Oscars 2022. ‘Il potere del cane’ di Jane Campion: il profeta diventa cowboy

Il potere del cane della regista Jane Campion, tra i film candidati all’Oscar 2022 come miglior film, non è un un capolavoro e nemmeno un “anti-western”. Riguardo al genere – diciamo: western terminali – non c’è paragone con il barocco, onirico, sballato I cancelli del cielo (1980; dirige Michael Cimino) o con il lucido, commosso, violento film di Clint Eastwood, Gli spietati (1992).

D’altronde, il romanzo di Thomas Savage (ottimo autore di genere), da cui dipende la pellicola di Jane Campion, non ha a che fare con Meridiano di sangue, il libro definitivo di Cormac McCarthy. Questione di altezze e di fango; interessante, semmai, far caso al fatto che il West americano pare una rotolo-rotocalco aggiunto al biblico Libro dei re: è sempre una vicenda di eredi, di fratelli, di promesse, di tradimenti, sopra cui incombe la cupa morale di un dio amorfo, morboso, cupo.

Montana, 1925. I fratelli Burbanks, Phil e George, sono gli eredi di un grande ranch di famiglia, che mandano avanti occupandosi quotidianamente dello spostamento delle mandrie, dell’essicazione delle pelli e dell’addestramento degi lavoratori. Mentre George è un uomo sensibile e desidera una famiglia, Phil è un bullo ossessionato dal mito del suo mentore Bronco Henri. Quando George prende in sposa la giovane vedova Rose e la porta al ranch, Phil prende di mira la donna e suo figlio Peter e non smette di tormentarli.

Jane Campion sa rendere sensuale l’America rocciosa e dura degli anni venti in un film che non sa decollare dove sguardo della Campion, si concentra su immagini già note, figure poco figurate (la castrazione di massa degli animali, il branco), attese che girano a vuoto, non sufficientemente ricompensate dal colpo di coda del finale.

L’enigma del film è nel gheriglio del titolo. The Power of the Dog. Un gergo ipnotico. S’intitola così il romanzo di Thomas Savage, ma pure un romanzo di Don Winslow; James Ellroy, “Demon Dog of Crime Fiction”, era tentato di griffare nello stesso modo un suo libro. La ragione del titolo è placida. A un certo punto Peter, il ragazzo, sfoglia una Bibbia, gli occhi si fermano su quel versetto, ligneo, terribile: Deliver my soul from the sword; my darling from the power of the dog. Nel film – almeno per allusioni – si capirà che cosa s’intende per power of the dog e per my darling.

Il versetto è tratto dal Salmo 22, barbaglio di bava liturgica pronunciata nel momento estremo, penzolante dalla Croce, da Gesù; nella figura dell’eletto martoriato, sfregiato, sputato (“Ma io sono verme, non uomo, rifiuto d’uomo, disprezzo di genti/ Chi mi vede di me si fa beffe, ruota le labbra, scuote il capo”, 22, 7-8) si rivela Peter, chiaroscurale protagonista del film. Il mistero, semmai, è che “il potere del cane”, nella Bibbia che avete sul comodino, non c’è.

Inebriante odore del tradurre: il versetto citato nel film è tratto dalla King James, la Bibbia di Re Giacomo, pietra d’angolo della lingua inglese, stampata nel 1611. La versione della CEI traduce così: “Libera dalla spada la mia vita,/ dalle zampe del cane l’unico mio bene”.

Dal contesto si capisce che l’unico mio bene è la mia vita; i cani, alla luce del versetto superiore (“Un branco di cani mi circonda,/ mi accerchia una banda di malfattori”, 22, 17), sono i nemici del giusto, quelli che vogliono sbranarlo, divorandolo lontano da Dio. I cani, nel ring biblico, sono le bestie basse, emblema della pura fame, dell’aggressione priva di fierezza: i cani “ringhiano”, “divorano”, “sbranano”; “Guardatevi dai cani, guardatevi dai cattivi operai” dice San Paolo ai Filippesi. David Maria Turoldo fa del Salmo un inno, canto offeso da balbettare a notte: “dalle spade accorri a scamparmi/ la mia carne, Dio, salva dai cani”.

Dunque, è una sfasatura, un errore aureo, quello che troviamo nella King James: the power of the dog è un’invenzione dell’esegeta colto da estro shakespeariano. Nella Bibbia ebraica curata da Rav Dario Disegni il versetto ha questa formula, contratta: “Salva dalla spada la mia persona, dai cani il mio corpo”; il grande Diodati traduce così: “Riscuoti l’anima mia dalla spada, l’unica mia dalla branca del cane”; Guido Ceronetti rende in questo modo: “Strappa al coltello la mia vita/ La mia unica alla mano del cane”. La Vulgata conforta la versione di Ceronetti: Erue a framea animam meam/ et de manu canis unicam meam.

La prepotente carnalità del canto biblico, tutto corpo, sangue e cani all’erta, pronti a sbranare, diventa un vertiginoso testo atto al teatro, dove c’è l’anima e la spada del cavaliere, la bella soggiogata dal potere del cane, simbolo delle forze oscure, sinistre, che bisogna combattere. Una livida vicenda dei deserti, di carovanieri corsari, di allucinazioni meridiane, di un Dio che pianta leggi, così, pare l’appendice di una storia arturiana. Nel West, naturalmente, quello stesso versetto, piagato da un’allusione obliqua, prende un altro significato ancora: il profeta diventato cavaliere, ora è cow boy. Che razza di viaggio ci fa fare un film, neppure indimenticabile.

 

Fonte

https://www.pangea.news/jane-campion-power-of-the-dog-bibbia/?msclkid=66f4becba91711ecafacd557cc59468e

‘I fratelli Sisters’: il western schizofrenico dal respiro antico di Audiard

Il nero che occupa l’intera superficie dello schermo è squarciato da uno sparo, poi due, poi tre; risuonano poco distanti due voci secche e concitate… ed ecco che dal buio della notte emergono le sagome spettrali dei fratelli bounty killers. Un memorabile prologo in medias res che apre il sipario su “I fratelli Sisters”, western di respiro antico intriso di schizofrenia moderna con cui il regista e sceneggiatore francese Audiard (“Sulle mie labbra”, “Il profeta”, “Un sapore di ruggine e ossa”) scava alle radici della mitografia americana per eccellenza.

Estranea sia alle repliche di maniera, sia alle revisioni snobistiche, la trasposizione sullo schermo di un romanzo del canadese Patrick deWitt (Arrivano i Sister, ediz. italiana Neri Pozza, 2012) costituisce l’aggiornata versione di un archetipo narratologico, il racconto del viaggio iniziatico dell’eroe -in questo caso una coppia di antieroi freudianamente traumatizzati dalla malefica figura paterna- alla ricerca d’identità e consapevolezza. Preceduti da una reputazione sinistra, il maggiore Eli (Reilly) più riflessivo e dubbioso e il minore Charlie (Phoenix) folle e scervellato braccano, torturano e trucidano dall’Oregon alla California le vittime designate dal misterioso boss soprannominato Commodoro fino al momento in cui decidono di risparmiare l’esaltato chimico Warm (Ahmed) convinto d’essere in possesso della formula infallibile per dragare l’oro dai corsi d’acqua e di pedinarlo nelle esplorazioni intraprese assieme al detective Morris (Gyllenhaal) che ha convertito alle utopie libertarie del proto-socialismo fourierista.

Nel climax di cavalcate e sparatorie, ma anche di situazioni estrose o insolite per un western affiora una forma di humour macabro, disseminato nel corso dell’azione o durante le pause dei bivacchi nonché abilmente incrementato quando dall’edenica ariosità dei grandi spazi (ricostruiti in Spagna e Romania) si arriva al frastornante caos della San Francisco ottocentesca gremita dalle torme di avventurieri richiamati dal miraggio della corsa all’oro.

In assenza di pedissequi ricalchi cinefili –Audiard ha un suo stile inconfondibile, basta notare per esempio il recupero vintage delle dissolvenze a iris- non si può in ogni caso disconoscere l’impronta cinica e disillusa dei Peckinpah, Penn, Altman e Cimino, capiscuola del Nuovo cinema americano tra la fine degli anni 60 e la metà degli 80: il cast a cinque stelle riesce infatti a rendere credibile e godibile, proprio come in quell’epoca rinnovatrice, lo scarto continuo tra la fantasia del racconto e il realismo degli sfondi, i barlumi di un’idea comunitaria e la spietatezza della caccia all’uomo. I fratelli che si chiamano “Sorelle”, in effetti, si battono ancora per le cattive cause in un paese allo stato selvaggio che nondimeno si sta trasformando lentamente, prefigurando mete d’ordine e democrazia e tentando di arginare la propria genetica violenza avvezza­ a distruggere tutto a cominciare dalle illusioni e la speranza.

 

Fonte:

I fratelli Sisters

‘I segreti di Wind River’ di Taylor Sheridan : un mondo senza concessioni, spogliato di ogni eroismo

A pochi giorni dall’uscita di Hostiles (un bel film zavorrato da lentezze e pretensioni iper-autoriali), Hollywood raddoppia con I segreti di Wind River, western contemporaneo di ben maggiori sostanza e ritmo. Per la precisione si tratterebbe di un thriller, ma la mitologia del Far West acquista un ruolo decisivo nell’impianto costruito su misura dei gusti e le propensioni del regista texano Sheridan, già sceneggiatore di grandiosi duelli all’ultimo sangue ambientati nei moderni territori di frontiera (Sicario e Hell or High Water). Il taglio netto e concentrato dei vecchi e nuovi maestri del genere ci trasporta, infatti, nella riserva pellerossa del Wyoming flagellata dalla neve per molti mesi all’anno dove si staglia la figura eastwoodiana del protagonista Cory (Renner, grande attore non abbastanza promozionato) di professione cacciatore dei lupi e i leoni di montagna micidiali per il bestiame. Gravato da un atroce trauma familiare, il neocowboy è rispettato e benvoluto dagli allevatori e dagli Arapaho e Shoshone superstiti che se la passano assai male per colpa di disoccupazione, droga e alcolismo: così, quando una ragazza di Wind River viene trovata senza vita, Cory viene ingaggiato dalla polizia locale per scoprire la verità e dare la caccia all’assassino, mentre l’Fbi decide d’affiancargli l’affascinante quanto spaesata collega Jane (Olsen). Si capisce subito, in effetti, quanto il climax investigativo e il piglio antropologico con acclusa denuncia progressista sulle condizioni dei nativi risultino tradizionali e prevedibili; però la brutalità darwiniana messa in scena senza sosta tra i candidi bagliori di una landa pour cause “animalesca” ha tutta la forza necessaria per avvincere gli spettatori e riconsegnargli il fascino perduto di quello che continuiamo a definire il cinema americano per eccellenza.

Con Sicario e Hell or High Water, di cui Taylor Sheridan ha firmato le sceneggiature ma lasciato la regia a terzi (Denis Villeneuve e David Mackenzie), I segreti di Wind River forma una trilogia ideale agita nei territori di frontiera. Tre poliziotti, tre indagini e una conoscenza acuta della geografia americana. Dopo il confine col Messico e le lande desolate del Texas, Sheridan trasloca in Wyoming e realizza un film solenne ispirato ai problemi endemici che avvelenano le riserve indiane. Su tutti l’abuso sessuale e la scomparsa di troppe donne amerinde in un territorio che la polizia locale, esigua e sprovveduta, non riesce a controllare. Neve e silenzio al debutto stabiliscono tono e décor del film, inserito in un universo implacabile dove la rabbia di vivere convive con la rassegnazione.

Un mondo senza concessioni, dove l’uomo è lupo per l’uomo, una riserva di indiani e di bianchi, vestigia di una conquista spogliata di ogni eroismo. Avversari ieri e compagni oggi per non sentirsi abbandonati. Fedele agli script precedenti, Taylor Sheridan cortocircuita thriller classico e western contemporaneo, prediligendo una drammaturgia laconica che si prende il suo tempo, che raziona le informazioni e lascia che lo spettatore faccia il suo lavoro. Film di grande spessore, sia nella scrittura che nei personaggi che nell’ottima colonna sonora (di Nick Cave e Warren Ellis), che descrive un’umanità sofferente che sogna un mondo migliore, ma che scopre di essere sempre (come recita la poesia con cui inizia il film) “far from your loving eyes in a place where winter never comes”. 

 

Fonti: Mymovies.it

 

I segreti di Wind River

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