Il Cristo personale tra complessità e semplificazioni alla Murgia

La cristianità ha un problema con la semplicità. Ma non perché i suoi fedeli, oggigiorno, si avvicinino pericolosamente al rifiuto della materialità come fine primo della vita e del bisogno terreno, così come predicato dal Poverello d’Assisi o come risultato dell’esempio dei santi. Più che di semplicità, infatti, potremmo parlare di semplificazione, in un senso chirurgico e profondo rispetto a quello evocato, come sicuramente ricorderete, dalla fu Murgia Michela mentre svolgeva il suo perfetto e fantascientifico compitino ideologico, quando affermava che i cattolici adorano un Dio bambino perché rifiutano la complessità.

Ebbene, tra la provocazione e la disperazione che aggrediscono il cuore di default e la comicità volontaria che deflagra felicissima da certe affermazioni, la scrittrice sarda, tra le righe di una rotonda sciocchezza, non sparava una sentenza del tutto infondata quando accostava la disabitudine alla complessità alla vita odierna della Fede.

Cristianità e affanno

Nella lunga maratona dei secoli, adesso la Chiesa di Cristo è in apnea. Tira il fiato da quel preciso momento in cui ha cominciato a dialogare eroticamente con i crismi di questa versione di modernità, green e migrante, acquisendoli come necessario rinnovamento che, però, non è traduzione della dottrina bensì frettoloso lavoro di sartoria con cui vestire di nuova civiltà il cattolico per mandarlo nel mondo meno evangelizzato ma sicuramente molto più allegro, aperto di mente e degno d’essere cittadino del mondo. Innamoramento fugace che ha provocato la semplificazione dell’esperienza della Fede, la pretesa di renderla pop, demistificandola per incapacità di traduzione, mischiando la figura del fedele con quella di una brava persona proiettata verso gli altri: un fenomeno sociale e il più grande limite all’eternità. Non si è automaticamente cristiani se si seguono alla lettera le lodi di Francesco d’Assisi, ma ci si può dire tali se si osservano i sacramenti, ci si reca a messa, si trova riparo nella confessione e nelle scritture, si assume l’ostia consacrata e si rafforza il dogma col proprio esempio in vita, guadagnandosi la possibilità di continuare a vivere per millenni, dopo essere crepati, della luce emanata dal volto di Dio.

Dunque, ogni atto meccanico che sostiene l’infantilismo murgiano, o equivalente, litania del sensazionalismo nella sua massima estensione, capitale che ospita la periferia degradata del buon senso intellettuale, evidenzia un problema reale, pur non volendo farlo: quello del Cristo personale, da pregare in bagno o al mare, quello verso cui convertirsi mentre l’aereo sta cadendo, il Cristo genio della lampada chiamato a eseguire desideri di vita e di morte, di ricchezza e di sorte, neanche fosse un astrologo su Tele Lupa che tira giù banalità astrali, addobbato a festa come un abat-jour liberty.

Risposte dello Spirito al mondo, e non viceversa, occorrerebbero. Quanta fatica nell’assistere alla Chiesa di Cristo che rischia di allevare farisei pronti a un pentimento di cui si ignorano le regole, anziché generare individualità integre nell’animo, capaci di tradurre questa versione di presente con la profondità della Fede, col misticismo, con la forza dell’identità millenaria di valori che edificano la morale del Bene, cucite in una rinnovata “ecclesia” in grado di essere elasticamente contemporanea, perché figlia del proprio tempo, ma sempre tesa al volto di Dio. Non un omino e una donnetta parto di uno sbilanciato compromesso, in cerca di una continua accettazione ideale.

Altro che farisei, quelli che vanno a messa puntuali la mattina di Pasqua a stringere mani e a prendere benedizioni dopo aver preso a schiaffi la moglie davanti ai figli. Uomini integri, sogniamo, contro la distruzione della Fede imposta dal galoppante progressismo, in cui l’abitudine alla comunità (dei fedeli) diventa disabitudine al mainstream, nel sogno bagnato di trasformarla in nicchia colorata, innocua minoranza: la Fede in Dio che diventa mero atto privato, qualcosa che non sia più pubblica normalità determinante, sostanza non inquinante, che non disturbi l’opera di azzeramento delle dimensioni di profondità di ognuno, affinché possa essere rimodellato sui nuovi dogmi di un mondo che deve redimersi solamente da sé stesso, affrancato dall’Alto, nel grande tempio della religione dell’umanità, evocando Jean-Louis Harouel.

Tra semplificazione e ideologia

Dunque, la Chiesa di Cristo ha un problema di semplificazione, ma non per l’infantile tesi ideologica secondo cui un bambino rappresenta l’assenza di complessità: quel figlio – uno e trino, carne e luce – rappresenta la purezza, non la semplicità. E la Madonna Benois leonardiana ce lo ricorda, mentre nel suo giocare col Re dell’universo, nel suo sorridergli di innocenza tenendogli la mano, tota pulchra, esprime il candore e l’amore della pace, dell’unione di due mondi, quello terreno e quello ulteriore. La stessa idea di Dio che sorge da un vibrazione che amplifica il tempo e lo precede, da un suono primordiale, prodromi della vita, archetipo, come ci ricorda il Vangelo di Giovanni, esprime la difficoltà di concepire il dogma, l’ignoto come parte di qualcosa di concreto, quel Sacer che è oltre: rappresentazione dell’assoluto in un ponte mistico e sismico, per le umanissime cose, che unisce la carne corruttibile e sciocca degli uomini – e certi belati da asilo sovietico lo dimostrano – e l’energia più alta che è luce: fiat lux. Paraclito combattente.

Ma in tutto questo, appare inutile elencare la complessità della cultura cattolica citando maestri della Chiesa in maniera randomica, solo per soddisfare una presa di posizione contraria. Risulta davvero stupido dover legittimare ciò che non c’è, come l’insopportabile vuoto di un atteggiamento teologico che, paraculo e infido, in verità si dimostra ideologico, poggiato su tesi deboli costruite per appagare una sete di vendetta cieca in difesa del torrione materialista, come masturbarsi per noia.

È invece più concreto combattere il processo di semplificazione del Credo, che tutto perdona, soprattutto l’assenza dei fedeli a loro stessi, in atto ormai da qualche tempo. Nessuno più richiama alla mancata assunzione di responsabilità verso la Fede, per la sua continuità. Una caduta libera. Quella conquista del consenso che l’istituzione vaticana compie allontanando dal timore di Dio e riducendo tutto al perdono, all’accettazione – specie dell’altro –, dalla dottrina, dalla preghiera vera che si confonde con una forzata nenia laica, che interrompe la formazione di generazioni di cristiani per inseguire, e non convertire, un popolo disabituato alla complessità.

Gente che preferisce ingozzarsi con qualche gamberone al brandy in più la sera del 24 dicembre, anziché riempire la messa di mezzanotte di un Natale di guerra contro la cancel culture, contro l’aborto da inserire nella Costituzione, contro quel sistema che vuole rendere Dio e il Sacro inservibili ninnoli impolverati del Novecento, come le bomboniere nella vetrina della casa della zia tirchia, contro quel sistema che vuole estinguere tutto ciò che si pone come alternativo all’imposto e che, miseramente, vuole mondarci tutti dalle dimensioni di profondità che ci rendono indipendenti, nel nostro critico ragionare sopra le cose, rispetto a ogni dettato ideologico. Noi come funzione, noi come finzione.

Si poteva innalzare i fedeli, portandoli alla forza complessa della dottrina, parlando la lingua del loro tempo mentre li si conduceva a uno scopo ulteriore, anziché abbassare la dottrina alla disabitudine alla complessità – che oggi tutto coglie – che vivono i fedeli, parlando la lingua della decenza nella lunga licenza dallo spirito.

Cristo diventa un amico che si perde tra le pagine di un diario personale, e la fu Murgia, o chi per lei, porta a casa l’ennesimo compitino. Il cerchio è chiuso qui? Amen”

La ludicità provocatoria di Luca Ricolfi e il delirio ipocrita di Michela Murgia

«In Italia, che io ricordi, solo Natalia Ginzburg ebbe il coraggio e la lucidità di notare, fin dai primi anni ’80, l’ipocrisia e la natura anti-popolare di questa svolta linguistica, che non solo preferiva cambiare il linguaggio piuttosto che la realtà, ma creava una frattura fra linguaggio pubblico e linguaggio privato, fra l’élite dei virtuosi utenti della neo-lingua e i barbari che continuavano a chiamare le cose come si era fatto per secoli e secoli senza che nessuno si offendesse». Questa è una delle considerazioni di carattere storico contenute nel primo editoriale che il sociologo Luca Ricolfi, fresco collaboratore del quotidiano “la Repubblica”, ha piazzato come una mina sotto i temi controversi della correttezza politica, delle lotte per i diritti di genere e delle minoranze, e di altre questioni che da sempre sono care alla tradizione del giornale romano.

Il subbuglio suscitato nelle aree intellettuali “sinistrorse”, a cominciare da quella interna, è stato notevole: fra le reazioni acide e scomposte all’editoriale si segnalano lo sprezzo velenoso di Gad Lerner (lo immaginiamo mentre agita i pugni, rischiando di perdere il Rolex) e il tweet da antologia di Michela Murgia, mentre l’articolo in risposta su Repubblica della “consociata” Chiara Valerio – tanto precipitoso quanto fumoso e inutile – ha cercato di razionalizzare la questione, mostrando il volto rassicurante di quella repressione di stampo neo-femminista che da qualche tempo si sta cercando di attuare.

Molto si è detto e ironizzato in questi giorni sul “piccolo terremoto” provocato da questo esordio, per cui preferiamo sorvolare sulle considerazioni spicce e analizzare la questione in modo più mirato, focalizzando le devianze che sono emerse. Così inizia l’editoriale di Luca Ricolfi:

«Quando, esattamente, sia nato il “politicamente corretto” nessuno lo sa. Sul dove, invece, siamo abbastanza sicuri della risposta: negli Stati Uniti. La sinistra americana, un tempo concentrata – come la nostra – sulla questione sociale, ossia sulle condizioni di lavoro e di vita dei ceti subalterni, a un certo punto, collocato tra le fine degli anni ’70 e i primi anni ’80, ha cominciato a occuparsi sempre più di altre faccende, come i diritti civili, la tutela delle minoranze, l’uso appropriato del linguaggio. Lo specifico del politicamente corretto delle origini era proprio questo: riformare il linguaggio».

Da qui si è creato «un fossato fra la sensibilità dei ceti istruiti, urbanizzati, e tendenzialmente benestanti, e la massa dei comuni cittadini, impegnati con problemi più terra terra, tipo trovare un lavoro e sbarcare il lunario. Fu così che venne bandita la parola “negro” (sostituita con nero), e per decine di altre parole relativamente innocenti (come spazzino, bidello, handicappato, donna di servizio), vennero creati doppioni più o meno ridicoli, ipocriti o semplicemente astrusi: operatore ecologico, collaboratore scolastico, diversamente abile, collaboratrice familiare». Col tempo, in evoluzioni successive, «il politicamente corretto si è trasformato in qualcosa di radicalmente diverso, e assai più pericoloso per la convivenza democratica». Di fatto ha subìto mutazioni progressive: Ricolfi ne individua cinque, che sintetizziamo.

La prima mutazione: l’arrivo di internet e la creazione dello spazio pubblico dei social, «dove imperversano volgarità e offese alla grammatica, (…) perfetto brodo di coltura delle suscettibilità individuali». La seconda: «l’espansione della dottrina del “misgendering”», ovvero «chiamare qualcuno con un genere che non gli va, ad esempio maschile se è o si sente una donna (o viceversa); o plurale maschile (cari colleghi) se ci si riferisce a un collettivo misto».

La terza mutazione porta alla cosiddetta cancel culture, di cui molto si sta parlando e che è superfluo spiegare. La quarta mutazione cambia marcia, e spinge alla «discriminazione nei confronti dei non allineati. Professori, scrittori, attori, dipendenti di aziende, comuni cittadini perdono il lavoro, o vengono sospesi, o vengono sanzionati, non perché abbiano commesso scorrettezze nell’esercizio della loro professione, ma perché in altri contesti, o in passato, hanno espresso idee non conformi al pensiero dell’élite dominante». E infine si arriva alla quinta mutazione: la cosiddetta identity politics:

«Un complesso di teorie, filosofie, rivendicazioni, secondo cui quel che conta veramente non è che persona sei ma a quale minoranza oppressa appartieni. Da qui derivano le idee più strampalate, ad esempio che per tradurre un romanzo di una autrice nera tu debba essere nera (è successo). Che per parlare di donne tu debba essere donna; per parlare di omosessualità essere omosessuale; per parlare dell’Islam essere islamico; per parlare dell’Africa essere africano. Se osi parlare di qualcosa senza essere la cosa stessa sei accusato di “appropriazione culturale”».

Ecco, fin qui possiamo dire che la ricostruzione di Ricolfi (che invitiamo a leggere integralmente) appare ineccepibile, salvo precisazioni o disaccordi di metodo, tutti da valutare. Sta di fatto che l’assalto più brutale al sociologo è arrivato subito da Michela Murgia, che con la solita aggressività tronfia e maleducata – tutta funzionale a ottenere risonanza sui media – ha sentenziato via twitter:

«Leggo Ricolfi e non posso fare a meno di pensare che il clitoride ha 8000 terminazioni nervose, ma ancora non è sensibile quanto un editorialista italiano maschio bianco eterosessuale quando sente minacciato il suo privilegio».

Un vero attacco da bulla della rete, fedele ai suoi metodi, che stavolta si è risolto – purtroppo per lei – in una doppia zappata sui piedi. La prima: tutti sanno, o dovrebbero sapere, che il sostantivo clitoride è femminile: la clitoride. È vero che, specialmente nell’ultimo secolo, nell’uso è andata prevalendo la declinazione al maschile, ma questo non significa che il termine sia diventato maschile: esso è rimasto e rimarrà femminile. Quindi, paradossalmente, la leader più ingombrante della lotta contro i dannati maschi-italiani-bianchi-eterosessuali, l’agitatrice che di questa lotta fa bandiera trasformandola in fonte di guadagno e di prestigio e strumento di prevaricazione, colei che pretende di neutralizzare i termini maschili con l’imposizione di una neo-lingua senza senso che favorisca la sfera femminile e transgender, ecco, questa persona cosa fa? Salita sul pulpito per colpire l’avversario, prende una parola femminile, che pertiene alla sessualità femminile, e la volge al maschile in maniera plateale, senza fare una piega. Uno svarione inaccettabile, che a qualunque attivista oltranzista costerebbe l’ignominia con messa in punizione, mentre a Michela Murgia fa un baffo, ovviamente, perché “il capo” non si può mettere in discussione.

La seconda zappata: se Luca Ricolfi ha una sensibilità superiore a quella della gloriosa clitoride, allora quanto può misurare la sensibilità di una “Maschia Italiana Bianca Eterosessuale” (il perché lo scopriamo dopo) come Michela Murgia? Di una leader che istruisce tribunali speciali nelle radio, che gode di ospitate televisive continue, che ha imperversato nella tv di Stato facendo addirittura stroncature letterarie, facoltà mai concessa ad alcuno e che mai verrà concessa perché è una materia ritenuta tabù; che lavora per il Gruppo Gedi (ovvero Fiat) con un ruolo primario, che gode del privilegio di avere i propri libri promossi in modo permanente dai giornali dello stesso Gruppo che le dà lo stipendio, e beneficia di una visibilità totale, assoluta e indiscutibile? In pratica, quanto può essere sensibile la scrittrice italiana più privilegiata di tutti i tempi se vede minacciata la sua montagna di privilegi che non ha eguali? Quante clitoridi bisognerebbe mettere insieme per misurarlo?

In coda, vogliamo concludere con una considerazione che il professor Simone Pollo dell’Università di Roma La Sapienza, ha espresso recentemente nel suo spazio social:

«Quando si esamina il dibattito su questioni come l’intersezionalità, lo schwa, la cancel culture ecc. (ma è solo un esempio e la nota vale per qualsiasi tema “caldo” nel dibattito pubblico) non bisogna mai dimenticare un fatto. Il fatto è che in quel dibattito, oltre alle grandi questioni di principio, si giocano sottotraccia anche carriere accademiche e/o politiche, visibilità nel sistema culturale, contratti per scrivere libri, collaborazioni con quotidiani, inviti a festival ed eventi culturali vari, interviste nei vari mezzi di informazione eccetera».

 

Paolo Ferrucci

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