ἐλπίς, l’eco maledetto della Speranza, di Federica Marcucci

Elpìs (ἐλπίς) è la speranza. O meglio la personificazione della Speranza. Questo scriveva Esiodo ne Le opere e i giorni, narrando il mito di Pandora e del suo celebre vaso contenente tutti i mali che, si dispersero nel mondo, finché la donna non riuscì a chiudere di nuovo il recipiente. Tutti tranne la Speranza, ultimo e unico demone a essere rimasto intrappolato nel vaso. Esiodo non ha mai precisato che in questo modo il dono potesse assumere una valenza di riscatto, di conseguenza per noi la Speranza si colora di molteplici sfumature crepuscolari. In questo senso abbandoniamo l’idea che il dono possa diventare una metafora per il raggiungimento di una felicità futura, ma al contrario abbracciamo la convinzione che la Speranza non sia altro che l’anticamera delle magnifiche illusioni inevitabilmente partorite dalla mente umana.

ἐλπίς

Respiro rumorosamente quest’aria di vetro

a bocca aperta, col naso chiuso che brucia.

Ormai allergica a quest’atmosfera rarefatta.

Silenzi, menzogne, parole sputate che colpiscono

al cuore.

È una bugia che pesa fingere che vada tutto bene.

Gli occhi si chiudono ancora davanti a certe realtà.

E mi chiedo se avrò mai uno sprazzo di felicità

che sia solo mio.

I sogni non muoiono con me,

ma è così difficile tenerli in vita.

Ultimo demone nel vaso di Pandora.

Speranza.

L’esperienza bellica in Saba, Montale, Ungaretti

Il ventesimo secolo è ricco di avvenimenti che hanno mutato dalle fondamenta il nostro Paese.
Le guerre, i regimi dittatoriali, hanno scritto la storia più cruenta del Novecento e hanno finito per creare un legame anche con la cultura del tempo, coinvolgendo sotto tutti i punti di vista scrittori come Ungaretti, Montale, Saba. Tre grandi pilastri della letteratura italiana, accomunati dall’esperienza della guerra, dalla cognizione del profondo malessere umano, quella solitudine esistenziale che ognuno di essi esprime attraverso il proprio stile, passando dalle “illuminazioni” ungarettiane, al “male di vivere”, a quella rottura insanabile tra individuo e mondo tipicamente montaliana, alla tenerezza infantile e non per questo meno profonda, che è il “marchio di fabbrica” di Saba.

Tutti e tre gli autori italiani affrontano nei propri versi gli orrori della guerra e ognuno ne mette in luce diversi aspetti, facendo di essa la “propria” guerra, ricercando oltre il dolore e la morte il senso più profondo della vita, attaccandosi attraverso la poesia, ad una speranza, che diviene speranza per l’intera umanità. Questo ci fa comprendere come la poesia e la letteratura in generale, non siano un qualcosa di lontano e obsoleto, ma sono vita che pulsa , passato che torna a vibrare nel presente, presente che scava nella storia e la rilegge, scoprendone ogni volta qualcosa di nuovo; sono le voci, le sensazioni, le emozioni di chi ci ha preceduto e che scopriamo inaspettatamente così vicino a noi; sono ciò che il nostro cuore, la nostra anima cela; è tutto ciò che spesso non siamo capaci di esprimere con le nostre parole. La guerra descritta in questi componimenti non è solo quella fisica, quella combattuta al fronte ma è anche la battaglia che l’individuo affronta quotidianamente con la propria esistenza, è la “molla” che fa scattare l’attaccamento alla vita o al contrario è la prova più evidente di quella profonda insofferenza insita nell’uomo, la dimostrazione di quella scissione insanabile tra individuo e mondo, l’ espressione di quella debolezza, incompiutezza, fragilità umana. Leggiamo in una poesia ungarettiana:
 

“… Come questa pietra
è il mio pianto
che non si vede
La morte
si sconta
vivendo.”

Il titolo del componimento è “ Sono una creatura” e appartiene alla raccolta “ L’ Allegria”. La poetica di Ungaretti è interamente pervasa dal ricordo dell’esperienza del fronte, da quella commemorazione così ermetica e per questo ancor più tagliente dei caduti di guerra, da quei flashback che sembrano squarciare la carta su cui si posano parole concise e prive di punteggiatura , che intrecciano passato e presente, dolore e speranza, vita e morte.

Eugenio Montale

Non poteva la poesia ungarettiana non risentire del bagaglio di sensazioni, ricordi, tomenti, di cui il poeta si fa carico partendo volontario per la prima guerra mondiale, legando la sua vita alla politica del tempo, partecipando con fervore non solo allo scenario culturale, ma anche sociale dei suoi anni. La pietra di cui leggiamo nel componimento è infatti quella del Carso, celebre per le sanguinose battaglie che ospitò durante la guerra, la cui durezza e asprezza viene paragonata al pianto del “soldato” Ungaretti, un pianto che non è più solo suo, ma di tutti coloro che hanno vissuto l’esperienza della guerra; un pianto che si pietrifica nel petto, rendendoli incapaci di esprimere emozioni, dubbiosi sull’essere ancora delle “creature”.  “La morte si sconta vivendo”. Un pensiero profondo, abissale, che ci fa comprendere come il confine tra vita e morte sia labile, come l’una si mescoli inevitabilmente con l’altra, come non c’è vita senza morte né morte senza vita, poiché colui che sopravvive alla morte non può non pensare a chi invece ne soccombe. È un tormento che si “sconta vivendo”, e la vita allora rende schiavi della morte, creando un intreccio esistenziale delicato e complesso. Ne “Il sogno del prigioniero”, poesia di Montale, contenuta nella sezione  “Conclusioni provvisorie” de “La bufera ed altro”, con uno stile completamente diverso da quello ungarettiano, ma comunque complesso, il poeta attraverso l’utilizzo del “correlativo oggettivo” descrive, quasi come se stesse disegnando, una condizione di prigionia e di oppressione che si estende a tutta l’umanità, che vive intrappolata nelle trame e negli orrori della società moderna.

“….e i colpi si ripetono ed i passi
e ancora ignoro se sarò al festino
farcitore o farcito. L’attesa è lunga,
il mio sogno di te non è finito”.

 

Umberto Saba

Anche in questo componimento emerge l’intreccio tra vita e morte, che tocca però un campo ancor più complesso, quell’intima esigenza di moralità, priva di qualunque intenzione moralistica, tipica della poetica di Montale ; una moralità che serpeggia nei suoi versi, ma che è sfuggevole, evanescente, non si svela mai del tutto. “Il prigioniero”, qui metafora dell’umanità ,può divenire vittima o carnefice, in nome di un senso morale dimenticato o al contrario esaltato. Ma lo “ignora”, così come noi lettori per volontà del poeta ignoriamo quale sia la scelta che il prigioniero, dunque l’umanità, dovrà compiere. Il “sogno” citato all’ultimo verso è invece metafora di quella speranza, di quel ruolo salvifico che il poeta conferisce alla poesia, rappresentata simbolicamente dall’immagine di una donna-angelo; una poesia che è l’ultimo spiraglio di positività in un mondo che per Montale è pervaso dal “male di vivere”.
Anche nella poesia di Saba, seppure in quantità minore, si riflette l’influsso della guerra e di tutto ciò che ha rappresentato, come le persecuzioni razziali di cui il poeta è stato vittima. Ma Saba, a differenza di Ungaretti e di Montale , riesce a descrivere anche la guerra con una delicatezza e una semplicità espressiva che non ha eguali. In “Marcia notturna”, contenuta nel  “Canzoniere”, si descrive la marcia dei soldati lungo il mare e nei versi emerge un ritmo lento, pacato, che accompagna un’evanescente dolcezza di ricordi, ricordi d’infanzia, di quando il poeta non conosceva la guerra, ma la inventava, giocandoci:

“….così che intorno io mi ritrovi il bello
lasciato quando qui venni a marciare,
e i sogni dell’infanzia a ritrovare”.

Un’immagine della guerra nuova, una chiave di lettura diversa e singolare, pienamente accordata allo stile del poeta, che forgia il suo dolore, lo trasforma, lo plasma attraverso la poesia che per lui è il suo scudo, la sua corazza, il mondo del conforto e della speranza.
Tre uomini, tre anime profonde e complesse e una poesia che diviene passato, poi presente, infine eterno.

 

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