‘Ballata triste a due voci’. Il drammatico romanzo di Dina Ravaglia

Ballata triste a due voci di Dina Ravaglia è un romanzo narrato da due prospettive, a volte emozionalmente antitetiche: quelle di Giada e di Theo, lei ventisettenne maestra elementare e lui diciannovenne aspirante musicista rock. Giada si racconta con voce sommessa, perché non ha mai avuto molta stima di sé, e anche la narrazione del suo dolore è ovattata, quasi impercettibile; Theo è più presente, la vita lo ha indurito presto, e la narrazione della sua sofferenza è prorompente, è quasi urlata, sebbene con il garbo che lo caratterizza. Sono due protagonisti intensi e tragicamente complessi, che non dovrebbero mai incontrarsi tanto sono diversi, come differenti sono anche le strade che percorrono; il destino, però, si sa, ama giocare e un giorno li mette uno di fronte all’altra: da subito esposti come fossero nudi, con le loro anime traboccanti da non riuscire ad essere contenute nell’involucro corporeo.

Giada lotta ogni giorno per sentirsi all’altezza, per non soccombere alle sue fragilità e alla solitudine dei suoi giorni; Theo ha visto morire sua madre di overdose tre anni prima, il padre si è rifatto una vita all’estero e lui è l’unico a prendersi cura di Oscar, il suo fratellino di dieci anni più piccolo. Alla fine, comunque, non importa la differenza d’età, non conta il divario che esiste tra le loro esperienze di vita: Giada e Theo si incontrano e stabiliscono un contatto intimo, non sapendo cosa l’esistenza stia per riservare a entrambi.

«La vita semplicemente accade, e a noi non resta altro da fare che assecondarla. La vita, a volte, si calma da sola».

Dina Ravaglia presenta un romanzo pieno di passione e di dolore, viscerale e autentico, sporco e allo stesso tempo puro; la preziosa costante della musica rock, poi, è un valore aggiunto, e accompagna lo smarrimento e il tormento di questi due ragazzi che lottano per trovarsi, per non perdersi. L’autrice tratta temi molto delicati come la depressione, la dipendenza da droghe, la violenza fisica, l’abbandono genitoriale; non utilizza filtri, non si censura, non si nasconde dietro falsi moralismi: la vita è anche fatta di questa materia fangosa, da cui è difficile uscirne ma non impossibile. Giada e Theo, come noi, cadono, e a volte fanno fatica a rialzarsi; insieme, però, nel loro disperato bisogno reciproco, trovano un modo di risollevarsi dalle loro miserie, dimostrando l’importanza dell’amore e dell’accettazione dell’altro nelle sue luci e nelle sue ombre – «L’unica cosa che puoi fare, quando sei nel pozzo, è allungare le mani e lasciare che ti tirino su».

 

SINOSSI DELL’OPERA. È la storia dell’incontro inatteso di due mondi deserti, quello del diciannovenne Theo, chitarrista rock, e di Giada, la ventisettenne maestra elementare di suo fratello. Un incontro che produce scintille e mostra come l’incendio che divampa, anziché distruggere, finisce per creare. Perché le cose insolite non necessariamente sono destinate a fallire, e a volte le strade tortuose ci portano a destinazione. Narrato in prima persona, in un duetto di voci e punti di vista, il romanzo esplora le parti buie e intime dei due protagonisti, affrontando anche il tema della depressione conseguente le drammatiche vicissitudini della vita di Theo, quali la morte della madre e un’accusa infondata ma infamante che gli costerà molto cara, in termini di violenza e separazione. Ma il romanzo affronta anche la zona luminosissima dell’amore: quello innato per la musica, quello incondizionato per un fratello e quello dolce e passionale tra i due protagonisti. In un finale avvolgente come un abbraccio, liberatorio come le lacrime.

 

BIOGRAFIA DELL’AUTRICE. Dina Ravaglia è nata a Parma e vive a Brescello. Architetto, tre figli, per lei scrivere è importante da sempre. Ha pubblicato numerosi libri, con cui ha vinto anche premi prestigiosi: “La curva del cielo”, racconto inserito nell’antologia Matrimoni (Effequ Edizioni, 2008), “La luna sporca” (Edizioni Ponte Gobbo di Bobbio, 2008), romanzo vincitore del premio al concorso Città di Bobbio 2008 e del 2° premio al concorso per narrativa edita “Livio Paoli” San Mauro 2009 a Signa, Firenze. Seguono “La mano di legno” (Edimond Edizioni, 2011), romanzo vincitore del 2° premio Città di Castello 2010 e arrivato tra i quattro finalisti del Premio Città di Forlì 2010, “L’isola degli internati” (ebook Io Scrittore, 2013; cartaceo self-publishing, 2020), romanzo finalista al torneo letterario Io Scrittore 2012, “Uno” (Nicola Calabria Editore, 2014), “Il cuore opposto” (Gilgamesh Edizioni, 2017), romanzo vincitore del 1° premio narrativa concorso Andrea Torresano, e “Cattiva stella” (Nuova Santelli Edizioni, 2018).

 

 

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‘Il prezzo del tempo’. La percezione del fattore temporale secondo Ilaria Marchioni

Ne “Il prezzo del tempo, così come si evince dal titolo, Ilaria Marchioni propone un’attenta riflessione su quella che è la percezione del fattore temporale da parte dell’uomo di oggi, figlio della tecnologia e della modernità caotica, soffermandosi su tutti quei meccanismi inconsci che ci inducono ad allontanarci dalle cose realmente importanti e dagli obiettivi che razionalmente vorremmo raggiungere.

Ponendo l’attenzione sull’importanza del momento presente, sul valore di ogni singolo istante, sulla capacità dell’essere umano di auto-osservarsi e sulla consapevolezza di sé che ognuno dovrebbe acquisire, l’autrice suddivide l’opera in tre capitoli inerenti ai tre pilastri sui quali si basa la nostra esistenza vale a dire: i pensieri, le emozioni e il corpo, una triade che non solo costituisce il nostro essere ma che ci pone in collegamento con l’altro.

Ogni capitolo è a sua volta strutturato in paragrafi in cui vengono elencate, in termini di prezzo da pagare, le cause e le credenze inconsce responsabili della perdita di tempo. Riflessioni supportate, a fine paragrafo, da tre sezioni relative a domande di autoconsapevolezza, a strumenti pratici o spirituali per una trasformazione da attuare in autonomia, e ad apprendimenti, decisioni e nuove azioni da appuntare e consultare quando se ne avverte la necessità.

Nel capitolo dedicato ai pensieri si evidenziano, in particolar modo, quei condizionamenti familiari, educativi e religiosi, oltre a quelli legati alla percezione del passato, del futuro e del denaro, che ci impediscono di utilizzare il tempo in modo produttivo.

Analogamente in quello dedicato alle emozioni, si pone l’accento su quegli atteggiamenti e stati emotivi controproducenti, come ad esempio il rancore, l’orgoglio, la paura, la rabbia e le illusioni che, se non gestiti in modo consono, possono vanificare tutti i buoni propositi per una trasformazione interiore. Nella parte relativa al corpo, invece, vengono menzionate le più comuni cattive abitudini tipiche del nostro tempo quali, ad esempio, la fretta, la pigrizia e le dipendenze da cibo spazzatura e farmaci di sintesi che, se prese alla leggera e reiterate nel tempo, possono recare seri danni sia a livello fisico che interiore.

Avvalendosi dunque di una importante esperienza personale e professionale, nonché di concetti appartenenti a discipline come la fisica quantistica, la psicologia, le neuroscienze, le tecniche di rilassamento e meditazione, unitamente ad uno stile di scrittura chiaro e scorrevole, Ilaria Marchioni propone una panoramica dell’argomento molto ben articolata ed esaustiva, in grado di offrire al lettore esempi concreti, ottimi spunti di riflessione e suggerimenti che, se applicati in modo costante e consapevole, possono davvero instradare verso la realtà desiderata: “Il tempo è il nostro migliore alleato per vivere la vita che davvero vogliamo. Allora va difeso, protetto, costruito, indirizzato”.

 

 

Titolo: Il prezzo del tempo

Autore: Ilaria Marchioni

Genere: Saggistica

Pagine: 264

Prezzo: 14,90 €

 

 

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‘Nemico, amico, amante’. Lo sguardo profondo e il vitalismo disperato del premio Nobel Alice Munro

Nemico, amico, amante, della scrittrice canadese Alice Munro, premio Nobel per la letteratura 2013, è una raccolta di 9 racconti.

C’è del vitalismo più o meno disperato nei racconti della Munro, che ha un tipo di scrittura che riesce ad aderire alla vita. Coincide, corrisponde perfettamente senza espedienti ed infingimenti. Riesce a coinvolgere il lettore con la sua scrittura. Riesce a parlare con il cuore in mano.

Uno dei maggior pregi nei testi è l’immediatezza, la scorrevolezza. La scrittrice ha uno sguardo profondo e partecipe sulla condizione umana, è una indagatrice della natura umana. Il suo stile è asciutto e impeccabile. Ogni suo racconto è un microcosmo.

Il vitalismo disperato di Alice Munro

Nel primo Johanna riceve delle false lettere d’amore, ingannata da due ragazzine. Va a comprare un abito da sposa e la negoziante è soddisfatta di averglielo venduto perché così per quel giorno ha giustificato la sua esistenza. Tutto ciò fa pensare alla Romana di Moravia secondo cui ognuno è ciò che fa.

La commerciante aveva trovato la sua ragion d’essere, il suo motivo di esistere in una cittadina, che rappresenta qualsiasi mondo concentrazionario. Questa frase della Munro è già di per sé molto  azzeccata ed appropriata perché in America è davvero così: nella società utilitaristica, pragmatica, tutti devono avere un ruolo ben preciso, disegnato (altrimenti si finisce per essere come nella poesia disperata “College all’angolo della via” di Kenneth Patchen, in cui il protagonista non è mai stato niente, nemmeno soldato).

È un dramma in America non fare niente, non occuparsi di niente. La Munro lo esprime molto bene in una sola frase, messa in bocca ad una negoziante in crisi con scarsa clientela.

I racconti: trama e contenuti

Nel racconto “Ponte galleggiante” Jinny, donna sposata e malata di tumore, riesce a ravvivare l’esistenza baciando un ragazzo. In “Conforto” Nina ha una doppia vita e si divide tra il marito padrone e l’amante. Ma forse il racconto che rende meglio l’intensità, il dolore e la drammaticità della vita è “The Bear Came Over the Mountain”, in cui viene descritta la relazione tra un marito ed una moglie, che sta perdendo la ragione.

Viene insomma trattato il tema della demenza senile. E la domande che sorgono spontanee sono che cosa resta della persona dopo l’insorgenza della malattia e cosa resta conseguentemente dell’amore tra i due. Questo racconto ha avuto una trasposizione cinematografica: Away from Her (Lontano da lei), diretto da Sarah Polley.

La Munro  sembra un fiume in piena. I suoi testi non sembrano pensati e ripensati, corretti e modificati. Sembrano tutti pubblicati alla prima o al massimo alla seconda stesura. Se sono stati modificati molto probabilmente ha tolto e non aggiunto perché in questi racconti si tratta di levare più che di battere.

Non bisogna guardare quindi alla forma mentis dell’autore. D’altronde in un romanzo o in una raccolta di racconti non bisogna cercare le congetture filosofiche, le digressioni pseudo-psicanalitiche o le descrizioni di paesaggi o città. Tutto ciò  annoia a lungo termine. Bisogna cercare  invece chi riesce a raggiungere la vita o quantomeno si sforza di farlo.

Tra descrizione e introspezione

Alice Munro riesce a descrivere gli eventi, a riportare casomai le conversazioni e a narrare gli stati d’animo nel modo più realistico possibile. Allo stesso tempo dimostra di avere una invidiabile capacità introspettiva.

La scrittrice canadese forse era così vitale ed esuberante con la penna perché nella realtà la loro vita sfuggiva loro di mano. Forse è questo il motivo: nella realtà non era assolutamente padrona della sua vita, che forse sembrava seguire logiche ed automatismi inspiegabili. D’altronde tutto questo è comprensibile perché il vitalismo è sempre stato contrapposto al meccanicismo.

La Munro è  intellettuale, lucida e sobria. Il suo vitalismo non è fittizio ma è sempre autentico. Non c’è niente di posticcio. Un’altra cosa che mi piace della Munro è che non si è messa a studiare la vita in modo calcolatore e a tavolino ma sembra perfettamente che si sia messa a narrare in modo occasionale. Sembra che abbia vissuto le sue peripezie e ogni tanto abbia fatto una pausa tra una fatica ed un’altra per annotarla sul suo taccuino.

I drammi quotidiani

La scrittrice ci racconta la  vita quotidiana con i suoi drammi ed allo stesso tempo non crea altre realtà: è testimone Impareggiabile delle sua epoca, restituisce senza sconti e senza finzioni la cruda verità umana.

Dramma dopo dramma purtroppo l’esistenza diventata tragedia. La vita sembra scorrere tranquilla fino all’evento irreparabile, al guasto irreversibile. È questo forse il messaggio. La Munro riesce a narrarlo magistralmente nelle più svariate sfaccettature. Riesce a fornirci una visione altra della vita, che  erompe dal contingente. Tutto questo non è poco. Anzi è merce rara in un libro di narrativa.

I romanzi per molti hanno una sovrastruttura intellettuale e un intreccio che i racconti non avranno mai. Per molti i romanzi comprendono una maggiore cura nel descrivere ambienti e personaggi, soprattutto nel delineare la psicologia dei personaggi.

Il racconto come romanzo in miniatura

Ogni racconto della Munro invece è un romanzo in miniatura. Lo scrittore Aldo Busi spesso ha dichiarato che in Italia esistono molti poeti, molti scrittori di racconti ma pochi sono i veri romanzieri. Molti artisti secondo Busi sarebbero dei romanzieri mancati.

Il romanzo, facendo queste considerazioni, sarebbe quindi più complesso di una raccolta di racconti: più complesso da scrivere, da leggere, da analizzare, da recensire. Necessiterebbe di una sovrastruttura e di una architettura. Ma poi ne siamo così sicuri? Ad esempio “Casa d’altri” di Silvio D’Arzo (pseudonimo) che cosa è esattamente? Un racconto lungo? Un romanzo breve? Un ibrido particolarissimo? Una eccezione che conferma le regole suddette? Ai letterati e ai critici letterari l’ardua sentenza.

Ma perché disprezzare il racconto? Perché considerarlo un genere minore? Non suscita forse emozioni? Non fa scaturire riflessioni e pensieri? Una raccolta di racconti fantastici non può trattare di universi paralleli come un romanzo di fantascienza? Una raccolta di racconti non può forse essere una opera aperta? Non può essere una opera di avanguardia? Non può trattare tematiche importanti? Non può far vedere le cose da una prospettiva insolita? Non ci vuole forse anche una certa abilità nello scrivere racconti?

La questione romanzo

Inoltre c’è anche chi sostiene che il romanzo non abbia più un senso. Già le avanguardie avevano decretato la morte del romanzo. Secondo Milan Kundera la morte del romanzo è già avvenuta e nessuno ne è rimasto colpito o scandalizzato.

Il romanzo secondo il famoso scrittore rappresenta la complessità del mondo e dell’esistenza; i mass media che invece dominano il pianeta tendono a dare una visione univoca e ipersemplificata della vita. In buona parte dei casi il racconto probabilmente è una storia breve.

Uno dei maestri indiscussi del racconto nel novecento è R. Carver. Naturalmente i racconti fantastici di Borges sono esemplari. Ma sono particolari: anzi, unici nel loro genere. Sono però da leggere anche i racconti di Beckett e di Salinger (“I nove racconti”).

In Italia invece i grandi scrittori di racconti sono Dino Buzzati (“I sessanta racconti), Cesare Pavese (“Feria d’agosto”, “Fallimenti”), Silvio D’Arzo (“L’aria della sera e altri racconti”), Giorgio Manganelli (“Centuria”), Del Giudice (“Il museo di Reims”), Italo Calvino (“Ultimo viene il corvo”), Antonio Delfini (“Il ricordo della Basca”), Tommaso Landolfi.

Discorso a parte merita Silvio D’Arzo, molto stimato dalla critica letteraria e anche da Montale, che in vita pubblicò solo tre libri senza alcuna gloria e fu un anonimo professore. Morì a soli trentadue anni.

Ritornando alla Munro, sicuramente va letta assieme agli scrittori sopracitati. Purtroppo però il Nobel alla Munro, che è una delle migliori scrittrici del mondo di racconti brevi, non ha determinato una ripresa della lettura e quindi un aumento di vendite di raccolte di racconti in Italia.

In Italia il genere dei racconti è considerato frutto di una arte minore. Un pregiudizio che porta anche le case editrici a pubblicare poche raccolte di racconti, di solito solo di autori già affermati.

 

Di Davide Morelli

 

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