“Il gattopardo”: L’immutabile e rassegnata decadenza della nobiltà

Romanzo storico pubblicato postumo nel 1958, Il gattopardo” è il capolavoro di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. L’opera si rifà alle vicende storiche della famiglia Tomasi, dove il principe Fabrizio Salina ricopre il ruolo di Giulio Fabrizio Tomasi, bisnonno dell’autore.

Il romanzo è un’opera di rassegnata decadenza. La decadenza della nobiltà a favore della borghesia; la decadenza del regime borbonico a favore del neo-regno d’Italia. Ma forse più di tutto, “Il gattopardo” è un’opera sull’immobilità. È questo il tema che colpisce più a fondo, e anche qui un’immobilità rassegnata ai tempi, alla storia, all’impossibilità di un cambiamento incipiente.

Se dal punto di vista prettamente narrativo il protagonista è Don Fabrizio Salina, da quello allegorico scorgiamo la presenza lungo tutta la narrazione del cane Bendicò. Si mostra, scompare per interi capitoli, eppure si presenta come elemento finale del romanzo. È lì nella prima pagina e nell’ultima. E lo stesso Tomasi, in una lettera del ’57 a Enrico Merlo, indica Bendicò come la chiave allegorica del romanzo.

Perché il cane rappresenta la famiglia stessa dei Salina e in senso più ampio rappresenta la nobiltà. Un cane che viene sostituito – per la morte naturale – ma che resta lì, imbalsamato come un monito proveniente dal passato. È la situazione della nobiltà indebolita, soppiantata e tenuta in disparte come un qualcosa di ormai arcaico.

I punti chiave del romanzo sono tre. È attraverso questi tre passi che Tomasi coniuga la decadenza con l’immobilità. Innanzitutto la famosa frase pronunciata da Tancredi Falconieri: «Se vogliamo che tutto resti com’è, bisogna che tutto cambi». Una frase incommentabile, tale è la sua chiarezza e che sembra essere la massima della classe politica moderna, che teme i reali cambiamenti, visti come minacce  ai loro privilegi.  Posizioni di potere, rapporti di forza: ogni cosa cambia e al contempo resta identica a sé stessa. Tutto ciò che muta è solo il nome di chi siede su quello scranno, mantenendo inalterata la funzione precedente. Così la nobiltà decade e il suo posto è preso dai nuovi ricchi, dai nuovi potenti.

La famiglia Salina  nel film di Visconti

Il secondo punto è il dialogo di Fabrizio Salina con Chevalley, messo del neo-regno d’Italia. Di particolare importanza è un aneddoto raccontato al piemontese. Gli inglesi gli chiesero cosa venissero a fare in Sicilia i garibaldini. La risposta del principe fu: «vengono per insegnarci le buone creanze ma non lo potranno fare, perché noi siamo dèi». E ancora, in un passo memorabile: «Credo che non comprendessero, ma risero e se ne andarono. Così rispondo anche a lei; caro Chevalley: i Siciliani non vorranno mai migliorare per la semplice ragione che credono di essere perfetti: la loro vanità è più forte della loro miseria».

La critica di Tomasi è alla Sicilia, e forse dalla Sicilia micro-cosmo all’Italia intera per estensione. L’immobilità è dovuta all’ego. Ed è qui che si congiunge il terzo punto: «Noi fummo i Gattopardi, i leoni; quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalletti, le iene; e tutti quanti Gattopardi, sciacalli e pecore, continueremo a crederci il sale della terra».

Tomasi usa una decadenza per parlare di un’altra. Una decadenza che nasce dall’incapacità di mutare, dal pensiero di essere superiori a chiunque altro. Una sonnolenza. E nulla di buono può nascere da questa sonnolenza: non l’amore, che sembra rigoglioso solo in tempo di primavera; non gli affari, con le ricchezze che vanno diminuendo; non la vita sociale, in cui di continuo s’intravede lo spettro della morte.

È questo il mondo decadente in cui si muovono le vicende de Il gattopardo”. Un grande splendore che nasconde ignorante superbia. Don Fabrizio Salina è il conscio osservatore. È un uomo che ha compreso le virtù e i difetti, ha compreso lo spirito del tempo, ma è inserito anche lui in quello stesso mondo. E proprio lui, che sembra la figura capace di uscire dal circolo vizioso, si ritrova sconfitto, rassegnato alla verità dei fatti. E forse è proprio questo che lo rende ancora più triste.

“Isole”, di Teresa Gammauta

L’autrice Teresa Gammauta

“Isole” è il  primo vero romanzo della scrittrice palermitana Teresa Gammauta, edito Milena Edizioni. Grande appassionata di libri (possiede una biblioteca con oltre 3000 volumi di vario genere), Teresa Gammauta ha iniziato a scrivere sin dall’infanzia, ma è solo dall’età adulta che ha deciso di “fare sul serio”. L’idea di scrivere tale romanzo nasce in seguito ad una vacanza a Salina e solo dopo un anno decide di farlo leggere al pubblico. Le “isole” del titolo sono le Eolie la cui presenza è forte dalla prima all’ultima pagina del romanzo e che, come gli esseri umani, sono staccate le une dalle altre anche se nel loro insieme rappresentano un indissolubile entità. Protagonista è Paola, quarantenne con vita apparentemente perfetta, ma è proprio la sua fuga l’evento che smentisce e segna l’inizio del romanzo. Parte per un’isola di cui non si sa il nome, ma che ricorda Salina. È una disperata evasione da se stessa e da un’esistenza a cui sente di non appartenere. Dopo qualche giorno di solitudine ed una lunga introspezione, incontra Andrea e tra loro nasce un sentimento passionale e devastante, che mette definitivamente in crisi le sue certezze e la pone di fronte ad un’inevitabile scelta. Non può tornare indietro, ma sente che il legame con il passato è ancora forte e che qualunque decisione la porterà ad un confronto con la donna che è stata. La sua scelta rimarrà comunque sospesa ed inespressa. Ciò che conta non è chi o cosa lei scelga, ma il fatto che impari a farlo.

Nell’intervista di Andrea Corona (http://www.temperamente.it/uncategorized/intervista-a-teresa-gammauta/?error=access_denied&error_code=200&error_description=Permissions+error&error_reason=user_denied#), la scrittrice  afferma: “Se devo essere sincera, non so con precisione cosa mi abbia spinto a scrivere su una donna in crisi. Quando ho iniziato a scrivere “Isole” avevo chiari in mente soltanto l’incipit della vicenda e la sua conclusione. Sapevo come volevo cominciare la storia e come farla finire, ma il suo svolgersi è stato immediato, si è composto parola dopo parola e capitolo dopo capitolo senza intendimenti preconcetti. Il personaggio di Paola ha preso forma durante la stesura e solo incidentalmente è diventato il simbolo di una forma di alienazione tutta al femminile, che poi mi sono resa conto essere comune a molte donne, specie non più giovanissime, che si ritrovano a vivere esistenze alle quali non sentono di appartenere. All’inizio Paola era soltanto una donna in fuga da una vita che la partenza dei figli ormai grandi e l’egocentrica superficialità del marito avevano svuotato di significato. Ma la fuga diventa ricerca di sé perché proprio allontanandosi dalla sua realtà capisce di essersi persa da tempo, di non “aversi” più, di essere per se stessa solo il riflesso della donna che non è diventata”.

Nel romanzo viene dato molto spazio alle descrizioni degli stati d’animo, tra introspezione e azione, mentre gli ambienti e i personaggi di contorno vengono dipinti in pochi tratti; diffusa è la dose di sicilianità. Lo stile adottato dall’autrice è  fluente, semplice ma efficace. E soprattutto ma pesante. Visto dunque il successo del primo romanzo, attendiamo il prossimo!

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