La fine delle avventure di Renzocchio. Storia di un premierino

C’era una volta…
– Un re! – diranno subito i miei piccoli lettori.
No, ragazzi, avete sbagliato. C’era una volta un presidente del consiglio.
O meglio, un presidente del consiglio dimissionario, di nome Renzocchio.

Sì, perché Renzocchio aveva solo da poche ore ricevuto la più grande batosta della vita sua. Una batosta sonorissima, enorme, semi-plebiscitaria e al momento giaceva sfranto e smarrito a culo molle sul sedile imbottito della poltroncina scarlatta collocata quasi al centro del suo gabinetto personale, però in procinto di essere a breve predisposto per qualchedun altro, per il suo successore, ancora ignoto. Subito dopo la consegna di quella cazzo di campanellina, il cui debole trillo sarebbe suonato alle sue orecchie come uno stuolo di campane a morto. E dire che era trascorso così poco tempo – appena un soffio! – da quando l’aveva a sua volta strappata di mano a un recalcitrante Enrico Letta, cui era subentrato con la gioia infame di un pargolo dispettoso, felice delle ulcere e dei traumi psico-somatici che quel colpo di mano avrebbe provocato nell’antipatico compagno di partito.

Era solo, Renzocchio, in penombra, camicia bianca, senza pantaloni, le scarpe nere tirate a lucido ancora addosso, le calze tenute su dai reggicalze elastici che col loro morso gli segnavano i polpacci. Lo sguardo perso nel vuoto, una mano penzoloni giù dal bracciolo, l’altra a reggere svogliata un cocktail analcolico a base di Red Bull, che si andava sempre più annacquando, man mano che il ghiaccio si scioglieva. Mille giorni! O giù di lì. E poi… aveva voluto puntare tutto su quel dannato referendum, il cui esito ora lo risucchiava giù, allo sprofondo, come un gorgo oscuro. Les jeux sont faits. Rien ne va plus.
«Non credevo mi odiassero così tanto…» gli scappò detto, a filo di voce. Si guardò subito intorno, gli occhi spalancati dal timore che qualche orecchio estraneo avesse potuto cogliere quella esclamazione di momentanea amarezza. Ma no, non c’era nessuno. Ciaone-Carbone stava guardando le registrazioni di Uomini e Donne per trovare qualche altra espressione giovanilistica da esibire in tale drammatica circostanza e risultare simpatico, Genny Migliore pensava: “Ma chi me lo ha fatto fare ad andare via da SEL..”. Paolo Romano chiedeva consiglio a Scilipoti, Maria Elena non la si era più vista: in pieno exit-poll l’era scomparsa, come una fatina, e insieme a lei anche la paresi facciale che l’ha accompagnata durante questi mille giorni. I tanti tirapiedi eran stati tenuti fuor dell’uscio: il capo voleva star solo, ‘un gli garbava di averli tra i piedi in quel frangente, dedicato alla riflessione introspettiva. Come in un saggio di yoga per principianti: Oooom, oooom, oooom…

«Italiani, popolo viziato…» attaccò a pensare a voce alta Renzocchio, scrutando il bicchiere tubolare che impugnava, «Puoi concedergli la luna, ma prima o poi ti getteranno via come una buccia di limone strizzato, basta che appena appena abbiano l’impressione che da te non c’è più nulla da cavare…»
«Quello che hai avuto tra le mani era un potere enorme…»
La voce rimbombò all’improvviso all’interno dello studiolo, senza che se ne potesse individuare con esattezza la provenienza.

Il premier dimissionario guardò tutto in giro, ma… niente, nessuno.
«La gente credeva in te. Si fidava. Per qualche tempo ti volle anche bene. Ti offrirono le proprie vite. Ma sai come va a finire questo genere di cose: qualsiasi luna di miele volge tragicamente al termine, quando non viene consumata per bene e nei tempi giusti…»
«Chi parla? Deh, chi parla?» cominciò a sbraitare lui, levandosi dalla poltroncina di scatto, in mutande, e lasciando cascare a terra il cocktailino, che si frantumò in mille gocce variopinte e altrettanti pezzi di vetro scintillante.
Nessuna risposta.
«E che potevano pretendere più ancora?» rispose allora lui, fissando un punto imprecisato del soffitto.
«Loro chiedevano pane e tu che gli hai dato? Brioche scadute da tre anni…» continuava la vocina, impertinente.
«Gli ho dato gli 80 euri in più dall’Inps, diobòno, gli ho abbassato l’Imu, gli ho abolito Equitalia…» cercava di difendersi il premier uscente.
«La disoccupazione è all’11,6%. Quella giovanile è superiore al 36%.»
«E io gli ho levato l’art. 18, per facilitare le assunzioni da parte delle imprese. Ci avevano già provato parecchi prima di me, ma l’è il mio governo che l’ha spuntata!»
«E così facendo avete annientato le già scarse tutele per i lavoratori e agevolato licenziamenti e buone uscite…».

A forza di udirla, quella strana voce cominciava a sembrargli sempre più familiare, ma, incalzato dal botta e risposta, soprassedé per replicarle, ostentando una certa fierezza: «Durante questo governo abbiamo macinato 660 nuovi posti di lavoro al giorno, oh bellino!»
«Quelli mica contano… Si tratta perlopiù di lavoretti temporanei pagati col voucher… Come quando fai venire la colf in casa a lavorare in nero e se, sul più bello, rimane fulminata col filo dell’aspirapolvere scoperto, prepari in corsa il voucherino prima di chiamare l’autoambulanza, così sei sicuro di non andare nelle grane…»

Cominciò a cercare dappertutto: sotto i cuscini, nei cassetti della scrivania in mogano, dietro il ritratto del Presidente della Repubblica. Intanto la voce proseguiva: «Avete continuato con le solite malversazioni, le solite ‘ndrine, gli intrallazzi, gli inciuci…»
«Ma come!» sbottò lui, simulando un qualche disappunto, tanto che buttava tutto sottosopra nella vana ricerca, «Ho pure reintrodotto il falso in bilancio io! E la responsabilità civile dei magistrati…»
«Tutta fuffa! Tutto fumo negli occhi! Il grosso ti sei ben guardato dal farlo. Gli inquisiti, le bustarelle, gli sprechi. Dovevate tagliarvi lo stipendio, dovevate falciare le spese. Quei soldi sarebbero serviti per il microcredito, per il reddito di cittadinanza…»
Ora aveva capito di chi si trattasse, ne era certo: lo avrebbe stanato a ogni costo!
Si mise a guardare anche negli anfratti più riposti, mentre continuava nel frattempo a discolparsi: «Grazie al mio governo ora hanno il divorzio breve, le unioni civili… Ho pure fatto rimpatriare quei due bucaioli di Marò, tanto per dare un contentino un po’ a tutti…»

«Eh, ma come vedi, alla fine i tuoi calcoli erano sbagliati: il popolo l’ha capita. Non le ha volute più le tue polpette avvelenate. Ha morso la mano che lo nutriva di alimenti adulterati! Ha capito che tutte queste belle novità erano la foglia di fico per nascondere e proteggere i soliti, vecchi poteri…»
«Basta con codeste bischerate!» sbottò il premier, alzando di colpo la lampada, da sotto la quale gli sembrava giungere la vocina. E infatti eccolo, là sotto, scoperto, l’esserino! Quel portavoce della coscienza a sei zampette: il Gryllus Loquens, in termini linneiani.

«T’ho beccato, oh grullo!» esclamò trionfante, agitando un pugno per aria.
«No… Grillo!» rettificò quello, mentre già il pugno chiuso del presidente ancora in carica gli si andava abbattendo addosso, cercando di spiaccicarne con tutta la forza l’esoscheletro.
Ma il Grillo ebbe la prontezza di caricare il peso sulle lunghe zampe posteriori e improvvisare un salto a parabola che lo salvò dal brutto colpo, che intanto andava a martellare a vuoto il tavolino, scuotendolo orribilmente.
«A presto rivederci!» fece in tempo a profetizzare l’esserino, mentre spariva dalla stanza attraverso chissà quale pertugio, lasciando l’altro a bocca aperta e con un palmo di naso.

Epilogo

Un mattino, al risveglio da elezioni inquiete, il presidente del consiglio si trovò trasformato in un enorme insetto ortottero.
Sdraiato nel letto sulla schiena dura come una corazza, gli bastava alzare un po’ la testa per vedersi il ventre convesso, bruno, diviso da solchi arcuati. Davanti agli occhi gli si agitavano le gambe, molto più numerose di prima, ma di una sottigliezza desolante.
L’ultima copia di zampe in particolare era più lunga ancora delle altre. Queste ultime zampe erano stranamente seghettate nella parte interna. Il nuovo presidente del consiglio, del tutto spontaneamente, attaccò a sfregarle una contro l’altra: «Onestà! Onestà! Onestà!» prese così a frinire, in un crescendo che si fece ben presto assordante.

Terremoto: 268 vittime. Renzi lancia “Casa Italia”

La terra continua a tremare ad Amatrice e il bilancio delle vittime del terremoto è salito a 268 morti. Una nuova forte scossa di magnitudo 4.8 è stata registrata nella zona di Rieti all’alba di stamane. Le scosse di terremoto sono state ben 928, 57 solo dalla mezzanotte di oggi.

In seguito alla forte scossa di stamattina è stato chiuso il Ponte a Tre Occhi sulla strada regionale 260, importante via di accesso ad Amatrice. I militari stanno lavorando per creare un ‘bypass’ che consenta di superarlo e raggiungere Amatrice lungo la strada regionale 260. Il sindaco di Amatrice Sergio Pirozzi,  lancia l’allarme dell’isolamento per la sua città: “Devo garantire l’accesso ai mezzi di soccorso, perché siamo isolati e non ci stanno più le strade. La gente deve sapere che ha i servizi e si deve registrare. Sono state allestite le tendopoli; per questioni di sicurezza e per una migliore assistenza vi invitiamo a raggiungere queste aree”, ha affermato più volte durante diversi collegamenti televisivi. Sono 2.100 le persone che hanno beneficiato dell’assistenza allestita nei comuni coinvolti, 238 vite salvate dalle macerie. Alla macchina dei soccorsi che sta funzionando alla perfezione, si unisce quella della solidarietà, di cui, ancora una volta, in questi tragici casi, l’Italia dimostra essere campione. Italia che dovrebbe lasciare per un attimo le polemiche e stringersi, piaccia o no, intorno al premier Matteo Renzi che ha lanciato il piano “Casa Italia”, un progetto per l’affermazione della cultura della prevenzione, che manca all’Italia da più di 70 anni. Si spera che stavolta sia la volta buona.

Terremoto centro Italia, Renzi: No alle New Town

Il Consiglio dei Ministri ha infatti dichiarato lo stato d’emergenza, e deliberato un primo stanziamento di 50 milioni di euro, che saranno coordinati dalla Protezione Civile, per il terremoto in Lazio, Marche e Umbria; è stato firmato anche “il blocco delle tasse” da parte del ministro Padoan, per i cittadini dei territori colpiti. “La priorità è assicurare agli sfollati un posto dove dormire e permettere loro il prima possibile di abbandonare le tende, gestire nel rispetto del territorio la possibilità per queste persone di restare vicino alle proprie radici, che è una priorità, anzi è un loro diritto”. Sono state queste le parole del capo del governo durante la Conferenza dei ministri di ieri a Palazzo Chigi.

La buona notizia che è emersa dalla Conferenza di ieri è stata inoltre l’esclusione delle New Town, esperimento fallito a L’Aquila, senza dimenticare che con i soldi impiegati per far fronte ai danni dei terremoti (certamente 50 milioni di euro rappresentano un punto di inizio), si sarebbe potuta mettere in sicurezza la maggioranza dei fabbricati che hanno dei problemi, e si sarebbero potute evitare anche questa strage. E a tal proposito non è solamente triste, ma oltremodo indegno e cinico sentire, a due giorni dalla tragedia, il ministro Delrio nella trasmissione “Porta a Porta”dire che adesso “L’Aquila è il più grande cantiere d’Europa come l’Emilia, che è  anch’essa un grandissimo cantiere in crescita, e farà PIL” e il conduttore Vespa che ciò porterà molto lavoro. Le vite umane vengono prima dell’economia e il lavoro lo si poteva dare prima, attraverso la prevenzione, mettendo al sicuro il nostro Paese.

Ma c’è anche un altro aspetto di cui bisogna tener conto: anche nelle soluzioni emergenziali realative ai disastri ambientali naturali e per quelle ad impronta umana la sovranità nazionale è condizionata dalle regole imposte dall’Unione Europea, nonché la perversa macchina burocratica. Bisogna dunque farsene una ragione e sottostare ai diktat europei oppure rompere gli indugi e ribellarsi una buona volta ai patti unitari europei per la salvaguardia e il benessere del popolo italiano? Purtroppo il sogno di sentirsi ed essere cittadini europei fa a pugni con la cruda realtà.

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