Antonio Ligabue in mostra al Vittoriano di Roma fino a marzo 2017

Dall’11 novembre la potenza espressiva di Antonio Ligabue, uno degli artisti più interessanti e imprevedibili del ‘900, si esibisce negli spazi dell’Ala Bransini del Complesso del Vittoriano di Roma. Oltre 100 opere dell’artista svizzero raccontano la sua vita difficile e la sua produzione artistica: gli animali selvaggi, i paesaggi rurali e gli autoritratti, nei quali Ligabue rivela senza pietà la sua storia particolarmente affascinante, inquietante e stravagante, affermando così la sua identità di uomo e di artista, dove i due confini si incontrano tra l’elemento fantastico e l’elemento folle.

 

La mostra

L’esposizione, promossa e curata da Sandro Parmiggiani, direttore della Fondazione Museo Antonio Ligabue di Gualtieri, e da Sergio Negri, presidente del comitato scientifico, ha l’obiettivo di far conoscere l’incredibile vicenda umana di questo singolare artista nato a Zurigo nel 1899 e che visse a Gualtieri, in Reggio Emilia, sulle rive del Po’. Pittore malato, solo, non amato, un pittore che reagiva alla sofferenza del suo isolamento con l’aggressione nella quale cercava di risolvere la propria timidezza, la propria incapacità di comunicare e di reagire ai problemi, Ligabue visse sempre in una condizione di disagio nei confronti della realtà, rifugiandosi in una condizione fantastica e irreale la quale influenzò profondamene la visione artistica senza però riuscire a garantirgli una serenità esistenziale alla quale non arrivò mai.

Fino a marzo 2017 il Vittoriano di Roma offre l’opportunità di ammirare le sue opere intense, coloratissime, espressionistiche e un po’ naif al tempo stesso in una grande mostra organizzata in tre sezioni: la prima contempla gli elementi della sua ispirazione dalle prime opere (1928 – 1939) semplici e formali, a quelle dove i soggetti, quelli che riassumono forse tutto il mondo di Ligabue, quello degli animali che vedeva nella valle padana e dei conflitti tra le fiere oppure quello più idillico- bucolico della natura dei campi dai colori accesi, spesso casuali perché Ligabue usava i colori che disponeva in quel momento (1939 – 1952), sino all’ultimo decennio (1952 – 1965), quando l’artista è colpito da una paresi che lo lascerà invalido sino alla morte avvenuta nel 1965, periodo a cui appartengono i celebri autoritratti che per potenza, devastazione fisiognomica e ossessione possono esser avvicinati a quelli di Van Gogh.

In mostra, ancora, accanto ai capolavori dipinti, come Carrozza con cavalli e paesaggio svizzero (1956-1957), Tavolo con vaso di fiori (1956) e Gorilla con donna (1957-1958) – l’orango che ricorre così frequentemente nei suoi quadri, un tema che nasconde una delle ossessioni del pittore, proprio quella del rapporto con la donna –  si aggiunge una seconda sezione in cui non mancano le sculture come Leonessa (1952-1962) e Lupo siberiano (1936), ed infine una sezione dedicata alla produzione grafica con disegni e incisioni quali Mammuth (1952-1962), Sulki (1952-1962) e Autoritratto con berretto da fantino (1962).

Ligabue: l’uomo-animale che aggredisce

Se come artista ha prodotto centinaia di opere, come uomo, Antonio Laccabue (1899-1965), questo era il cognome del patrigno odiato per il quale mutò il cognome in Ligabue adottando quello materno, ha rivelato le alterazioni della sua psiche malata: selvatico, timido, solitario, insolente, sporco, soggetto a crisi depressive che lo portarono ad entrare ed uscire dal manicomio di Gualtieri, a Reggio Emilia, dove Ligabue decise di stabilirsi nel 1919 al seguito dell’invio in Italia per il servizio militare.

La sua vita fu segnata da una infanzia difficile, non conobbe il vero padre e la madre friulana emigrata in Svizzera, sposò un emigrato di Gualtieri, dal quale ebbe tre figli, riconoscendo anche il piccolo Antonio che rimase solo col patrigno dopo che la morte della madre insieme ai tre fratellini per intossicazione alimentare. Questa grave perdita gli procurò una perdita di identità, vivendo privo di una sua dimensione sociale e di una dimensione presente, ma in quella realtà di ricordi di immagini dei luoghi dove il pittore nacque e visse i primi anni della sua infanzia, il cantone tedesco della Svizzera, dove frequentava l’unico museo di San Gallo, dove visse a lungo guardando gli animali del giardino zoologico, dove frequentava l’orto botanico di San Gallo. Memoria e fantasia, appunto, è il significato della sua opera artistica che, all’inizio, gli fu  riconosciuta da Marino Mazzacurati, l’artista che lo ha scoperto e lo ha spinto a dipingere e gli ha organizzato le prime mostre negli anni ‘50. Antonio Ligabue portava i suoi deliri sulle tele, dipingendo in maniera primitiva, mostrandoci nella fissità e nella violenza degli animali feroci (egli stesso sognava di tramutarsi in un animale), spesso in lotte cruenti la rappresentazione di se stesso.

La rappresentazione della nevrosi e insieme della memoria, il paesaggio della memoria sono gli elementi che compongono un’intera sintesi di tutte le contraddizioni, l’infelicità, il destino doloroso di quest’uomo e di questo pittore di nome Antonio Ligabue, il pittore creativo che si identifica con l’animale che aggredisce.

 

Dalì. Il sogno del classico in mostra a Pisa fino al 5 febbraio 2017

Tra gli eventi culturali in programma per questo autunno-inverno, da non perdere è la mostra dedicata a Salvador Dalì (Figueres, 1904- Ivi, 1989), appositamente allestita nelle sale dell’antico Palazzo Blu di Pisa, dimora nei secoli di diverse casate nobiliari. Dal 1° ottobre, in mostra oltre 150 capolavori del grande maestro catalano che testimoniano al pubblico la grande influenza che la tradizione classica italiana e i grandi Maestri del Rinascimento hanno esercitato sull’arte di Dalì, uno degli aspetti meno noti della sua particolare parabola surrealista.

Le opere sono state eccezionalmente prestate dal Museo Fundación Gala-Salvador Dalí di Figueres e dal Dalí Museum di St. Petersburg in Florida, le due più importanti istituzioni mondiali che custodiscono le opere dell’artista catalano, ma anche dai Musei Vaticani. La mostra, curata dalla direttrice Musei Dalí Montse Aguer in collaborazione con MondoMostre, presenta una selezione mirata di diverse opere tra cui dipinti, acquerelli e xilografie appartenenti all’ultima fase della carriera del celebre artista surrealista. Conosciuto in tutto il mondo per la sua capacità di superare i confini della realtà oltrepassandola con la forza creativa dell’inconscio, Dalì non è stato solo pittore, ma anche scultore, incisore, disegnatore, filmaker, designer e intellettuale appassionato di letteratura. Il percorso espositivo, infatti, evidenzia non solo le diverse tecniche e materiali esplorati da Dalí, ma permette al visitatore di entrare in contatto con la dimensione artistica più peculiare della sua espressività surrealista in relazione ai principali protagonisti della tradizione rinascimentale come MichelangeloDante e Benvenuto Cellini.

Per la prima volta l’esposizione si concentra proprio sull’importanza che per Dalí ha avuto l’Italia e  l’interesse per la pittura del Rinascimento maturo e del Seicento. È proprio su questa linea che prende forma la mostra pisana Dalí. Il sogno del classico  che durerà fino al 5 febbraio 2017.  In particolare, il percorso è suddiviso in cinque sezioni  Soggetti religiosi, Inferno, Purgatorio, Paradiso, Autobiografia di Benvenuto Cellini.

I quattro dipinti che aprono la mostra, La Trinità, studio per il Concilio ecumenico del 1960, Paesaggio di Port Lligat, 1950, Sant’Elena a ′Port Lligat, 1956 circa e Angelo di Port Lligat, 1952 dimostrano una svolta mistica e religiosa in pittura, successivamente al suo soggiorno in Europa a causa della guerra civile spagnola, quando nel luglio del 1948 Dalí e la sua amata Gala tornano a Port Lligat e poi di nuovo in Italia.

Dipinti importanti e poco conosciuti permettono al pubblico di avvicinarsi agli aspetti meno noti del lavoro del grande artista, quando Dalì ammira e ripete temi religiosi ispirati agli artisti rinascimentali, costituendo così un’immagine eco. I toni verdastri della tela, un po’ deprimente, corrispondono al periodo in cui il declino della sua musa-amore ossessivo per Gala diventa chiaro, quando l’opera di Dalì è il risultato di una profonda tristezza malinconia e ricordano il passato. Sono le ultime creazioni degli anni ’80 che appartengono al momento in cui Dalì ha anche spesso utilizzato l’iconografia michelangiolesca, così come: Senza titolo. Mosè da quello della tomba di Giulio II di Michelangelo, Senza titolo. Cristo dalla Pietà di Palestrina attribuita a Michelangelo, Senza titolo. Giuliano de’ Medici da quello del sepolcro di Giuliano de’ Medici di Michelangelo e Senza titolo. dal Ragazzo accovacciato di Michelangelo.

Oltre i dipinti, l’intera serie di xilografie ad acquerello, gouache e sanguigna (dipinte tra il 1950 e il 1952) della Divina Commedia, che gli fu commissionata nel 1950 dal ministero della Pubblica Istruzione italiano, e le 42 illustrazioni in china su carta e acquerello che raccontano la leggendaria vita di Benvenuto Cellini, realizzate su commissione dell’editore Doubleday&Company′ nel 1945 – per una nuova edizione inglese di The Autobiography of Benvenuto Cellini.
Una mostra unica che esplora l’universo dell’ultimo Dalí, ancora poco conosciuto, e che mette in luce la relazione del suo grande genio con la tradizione dei grandi maestri e della letteratura italiana.

 

 

Edward Hopper al Vittoriano: la grande mostra dedicata al ‘pittore della solitudine’

Con l’arrivo della stagione autunnale, per gli appassionati d’arte non mancano gli eventi dedicati ai grandi nomi e retrospettive interessanti. Dopo il successo della mostra in Palazzo Fava a Bologna, dal 1° ottobre Edward Hopper (Nyack,1882- New York, 1967) torna nella capitale in una straordinaria retrospettiva. Oltre 60 opere realizzati tra il 1902 e il 1960 e una sezione inedita saranno esposti negli spazi dell’Ala Bransini del Complesso del Vittoriano fino al 10 febbraio 2017.

La mostra

Le opere di Hopper sono state eccezionalmente prestate dal Whitney Museum di New York, che di Hopper custodisce l’intera eredità. La rassegna, curata da Barbara Haskell (del museo newyorkese) in collaborazione con Luca Beatrice, ripercorre la straordinaria produzione dell’artista tra cui celebri capolavori come: South Carolina Morning (1955), Second Story Sunlight (1960), New York Interior (1921), Le Bistro or The Wine Shop (1909), Summer Interior (1909), interessantissimi studi (come lo studio per Girlie Show del 1941). A questo si aggiunge anche il prestito eccezionale dell’olio su tela Soir Bleu, dipinto da Hopper a Parigi nel 1914. Oltre ai capolavori di Hopper, inoltre, il percorso offre una sezione della mostra tutta inedita, che testimonia dell’influenza della tecnica del pittore sul grande cinema a lui contemporaneo: film di Philip Marlowe, lavori di Hichcock, primi fra tutti Psycho e La finestra sul cortile e di Antonioni. Così come in Profondo Rosso Dario Argento si ispira a Nighthawks per ricostruire la sequenza del bar.

 

Edward Hopper: pittore della solitudine

Conosciuto in tutto il mondo per la sua capacità di ritrarre il senso della solitudine nelle classi medie della società americana a lui contemporanea, Hopper è stato un artista lontano dalle tendenze astratte o surreali che contraddistinsero i nuovi linguaggi artistici della prima metà del Novecento scaturiti dagli sconvolgimenti sociali e politici. Per Hopper nacque l’esigenza di andare oltre la realtà apparente, in modo da indagare e riprodurre la realtà interiore: l’inconscio dell’animo umano. Lui stesso infatti sosteneva che dipingeva quello che provava, non quello che vedeva.

Ogni suo dipinto “fissa” una scena sempre silenziosa i quali personaggi dipinti appaiono fermi come se ripresi nell’attimo di un pensiero, di un momento di solitaria riflessione. Il senso di vuoto, di alienazione, di grave incomunicabilità sono nelle opere di Hopper la rappresentazione di un mondo sempre più moderno, sempre più avanzato, sempre più veloce e che, proprio per questo, gli appare (ed è) moltiplicatore di solitudine ed incomunicabilità, e che, a ben vedere, è uguale ancora oggi con il boom dei social network.

“Summer Interior” (1909)

 

Hopper si dedicò soprattutto al disegno, spaziando nelle varie tecniche pittoriche. In esposizione gli acquarelli parigini, i paesaggi e gli scorci cittadini degli anni ’50 e ’60 e, infine, le immancabili immagini solitarie di donne rivelano come la mano di Hopper è riuscita a rappresentare in modo reale la solitudine dell’attesa del vivere, tra pausa degli eventi e meditazione solitaria attraverso la nitidezza di uno scatto fotografico. E per il suo stile così inconfondibile e sui generis, fatto di sofisticati giochi di luci fredde, di colori non vivaci che conferiscono alle sue opere un’atmosfera metafisica, che Hopper, pittore del “silenzio”, oggi risulta essere tra gli artisti più noti e amati dal grande pubblico.

“Nighthawks” (1952.)

Mimmo Jodice e le sue ‘attese’: la mostra al Madre di Napoli

Con la mostra Attesa. 1960-2016, inaugurata al MADRE/ Museo darte contemporanea Donnaregina il 24 Giugno, Mimmo Jodice (Napoli, 1934) ha selezionato una serie di oltre cento opere della sua straordinaria produzione fotografica, appositamente allestita nelle bianche sale del museo napoletano; luogo di ricerca e di diffusione di linguaggi artistici d’impronta contemporanea.

Curata dal direttore del Madre Andrea Viliani, la prima e vasta retrospettiva, dedicata al maestro della fotografia conosciuto in tutto il mondo, conduce il visitatore in un percorso di opere che narrano le immagini di una Napoli in bianco e nero, dove la luce irrompe la scena come all’interno di un’ambientazione teatrale. L’osservazione e lo studio della realtà quotidiana della sua città, lì dove lui è nato nel 1934 e dove ha sempre voluto vivere, sono il principio comune a tutte le opere. La serie di foto, dunque, riflette temi e aspetti della sua ricerca, comprendendo i suoi esordi a partire dagli anni Sessanta in poi, la città, la passione per le tracce del passato, Pompei, Ercolano, ma anche Palmira e, infine, il mare, fonti autentiche e inesauribili della sua realtà fotografica.

Mimmo Jodice, Attesa, opera n.2., 2012 – Collezione dell’artista

 

Mimmo Jodice ha spiegato che si è dedicato da anni a questo lavoro che dà titolo all’intera mostra, Attesa, appunto, nel significato di catturare nelle immagini quella dimensione indefinita, sospesa dello scorrere del tempo e del quotidiano insita in ciascuno di noi. Lo spettatore è, dunque, assorbito da immagini che non sono copie della realtà, ma immagini che esprimono un pensiero sulla realtà, frammenti di vita quotidiana analizzati oltre il visibile, nella sfida difficile – come lo ha definito il maestro – di catturare le sensazioni della mente. Ed è così che nascono le «attese», l’artista tramite il mezzo fotografico rappresenta le sensazioni di vuoto nello spazio urbano, come una persona ritratta di spalle e non si sa che faccia abbia, un teatro vuoto, oppure una finestra chiusa.

La realtà popolare domina gli spazi di certe sue rappresentazioni fatte di gesti e modi di fare che non sono cambiati anche dopo secoli: bambini scalzi, vestiti di stracci, ragazzini costretti a crescere troppo in fretta, come chi cerca di vendere sigarette di contrabbando o un bimbo con un vassoio di caffè, più grande di lui. Tali immagini sono lo specchio dell’infanzia difficile dell’artista, orfano di padre a cinque anni, il quale, per questo, ha dovuto lavorare presto per sopravvivere in una città difficile e complessa di cui svela non solo la bellezza amara, ma anche le emozioni. Un percorso di foto quindi, quello offerto da Jodice che consente di conoscere il mondo del Sud e del Mediterraneo in uno spazio in cui presente, passato e futuro si toccano e mescolano.

L’esposizione Attesa. 1960-2016 durerà fino al 24 Ottobre, contribuendo a rendere ancora più ricca l’offerta culturale del MADRE, il primo museo napoletano d’arte contemporanea dove la fotografia è intesa come linguaggio artistico.

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