate e l’indiscutibile bellezza delle note che le accompagnano. Una canzone sulla masturbazione femminile (si avete capito bene) la prima, una vera e propria invettiva contro tutto e tutti la seconda, lasciano spazio a pochissimi dubbi sul reale talento di questo artista troppo spesso sottovalutato. Il ritmo latino di La Festa di Maria, la vorticosa (sia dal punto di vista lirico che musicale) Rare Tracce, il divertissement satirico Standard (in cui l’autore storpia i nomi di Andreotti, Moro, Fanfani, Papa Montini), l’eclettico rock di Ok papà completano un disco in netto anticipo con i tempi. Nessuna paura, nessuna pietà, nessun timore reverenziale. Rino Gaetano affronta a modo suo la realtà e vince esorcizzando le brutture della vita scherzandoci su.

Proprio questa capacità di sdrammatizzare è stata la sua croce e la sua delizia. Non è stato mai preso troppo sul serio. Il grande pubblico lo apprezzava e ricordava soprattutto per le “filastrocche” (Gianna e Berta Filava) mentre Rino voleva e poteva essere anche altro. I lavori successivi Nuntereggae Più, Resta Vile Maschio Dove Vai, Io Ci Sto, mostravano un netto cambiamento di stile, molto più standard e professionale ma molto meno anarchico e dissacrante. Il successo riscosso al Festival di Sanremo (ottenuto a suo dire con una canzone assolutamente inutile) evidentemente lo aveva spiazzato, facendogli nascere la paura di rimanere ingabbiato nel clichè di Gianna. Per liberarsi da questo fardello decide di virare verso sonorità diverse quali la disco ed il rock mentre i suoi testi si fanno di colpo più seri e pacati . Il numero delle vendite diminuisce notevolmente a dimostrazione anche di un chiaro calo d’ispirazione.

Se solo si fosse accettato quale cantore apolide e ribelle di un’Italia in chiaroscuro, Rino Gaetano avrebbe prodotto ancora ottimi album. Ma sono solo supposizioni, Rino Gaetano muore in un drammatico incidente stradale a Roma il 2 giugno 1981 a soli trent’anni. L’improvvisa dipartita spiazza fans e colleghi ma non serve a proiettare l’artista nel gotha della musica italiana. Per tutti gli anni ’80 e ’90 la sua produzione viene pressoché dimenticata e la sua reputazione rimane sempre quella di autore “minore” rispetto ai “mostri sacri” del cantautorato nostrano.

Solo con l’avvento del nuovo millennio il nome e l’opera di Rino Gaetano sono stati ampiamente rivalutati e apprezzati. Musicisti quali Elio E Le Storie Tese, Daniele Silvestri, Alex Britti, Simone Cristicchi, Articolo 31, ne hanno a più riprese riconosciuto l’influenza cerando in numerosi brani di ricalcarne lo stile. Miriadi di tribute band sparse per tutto il paese ne ripropongono costantemente l’intero repertorio mentre alcuni suoi cavalli di battaglia sono diventati titoli di film (Mio fratello è figlio unico) o di programmi televisivi (Ma il cielo è sempre più blu) e sono, oramai, una presenza fissa dell’ airplay radiofonico a dimostrazione che Rino Gaetano non è stato una meteora della musica italiana ma, semmai, un precursore; uno in grado di guardare al passato per capire il futuro.

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