La scomparsa di Babbo Natale e il regno della realtà-la frase ‘shock’ del direttore d’orchestra Loprieno

Scandalo, eresia, vergogna, presa di distanze. Sono queste le conseguenze della frase “Babbo Natale non esiste” del direttore d’orchestra Giacomo Loprieno rivolte alla platea di genitori e bambini accorsi numerosi all’Auditorium di Roma  il 29 dicembre scorso per lo spettacolo “Disney in Concert: Frozen”. La prima conseguenza di questo atto è stata il licenziamento in tronco del cinico direttore, a cui è seguita una presa di distanze da parte degli organizzatori.

La cosa più triste dell’intera vicenda è che è vera. Non è stata partorita dalla mente di qualche scrittore o da autori della Disney, e ha trovato un amplificatore formidabile nei social che per queste vicende si dimostrano uno strumento impagabile. Uno shock che ha destabilizzato tutti i genitori che, educando i propri figli nel rispetto dell’altro e in una spiritualità degna di un asceta, hanno trovato l’uscita del direttore assolutamente inaccettabile.

Babbo Natale non esiste, e non esistono neanche le regole del rispetto verso chi è costretto pur di lavorare a mettersi al servizio di una platea indisciplinata e per niente avvezza alla musica e che abbandona la sala prima della fine per evitare file e code. Babbo Natale non esiste e lo spirito del Natale anzichè essere una rinascita viene raccontato come la festa del consumismo in cui molti bambini che hanno tutto pretendo di avere dell’altro.

Babbo Natale non esiste e non esistono neanche le guerre e le ingiustizie che vengono risparmiate ai bambini perchè, si sa, le bruttezze del mondo bisogna nasconderle alle orecchie innocenti.

Babbo Natale non esiste e non esiste neanche il rispetto verso gli adulti e verso gli insegnanti perchè è ormai risaputo che la scuola deve svolgere solo in ruolo di baby sitter e non si può pretendere nulla dai bambini.

Babbo Natale non esiste e non esistono neanche le bellezze della natura perchè uno schermo può sostituire ogni cosa e la fantasia è importante specie se stimolata da strutture rigide e preimpostate. Babbo Natale non esiste e non esistono più i sogni perchè ormai sono omologati alla logica del consumismo.

Povero direttore, che errore urlare una verità a chi vive nell’illusione che tutto vada bene.

La necessità del Natale di Brecht e la premessa alla corretta lettura dei Vangeli

«Oggi siamo seduti, alla vigilia / di Natale, noi gente, misera / in una gelida stanzetta, / il vento corre di fuori, / il vento entra. / Vieni, buon Signore Gesù da noi, volgi lo sguardo: / perché Tu ci sei davvero necessario». Era Bertolt Brecht, apparentemente così lontano dal cristianesimo, a ricordare, in una delle sue poesie degli anni 1918-’33, questa “necessità” autentica e profonda del Natale di Cristo per gli ultimi della terra e per tutti i “poveri” (spesso tali non solo a livello sociale). Per comprendere l’evento radicale e “necessario” dell’Incarnazione il cristiano si rifà alla lettura e all’interpretazione di alcune pagine di quei quattro capitoli dei Vangeli di Matteo e Luca, due per ciascuno, che totalizzano 180 versetti e che hanno ricevuto la tradizionale titolatura di “Vangeli dell’infanzia di Gesù”. Tuttavia, per approcciarsi correttamente alla lettura di questi versetti è necessario fare una premessa di metodo.

Premessa ai Vangeli: due itinerari opposti

Nella mentalità semitica c’è un modo di esprimersi simbolico che gli studiosi hanno chiamato “polarismo”: se io colgo i due poli di una sfera, riesco a sollevarla e a reggerla. Nascita e morte, Vangeli dell’infanzia e Vangeli della Pasqua sono stati il “polarismo” della vita di Gesù e della predicazione della Chiesa. Agli inizi del cristianesimo, nella meditazione sull’incarnazione natalizia e sulla risurrezione pasquale si raccoglieva sinteticamente tutto l’annuncio salvifico cristiano. Per questa ragione i due mini-Vangeli non sono tanto una folcloristica sequenza di scene orientali, di sentimenti delicati, di vicende familiari e classiche riguardanti il delizioso “Bambino di Betlemme” a cui anche l’arte sacra ci ha abituati; sono invece un primo canto al Cristo glorioso la cui apparizione nel mondo è già il compendio cifrato e decifrabile della salvezza che egli ci porta.

Si tratta, quindi, di un racconto storico carico di immagini e di segnali simbolici ma anche e soprattutto carico di teologia. In pratica queste due narrazioni, parallele ma autonome, sono dirette dalla fede in Cristo e dirigono la fede in Cristo di chi le medita. Al centro, infatti, non c’è una dolce e drammatica storia familiare ma il mistero fondamentale del cristianesimo, l’Incarnazione, la Parola nelle parole, Dio nella tenda della “carne” fragile dell’uomo. “I due mondi da sempre separati, il divino e l’umanoscriveva il filosofo danese Soeren Kierkegaardsono entrati in collisione in Cristo. Una collisione non per un’esplosione ma per un abbraccio”.

Proprio per questa densità teologica i due libretti evangelici dell’infanzia sono difficili, sono tutt’altro che pagine per bambini, come ancora qualcuno sospetta. Sotto la superficie smaltata dei colori, dei simboli, delle narrazioni, si apre un testo che è simile ad una cittadella ben compatta e armonica di cui bisogna possedere la mappa per raggiungerne il cuore. È necessario avere una “attrezzatura” interpretativa per entrare correttamente in queste pagine, attrezzatura che è offerta da una bibliografia sterminata. Gli interrogativi sono molteplici, di ordine letterario, storico, teologico. Pochi sanno, ad esempio, che l’ultimo libro ad essere messo all’Indice, prima dell’abolizione di questa prassi, fu una Vie de Jésus (1959) di un noto biblista francese, Jean Steinmann, proprio a causa del capitolo dedicato ai Vangeli dell’infanzia.

Due sono le sponde da evitare. La prima è quella storicistica o apologetica. È visibilissimo anche in superficie che queste pagine sono differenti da quelle che compongono il resto dei Vangeli; il loro nucleo storico di eventi è avvolto in un velo di interpretazioni, di approfondimenti, di rielaborazioni teologiche, di simboli, di allusioni bibliche (donde le diverse catalogazioni degli esegeti: racconto omiletico cristiano, storia simbolica, storia popolare, e così via). Sono ardui e spesso vani, allora, gli sforzi di quelli che vogliono dimostrare e documentare storicamente ogni asserto. Solo per fare un esempio, pensiamo allo spreco di energia esegetica e scientifica che ha causato la stella dei Magi: c’era chi ricorreva, come Keplero, a una “nova” o “supernova”, cioè a una di quelle stelle deboli e lontane che improvvisamente, per settimane o mesi, crescono in intensità visiva a causa di un’esplosione colossale interna; c’era chi si affidava alla cometa di Halley (apparsa però nel 12-11 avanti Cristo) chi ipotizzava una congiunzione Giove-Saturno, e così via.

C’è, tuttavia, un’altra sponda da evitare ed è quella mitico-allegorica. In questa prospettiva il testo è solo un “pretesto” per illustrare tesi cristologiche o per rivestire di consistenza fantasie popolari o per rielaborare miti antichi oppure per suscitare emozioni spirituali e morali. Va in questa direzione quella melassa religiosa, sentimentale, infantilistica che è versata a piene mani su queste pagine da un certo “clima natalizio”, complice il consumismo interessato. I Vangeli dell’infanzia, invece, sono testi per adulti nella fede, i cui segreti storici e teologici si aprono solo a chi vuole comprendere autenticamente le Scritture. Al centro c’è un uomo e quindi una storia che è l’antipodo del mito. Un uomo reale, segnato dalle frontiere del tempo che si chiamano nascita e morte. Un uomo come tutti, contrassegnato da una sua identità spaziale, culturale, temporale e linguistica. Ma su questo uomo si proietta la luce della Pasqua e del mistero. Un uomo, allora, diverso da tutti perché il suo tempo cela in sé l’eterno, perché il suo spazio abbraccia ogni altezza, larghezza e profondità, perché le sue parole non tramonteranno mai, perché le sue opere non sono sue ma di Dio stesso, perché il suo amore è infinito, perché la sua nascita modesta è rivelazione cosmica, perché la sua morte è vita per tutti.

 

Fonte: Il Natale secondo i Vangeli canonici dell’infanzia-Mons. Ravasi

Riflessioni: Il Natale religioso e laico, tra Moravia e il Vangelo di Luca

Qual è il vero significato del Natale? Probabilmente per molti non ha alcun significato, per gli atei e gli agnostici, anche se alcuni di loro considerano importante e rivoluzionaria la figura di Gesù in quanto personaggio storico, umano, non divino, alla stregua di Buddha o di un qualsiasi guru New Age, ma si potrebbe provare a fare un discorso laico riguardo al Natale cercando di liberarlo delle incrostazioni consumistiche e festaiole.

Nel portare avanti un discorso di questo tipo ci viene in soccorso l’incipit di un articolo sul Natale di Alberto Moravia, che non è stato di certo un fervente cattolico, e he a qualcuno potrebbe suonare troppo moralistico:

Il Natale odierno mi fa pensare a quelle anfore romane che ogni tanto i pescatori tirano fuori dal mare con le reti, tutte ricoperte di conchiglie e di incrostazioni marine, che le rendono irriconoscibili. Per ritrovarne la forma, bisogna togliere tutte le incrostazioni. Così il Natale. Per ritrovarne il significato autentico bisognerebbe liberarlo da tutte le incrostazioni consumistiche, festaiole, abitudinarie, cerimoniose.

A queste parole aggiungiamo quelle di un cardinale e uomo di grande cultura, Monsignor Gianfranco Ravasi, biblista, ebraista e teologo, presidente della “Casa di Dante in Roma”, riportate qualche anno fa su verdementablog, ma che sono sempre valide, per ogni Natale che ci accingiamo a trascorrere:

Certo, il rituale laico di questa festa cristiana è spesso analogo ai cine-panettoni e ha come emblema luci al neon e vetrine colme. Tuttavia non si può ignorare che ora molta gente fatica persino ad allestire un pranzo natalizio degno di questo titolo. E allora l’omelia potrebbe continuare lasciando la parola a un vero predicatore, papa Francesco, con l’incisività delle sue parabole sulla povertà. È lui, infatti, più di tanti politici, a far risuonare il ruggito della fame del mondo, a scrivere nel suo ultimo testo Evangelii gaudium  pagine roventi sulla necessità dell’inclusione sociale dei poveri e sulla pace e il dialogo sociale, a scendere fino a Lampedusa per incontrare le nuove famiglie di Betlemme profughe come quella del neonato Gesù e a invitare tutti noi a trasferirci dai centro-città festosamente illuminati alle squallide periferie. A proposito di periferie, continuerei allora la mia predica più o meno laica  con una testimonianza personale. Quand’ero giovane prete, studente a Roma, mi recavo a visitare gli infermi di una parrocchia di Torpignattara. C’era un anziano che mi accoglieva sempre con gioia, mi preparava il caffè, mi tratteneva il più possibile. Quando dovetti salutarlo per l’ultima volta perché rientravo a Milano, mi disse sconsolato: <<Lei non sa cosa vuol dire non attendere più nessuno>>. Quante persone nel giorno di Natale sono come lui, sole, dimenticate, davanti a un telefono che non squilla perché non c’è più nessuno che si ricorda di loro e al massimo possono parlare solo coi loro cari morti.

Del resto Voltaire diceva che le prediche sono come la spada di Carlo Magno, lunghe e piatte, perché i predicatori quello che non sanno darti in profondità ti danno in lunghezza. Monsignor Ravasi conclude con una provocazione:

Anche quest’anno il Natale ha nel mondo la solita presenza di Erodi e di innocenti sgozzati. Lascerò ai lettori di riflettere su un aneddoto che mi ha raccontato l’ambasciatore di Israele presso la Santa Sede e che può essere sia una rappresentazione della storia umana sia un amaro esame di coscienza collettivo. Anni fa, in visita allo zoo biblico di Gerusalemme fu condotto Henry Kissinger, Segretario di Stato di Nixon. Egli rimase stupefatto di fronte a un leone accovacciato davanti a un agnello che brucava pacificamente. Si era forse avverata la profezia messianica di Isaia secondo la quale il leone si sdraierà accanto all’agnello in perfetta armonia? «No replicò il direttore dello zoo in verità noi sostituiamo ogni giorno un nuovo agnello…!».

 

Il Natale cristiano non è una stucchevole favoletta

Ma tornando al Natale religioso, cristiano, come è possibile cercare trasmettere a tutti, cattolici compresi, lo spirito genuino del Natale di Gesù bambino? In primis spogliandolo dei rivestimenti retorici e fantasiosi che lo rendono una favola mielosa e stucchevole, adatta solo a costruire presepi.

Partiamo da un dato topografico, come ci suggerisce Mons. Ravasi. La tradizione cristiana, sostenuta da San Girolamo che vivrà per decenni a Betlemme, parlerà di una grotta simile a quelle adiacenti alle povere case di allora. Giovanni era nato nella casa sacerdotale del padre, Cristo nasce nell’emarginazione, privo di un guanciale. Eppure nel racconto di Luca c’è un particolare sottolineato con tenerezza: Maria «avvolse il bambino in fasce e lo depose nella mangiatoia» (v. 7). Del Battista si dice soltanto: «Per Elisabetta si compì il tempo del parto e diede alla luce un figlio» (1,57).

Il secondo dato da considerare è quello “temporale”. Esso è scandito dalle ore dell’imperatore Ottaviano Augusto (31 a.C.-14 d.C.) ed è precisato da Luca con l’indicazione del famoso “primo censimento”, ordinato dal legato di Siria Quirinio. Non è il caso ora di entrare nel merito della secolare discussione su questa informazione che apparentemente sembra errata, essendo documentato solo un censimento di Quirinio del 6 d.C., quando Gesù aveva ormai dodici anni. È probabile che si tratti di una “prima” operazione censuale, ordinata durante un incarico straordinario ricoperto da Quirinio prima di essere formalmente nominato legato di Siria. Vogliamo solo ricordare che con questi dati appare nitidamente il valore dell’incarnazione, cioè dell’ingresso di Dio negli eventi e nel tempo umano. Efrem il Siro unirà i due estremi del parto da Maria e della morte in croce per esaltare l’incarnazione nella sua realtà: <<La sua morte in croce attesta la sua nascita dalla donna. Infatti se un uomo muore, dev’essere pure nato>> Perciò la concezione umana di Gesù è dimostrata dalla sua morte in croce. Il censimento romano, segno di schiavitù, ci ricorda che Cristo nasce da un popolo oppresso e in mezzo a quei poveri che i potenti considerano pedine insignificanti sullo scacchiere dei loro giochi politici. Esattamente come oggi, basti pensare a chi giovano le guerre, i flussi migratori, la povertà, la fame, le malattie.

Il Natale nel vangelo di Luca senza retorica e sentimentalismi

Prendiamo allora nel dettaglio i versetti del Vangelo di Luca relativi alla nascita di Gesù (2,1-14) per comprendere il vero significato di quello che vuol dire l’evangelista, che ci trasmette una verità teologica:

In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra. Questo primo censimento fu fatto quando Quirinio era governatore della Siria. Tutti andavano a farsi censire, ciascuno nella propria città. Anche Giuseppe, dalla Galilea, dalla città di Nàzaret, salì in Giudea alla città di Davide chiamata Betlemme: egli apparteneva infatti alla casa e alla famiglia di Davide. Doveva farsi censire insieme a Maria, sua sposa, che era incinta. Mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto nell’alloggio. C’erano in quella regione alcuni pastori che, pernottando all’aperto, vegliavano tutta la notte facendo la guardia al loro gregge. Un angelo del Signore si presentò a loro e la gloria del Signore li avvolse di luce. Essi furono presi da grande timore, ma l’angelo disse loro: «Nontemete: ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore. Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia». E subito apparve con l’angelo una moltitudine dell’esercito celeste, che lodava Dio e diceva: «Gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini, che egli ama».

Mentre il potere si divinizza per sottomettere gli uomini, Dio si umanizza per salvarli: questo  il  messaggio della notte di Natale che la chiesa ha scelto con il vangelo di Luca.

A quel tempo un decreto di Cesare Augusto”, (si tratta di Ottaviano che è il primo che ha assunto come appellativo “Augusto”,  cioè  “degno  di  venerazione), ordinò  che  si  facesse un censimento di tutto l’Impero, per riscuotere le tasse. Il censimento, nella Bibbia, veniva sempre visto come un attentato contro Dio, perché Dio era il Signore della terra e degli uomini. Dunque Luca vuole trasmettere non tanto una verità storica, quanto una verità di fede. C’è dunque un’usurpazione e il movimento degli zeloti è nato come resistenza a queste forme di censimento. In questo contesto Luca scrive che “Dalla Galilea, dalla città di Nazaret, salì in Giudea alla città di Davide”, e che “La città di Davide è chiamata Betlemme”, ciò meraviglia perché nella Bibbia la città di Davide è sempre stata Gerusalemme, non Betlemme, dove Davide era pastore, a Gerusalemme era re; dunque Luca vuol far comprendere che colui che sta  pernascere  non  avrà  i  tratti  del  monarca, ma i tratti del pastore. Ma ecco un’altra sorpresa: “Giuseppe doveva farsi censire insieme a Maria sua sposa”. Il matrimonio ebraico si divideva in due parti: la prima, lo sposalizio, e la seconda, le nozze. Qui abbiamo una coppia rimasta alla prima fase del matrimonio, il termine sposa destava grande scandalo nella comunità cristiana primitiva, che nel IV secolo venne  sostituito con “moglie”, perché altrimenti sembrava una coppia irregolare. Maria e Giuseppe erano dunque una coppia di fatto. Da evidenziare anche un’altra novità: lo stesso nome Maria nell’Antico Testamento era un nome maledetto da Dio, mentre Dio nel Nuovo Testamento si rivolge proprio ad una donna (nell’A.T. la donna era un essere impuro, inferiore persino al bestiame, nonché una disgrazie per la famiglia) di nome Maria.“Mentre si trovavano in quel luogo si compirono per lei i giorni del parto”: purtroppo la tradizione ha un po’ travisato il messaggio dell’evangelista. Il percorso da Nazaret a  Betlemme veniva fatto a piedi e una donna gravida non poteva certo percorrere quel tragitto. Quindi sono arrivati quando Maria ancora poteva permettersi tutto quel viaggio. “Diede alla luce il suo figlio primogenito”: il primogenito” è il figlio maschio primogenito che va consacrato secondo quanto prescrive un libro dell’Esodo; dunque Gesù è sacro al Signore.

“Lo avvolse in fasce”, il  dettaglio delle fasce è un richiamo al libro della Sapienza per indicare che Gesù nasce come tutti. “E lo pose in una mangiatoia”, anche la mangiatoia è un richiamo al profeta Isaia, il quale dice che “il bue riconosce il suo proprietario e l’asino la mangiatoia del suo padrone, ma Israele non conosce e il mio popolo non comprende”. Attraverso questi richiami Luca vuol far capire che Gesù, come venne tra i suoi, ma i suoi non l’hanno accolto, non l’hanno riconosciuto. “Perché per loro non c’era posto …”.  Anche su questo verso si commettono errori: in passato l’errata traduzione del termine greco con “albergo”, diede origine alla storia di Maria e Giuseppe che non trovavano posto. “Non c’era posto nell’alloggio”. L’abitazione palestinese era fatta in questa maniera: c’era una parte scavata nella roccia che è la parte più  sana, più sicura, più pulita, dove venivano conservati i generi alimentari e dove c’era la mangiatoia, poi una parte in muratura, un’unica stanza, dove avveniva tutta la vita della famiglia. Quando  però una donna partorisce, secondo il libro del Levitico, è impura, quindi tutto quello che tocca,  o le persone che avvicina, diventano impure e non può stare lì. Ecco perché non c’è posto per lei lì nell’alloggio e deve andare nella parte interiore. “C’erano in quella regione alcuni pastori”. Quando l’evangelista ci presenta i pastori, non intende raffigurarci i bei personaggi del nostro presepe. A quell’epoca, prescrive il Talmud, nessuna condizione al mondo è disprezzata come quella del pastore. I pastori, lontani dalla società civile, non erano pagati, vivevano di furti, non avevano diritti civili. Non potendo andare in sinagoga o al tempio per purificarsi, erano l’emblema, l’immagine del peccatore impuro. Per loro non c’era salvezza. Ebbene, quando verrà il messia, questi pastori, insieme ai pubblicani, saranno i primi della lista ad essere eliminati.

Scrive l’evangelista che “Un angelo del Signore”, è  la terza volta che compare questo personaggio. Per “angelo del Signore” non si intende mai un angelo inviato dal Signore, ma è Dio stesso quando comunica con gli uomini. Quindi la formula “angelo del Signore”, sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento, indica sempre il Signore quando entra in relazione con gli uomini; è la terza volta che appare, e sempre in relazione alla vita. La prima volta per annunziare la vita di Giovanni al padre, a Zaccaria; la seconda per annunziare la vita di Gesù a Maria e adesso il Salvatore ai pastori. “Si presentò a loro”. Questo angelo del Signore veniva rappresentato, nell’Antico Testamento, con la spada sguainata, pronto a castigare i peccatori. Ebbene, quando Dio si presenta di fronte ai peccatori, non li minaccia, non li castiga, non li fulmina, ma, ecco la novità, è la Buona Notizia di Gesù, “La gloria del Signore li avvolse di luce”. Luca smentisce tutta la teologia preesistente, di un Dio che giudica, che minaccia o che castiga. Quando Dio si incontra con i peccatori non fa altro che avvolgerli con la sua luce, la luce del suo amore. Ma i pastori non lo sanno, e infatti, scrive l’evangelista “sono presi da grande timore”, perché sapevano quello che li aspettava. Ma l’angelo disse loro: “Non temete: ecco, vi annuncio una grande gioia”; la grande gioia della Buona Notizia scaccia il grande timore. E qual è la grande gioia? Che nella città di Davide è nato per voi non un castigamatti, ma il Salvatore.

Solo i Vangeli di Matteo e Luca trattano la nascita di Gesù, in maniera differente ma comunicando le stesse verità teologiche. Ripartiamo da qui e dalle riflessioni di Moravia e di Mons. Ravasi, se si vuol vivere un Natale autentico, all’insegna della condivisione, perché no, del relax, del sano divertimento, senza farsi inghiottire dall’atmosfera festaiola e dal vortice del consumismo e senza dimenticare quello che accade intorno a noi.

 

 

 

 

 

 

Dopo il Jobs Act il ministro Poletti scivola sulla ‘fuga dei cervelli’

L’Italia non è un Paese per giovani, e questo è un dato di fatto ormai consolidato, ma non è neanche un Paese per laureati, per pensionati e per chi vorrebbe un futuro semplicemente dignitoso. Dopo le polemiche sulla ministra Fedeli ed i suoi titoli di studio, il neo Governo Gentiloni si confronta con l’ennesima gaffe di Giuliano Poletti, confermatissimo ministro del lavoro dopo la gloriosa, si fa per dire, esperienza renziana.

Archiviato il fallimento del Jobs Act che segna il trionfo assoluto dei voucher, di cui da gennaio ad ottobre si venduti ben 121,5 milioni di unità, il perito agrario alla guida del dicastero del lavoro anziché studiare le strategie per contrastare la disoccupazione giovanile al 37,9%, non trova di meglio da fare che prendersela con i cervelli in fuga.

Continua, infatti, l’esodo dei giovani, in particolare con alto grado di istruzione, che cercano al di fuori dei confini italici un futuro dignitoso. Anche perché chi rimane, in particolare se laureato, deve fare i conti con stipendi molto spesso ridicoli a fronte di una formazione eccellente. Come del resto è vero anche che non tutti i laureati che vanno via dall’Italia siano dei geni e quelli che rimangono siano poco validi.

Forse è arrivato il momento di introdurre oltre all’Invalsi un indicatore che sia in grado di quantificare la qualità della vita di un laureato che, pur lavorando, non riesce ad arrivare alla fine del mese. Non si riesce a comprendere, infatti, l’ansia da prestazione del Governo sul numero di laureati che ogni anno escono dalle università. Verrebbe da chiedere semplicemente perché. Forse esistono segreti algoritmi indecifrabili oppure, molto più semplicemente, siamo alla riprova di una classe politica che non ha la minima cognizione di cosa sia la vita reale.

E così, mentre alcuni ministri inventano fantasiosi titoli di studio, molti giovani sono costretti a nascondere le proprie lauree per non incappare nel rischio di essere esclusi in lavori assolutamente sottodimensionati rispetto alle loro competenze.

L’unico ascensore sociale funzionante è quello della politica e lo sa bene Poletti che, dopo una lunga carriera nelle segreterie dei partiti, si ritrova a dover districare un problema che è assolutamente fuori dall’agenda del suo governo.

Non si pretendono soluzioni, la fantasia non arriva a tanto, ma quanto meno un dignitoso silenzio non guasterebbe.

Librerie: cronaca di una morte annunciata nell’indifferenza generale

Verrebbe da dire, parafrasando il grande Ennio Flaiano, che la situazione è grave ma per niente seria. Così, quando l’Associazione Italiana Editori (AIE) ha presentato alla Fiera Nazionale della Piccola e Media Editoria i risultati di un’indagine sulla presenza delle librerie in Italia, nessuno è rimasto sorpreso nel constatare la drammaticità della situazione.

687 comuni con più di diecimila abitanti non ha librerie e, neanche a dirlo, la concentrazione più alta di questo dato molto poco lusinghiero si ha nelle cittadine meridionali, nelle isole e nel nordest. Dati allarmanti che sottolineano ancora una volta la fragilità del sistema editoriale italiano. Se da un lato il numero dei lettori cala con percentuali crescenti ogni anno, dall’altro aumenta il numero di proposte editoriali immesse sul mercato, ignorando le più elementari leggi della domanda e dell’offerta.

In questi giorni si stanno consumando sui media i processi mediatici con analisi, testimonianze e accuse da parte dei librai costretti molte volte a chiudere le proprie attività perché incapaci di sostenere i costi di gestione di una impresa troppo spesso antieconomica.

Tra gli indiziati numero uno ci sono gli shop online, Amazon in testa, che possono garantire prezzi più vantaggiosi ai consumatori che, senza scomodarsi dalle proprie poltrone, ricevono sulle proprie scrivanie i titoli ricercati.

L’accusa è più che legittima, ma nasconde il vero problema. Chi compra il proprio libro online è, con buona probabilità, un lettore abituale e appartiene quindi ad uno spicchio di quel 42% di Italiani che dichiara di aver letto almeno un libro nell’ultimo anno. Circa 6 italiani su 10 non leggono neanche un volume in 365 giorni. Numeri da paese incivile che non sembrano destare preoccupazione se non correlati direttamente a fattori di carattere economico.

Eppure tra quei dati c’è un elemento sorprendente: la quota di lettori risulta superiore al 50% nella popolazione tra gli 11 e i 19 anni, il che lascia intuire che in moltissimi casi “non lettori” si diventa e che spetta alle agenzie formative intervenire sugli studenti perché continuino nel loro cammino virtuoso.

A questo punto però si entra in un terreno minato perché i problemi diventano molteplici e giocano un ruolo determinante gli insegnanti che in alcuni casi, per la legge dei grandi numeri, appartengono a quel 58% che non legge. Cosa accade? Che influenza hanno le imposizioni di letture? Perché i ragazzi si disaffezionano al libro?

Sono tutti interrogativi senza risposta che si intersecano con una istituzione scolastica che è sempre meno orientata verso la cultura e mira a qualcosa di diverso, a dire il vero, poco definibile. I ragazzi, dal canto loro, sono costretti a un carico eccessivo di impegni che sottraggono tempo prezioso alla loro ricerca individuale e alla lettura che, inevitabilmente, viene percepita come evasione impegnativa che può essere soppressa.

I docenti che lottano per diffondere i libri devono poi scontrarsi con la carenza endemica delle biblioteche scolastiche, con librerie che spesso contengono titoli datati con nessun appeal per i giovani lettori, e che, come riportato nell’indagine degli editori, condannano circa 3,5 milioni di studenti a convivere nelle proprie scuole con un patrimonio librario inferiore alla media o in alcuni casi del tutto assente.

D’altro canto la Buona Scuola incentiva la creazione di inutili e presto obsolete aule digitali diffondendo nei ragazzi la certezza che il libro e la conoscenza appartengano al passato. E così le librerie muoiono, la cultura langue e i grandi editori cercano, senza una vera politica editoriale, colpi sensazionalistici capaci di catturare i lettori da 1 libro all’anno comprendendo, loro sì, che la vera fascia di mercato da conquistare non è quella dei lettori forti.

Riforma costituzionale: un referendum pensato male e proposto peggio

Si comincia a discutere sulle regole quando le cose non vanno e non si ha la forza – il coraggio, l’intelligenza – di confrontarsi di più sulle idee. Il referendum del 4 dicembre è diventato nel corso di quest’anno l’espressione evidente di un paradosso politico: di fronte a una disaffezione sempre più clamorosa per i partiti e per tutti i cosiddetti corpi intermedi, si è pensato di mettere in scena un derby sulla costituzione, con una mobilitazione di massa che forse avrebbe meritato migliori cause.

Dallo ius soli alla riforma delle carceri, dalla legalizzazione della cannabis all’introduzione del reato di tortura, ci sono tantissimi temi su cui lo spirito riformatore di questo governo si è dimostrato molto meno innovativo di quanto continua a dichiarare a parole, senza contare che anche quelle riforme su cui ha investito di più – come il jobs act o la Buona scuola – stanno rivelando, già dopo un anno, tanti dei limiti di efficacia che ne evidenziavano i loro critici.

Matteo Renzi è anche riuscito a imporre una separazione del campo politico in un modo inedito rispetto alla polarità della seconda repubblica – ossia centrosinistra versus centrodestra – e l’ha fatto usando una consultazione che avrebbe dovuto provare invece a unire ideologie contrapposte.

Questo referendum nei fatti è un’elezione politica: da una parte è schierato il Partito democratico di fede renziana e qualche partitino che appoggia questo governo (l’Ala di Denis Verdini e l’Ncd di Angelino Alfano), dall’altra una compagine articolatissima (minoranza Pd, buona parte della sinistra parlamentare ed extraparlamentare, quel che resta di Scelta civica, la Lega, il Movimento 5 stelle).

La divisione è anche nella società: per esempio Confindustria e Cgil hanno fatto dichiarazioni di voto opposte, la prima schierandosi per il sì e la seconda per il no.

Referendum: contestazioni di metodo

Così qualunque sarà l’esito del 4 dicembre, le sue conseguenze renderanno eclatante quanto non sia stata una buona idea politicizzare e rendere così divisivo un referendum costituzionale.

È sicuro che la disinvoltura – diciamo l’azzardo – di Matteo Renzi sia stata evidentemente calcolata: il proposito di legittimare il suo governo attraverso tre eventi che sono diversi da un’elezione parlamentare. Ed ecco che abbiamo avuto la vittoria alle primarie del Pd, poi il voto europeo e ora il referendum. E le voci che suggeriscono le sue eventuali dimissioni in questa settimana confermano solo questa idea pokeristica del potere renziano.

Questa è la prima contestazione di metodo che si può fare; è pure vero che se il sì dovesse perdere con una percentuale significativa – per esempio il 40 per cento – da un punto di vista del consenso nei confronti di Renzi sarebbe addirittura un risultato comunque alto.

La seconda contestazione di metodo è la speciosità di un quesito che sulla scheda è posto in modo molto netto e accattivante, ma che non riflette la complessità e certe ambiguità del testo della riforma. Ci sono state parecchie obiezioni su questo punto – addirittura ricorsi. Si può citare un giurista di valore come Luigi Ferrajoli sul tema: “Questa lettura e questa conoscenza saranno impedite ai cittadini dal quesito ingannevole e accattivante su cui saranno chiamati a votare, trasmesso ossessivamente in televisione e perciò in grado di compromettere l’autenticità del voto: ‘Approvate… il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi’ della politica e altre piacevolezze. I contenuti della legge sono infatti, come i pochi informati ben sanno, assai più gravi e certamente diversi. […] Ciò su cui i cittadini voteranno non è il titolo della legge di revisione, ma le norme in essa contenute”.

La fine del bicameralismo perfetto lascia davanti a sé un vuoto normativo e politico

Un terzo elemento distorsivo – di metodo anche questo – è il testo confuso della riforma. Si deve votare sì o no avendo davanti un testo con molti elementi disomogenei: si potrebbe essere in disaccordo, per dire, sulla diminuzione del numero dei senatori, ma d’accordo sulla revisione del titolo quinto. È abbastanza lampante che il referendum propone delle modifiche strutturali che rendono davvero impegnativo farsi un’opinione sulle conseguenze per la vita democratica futura dell’Italia (la riforma del senato, appunto), e altre modifiche più marginali (la soppressione del Cnel, per esempio) che si potevano ottenere con l’azione legislativa del parlamento, se il governo avesse lavorato per costruire una maggioranza più ampia, quella dei due terzi necessaria per non indire il referendum.

Un quarto elemento di ambiguità di questo referendum – sempre di metodo parliamo – è che la fine del bicameralismo perfetto, o paritario che dir si voglia, lascia davanti a sé un vuoto normativo e politico e i promotori della riforma non hanno proposto molto per colmarlo. Al senato resteranno alcune prerogative legislative (secondo il comitato del sì si tratta di nemmeno il 3 per cento delle leggi), il che induce alcuni a pensare come sia inutile questo senato; altri – compreso chi scrive – a quanto sia stato poco preso in considerazione un sistema di checks and balances (pesi e contrappesi istituzionali); altri ancora a sottolineare quanto sarà complicato gestire i contenziosi tra le competenze della camera e del nuovo senato.

Dobbiamo osservare con un sano scetticismo la bizzarria di una campagna elettorale accanita

Le obiezioni di metodo potrebbero essere ancora molte. Una, quasi didascalica, riguarda il nome del senato: avrebbe ancora senso chiamare così una camera dove potrebbero essere eletti anche dei diciottenni? Un’altra è quella sollevata da Michele Ainis riguardo a una contraddizione nascosta tra le pieghe del testo Boschi: il ridimensionamento dei poteri regionali (la parte sul titolo quinto) lascia fuori le autonomie regionali, che anzi – in virtù di una legge del 2015 che impedisce di legiferare sulle regioni a statuto speciale senza il consenso delle stesse – uscirebbero ulteriormente rafforzate da questa riforma costituzionale, in un paradosso per cui le leggi delle province autonome di Trento o di Bolzano conterebbero più della costituzione italiana.

Si potrebbe continuare elencando i dubbi sul “merito” della riforma – il più consistente è quello secondo cui forse non è vero che avere due camere che fanno lo stesso lavoro rallenta il ritmo dell’approvazione delle nostre leggi, o ne riduce il numero. I dati di Openpolis ci dicono che nell’ultimo anno solo il 20 per cento delle leggi approvate ha richiesto due letture, che le leggi proposte dal governo hanno avuto una gestazione parlamentare media decisamente breve (156 giorni) e che in Italia si producono molte più leggi che in Francia e in Germania.

Oppure potremmo adeguarci allo stile del dibattito soprattutto delle ultime settimane che ha cercato di legittimare lo status di strumentalizzazione politica di questa consultazione. Ma forse la mossa migliore da fare in questa scacchiera del referendum è quella del cavallo, ossia provare a osservare dall’esterno, con un sano scetticismo, la bizzarria di una campagna elettorale accanita, violenta, polarizzata, in una fase in cui la crisi della politica è a uno dei suoi massimi storici. E porci qualche interrogativo.

Alle elezioni politiche del 1948 (le prime con la costituzione italiana) andò a votare il 92,2 per cento degli aventi diritto, nel 1992 eravamo scesi all’87,3 per cento, nel 2008 al 78,1, nel 2013 al 72,2: davvero il problema principale di questo paese è la governabilità e non la rappresentanza e la partecipazione?

Una crisi politica è stata trasformata in una crisi costituzionale

Quando nel 2013 l’attuale presidente del consiglio Matteo Renzi conquistò la segreteria del Partito democratico poteva contare su 539mila iscritti, nel 2015 sono stati 385mila (nel 2009, al momento della fondazione, erano 831mila). L’ambizione di rinnovamento di un partito – la rottamazione e via dicendo – ha coinciso con la disaffezione.

Le cose non vanno meglio nelle altre formazioni politiche: Forza Italia e la Lega dichiarano entrambi poco più di centomila iscritti, Sel solo 3.600 ossia addirittura meno di Possibile (il movimento di Pippo Civati) che ne ha 4.800, il Movimento 5 stelle non dà dati ufficiali – l’ultimo a tirare fuori un numero è stato Roberto Casaleggio un anno fa che diceva 130mila. In Italia meno di un milione di persone è militante di un qualche movimento o partito: davvero il problema principale di questo paese sono le regole e non l’impegno attivo, la costruzione del consenso?

Questa fragrante crisi non sarà risolta attraverso la modifica del testo costituzionale, ma cominciando ad analizzarne e a contrastarne le ragioni sociali economiche e politiche. Sul suo blog, il senatore Walter Tocci, coordinatore da anni del Centro studi di iniziative per la riforma dello stato (Crs), ha scritto una lunga disamina su questo voto, sottolineando come sia proprio il misconoscimento della crisi della democrazia a far immaginare soluzioni che invece sono solo sintomi.

L’equivoco estremo

Se si rimuovono le cause storico-politiche, il riformismo istituzionale diventa una metafisica senza tempo e senza realtà. Tutto è cominciato quando sono finiti i vecchi partiti, che nel bene e nel male avevano governato il paese, sia in maggioranza sia dall’opposizione. Da allora il ceto politico non ha saputo o non ha voluto rigenerare le strutture politiche adeguandole ai nuovi tempi e ha scaricato tale incapacità sulle istituzioni. Una crisi politica è stata trasformata in una crisi costituzionale. Alcuni politici si sono dati l’alibi dicendo che volevano spostare le montagne ma le procedure parlamentari lo impedivano. “Da molto tempo l’Italia non riesce ad aprirsi al mondo nuovo, non accede alla società della conoscenza, eppure il discorso pubblico di destra e di sinistra si occupa di un piccolo problema di tecnica parlamentare, fino a ingigantirlo come il principale ostacolo da rimuovere sulla via del progresso”.

L’estremo equivoco, dunque, è quello in base al quale bisognerebbe votare sì a questo referendum per senso di responsabilità, per evitare il tracollo di un paese indebitatissimo e che precipiterebbe nell’instabilità economica e quindi politica e poi sociale, e sarebbe spazzato da un’onda di speculazione internazionale; avvisaglia di quest’eventualità spaventosa sarebbe già l’aumento dello spread e il calo in borsa delle azioni di varie banche più esposte tra cui il Monte dei Paschi di Siena in quest’ultima settimana. È l’allarme del Financial Times, ed è l’ennesima versione del ricatto che l’autonomia politica, e addirittura quella costituzionale, finisce con il subire da elementi contingenti.

Sarebbe insomma davvero un brutto scenario se l’esito del voto – nel merito costituzionale e nel suo significato politico – fosse comunque ignorato come è accaduto al referendum greco dell’estate del 2015, in nome di un dover essere della storia che è davvero la fine della politica come l’abbiamo conosciuta: l’abdicazione a quella “nuova ragione del mondo” come la definiscono Pierre Dardot e Christian Laval, che nel loro ultimo libro appena uscito in Italia, Guerra alla democrazia, immaginano che le proposte di modificare le costituzioni in Europa saranno costanti nei prossimi anni.

Fonte: Internazionale

Verso il Referendum del 4 dicembre tra sì, no, “ma anche”

Tra le eredità lasciateci da Walter Veltroni c’è una nuova categoria logica che sarebbe molto utile nella scheda che gli italiani si troveranno davanti domenica 4 dicembre quando dovranno esprimersi sul Referendum, il ma-anche. Può sembrare una provocazione ma, di fatti, non lo è. Una ipotesi di riforma che comprende 47 articoli della Costituzione confonderebbe chiunque ed è inevitabile che in una materia così ampia finiscano modifiche condivisibili insieme ad altre non accettabili.

Così nel dibattito sul Referendum, tra balletti di cifre su presunti risparmi, tagli del numero dei parlamentari, modifica del rapporto tra stato e regioni, minacce di derive autoritarie e show televisivi, anche l’elettore più attento continua ad avere più di qualche dubbio. Cerchiamo, a questo punto, di mettere ordine e di chiarire in maniera sintetica in due soli punti le posizioni in campo. I favorevoli all’ipotesi di riforma sostengono che occorre votare sì al Referendum perché:

  1. Si supera il bicameralismo perfetto attualmente presente in Italia che vincola l’approvazione delle leggi a due passaggi parlamentari con due Camere che hanno le stesse funzioni. Con la riforma scompare il Senato così come lo conosciamo oggi e lascerà il posto ad un nuovo organismo composto da rappresentanti degli enti locali che avranno funzioni diverse rispetto alla Camera;
  2. Si tagliano i costi della politica con la scomparsa del CNEL e delle province. La riforma prevede che i consiglieri regionali non potranno percepire un’indennità più alta di quella del sindaco del capoluogo di regione e i gruppi regionali non avranno più il finanziamento pubblico.

Chi si schiera per il no alla riforma, sostiene che:

  1. La riforma rende il sistema più confuso e crea conflitti di competenza tra Stato e regioni, tra Camera e nuovo Senato non intaccando in maniera significativa i costi della politica e moltiplicando i procedimenti legislativi;
  2. Limita la democrazia in quanto triplica da 50.000 a 150.000 le firme per i disegni di legge di iniziativa popolare e rafforza il potere centrale a danno delle autonomie, private di mezzi finanziari. Inoltre espropria la sovranità al popolo e la consegna a una minoranza parlamentare. Il Senato, che non scompare assolutamente, viene privato della scelta dei cittadini divenendo qualcosa di informe e senza legittimazione elettorale.

In estrema sintesi queste le posizioni dei due schieramenti. Come detto, però, nel mezzo c’è la modifica di aspetti rilevanti della Costituzione il cui impatto non è quantificabile con esattezza. Ad esempio il nuovo art. 117 al comma 4 recita: “Su proposta del Governo, la legge dello Stato può intervenire in materie non riservate alla legislazione esclusiva quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale“, che si traduce in una forte limitazione sulla determinazione delle scelte dei territori. Non è questione da poco, si pensi all’attuazione di questa norma su questioni delicate come Tap o Ilva, dove interessi economici e impatto ambientale sono molto forti. E se anche questo rientrasse nell’interesse nazionale?

Non essendoci possibilità della casella ma-anche sulla scheda, sarebbe stato preferibile spacchettare i quesiti rendendo più agevole il voto degli elettori.

Nelle ultime ore, inoltre, si continua a caricare di significati diversi la disputa elettorale mettendo in campo rottamazioni e presunte cadute del governo, ma possiamo essere certi che il 5 dicembre se dovesse vincere il sì non arriveranno le cavallette e se dovesse vincere il no non ci saranno speculazioni finanziarie e disastri economici. Sempre che la gente il 4 dicembre vada a votare, in caso contrario la sconfitta sarà sicuramente di tutti.

‘Carpe diem’, il vero significato dell’espressione di Orazio

Carpe diem è l’espressione tratta dalle Odi del poeta latino Orazio più utilizzata (erroneamente) che letteralmente significa “Cogli il giorno”, ma viene tradotta in “Cogli l’attimo”.  Il carpe diem di Orazio nel tempo è diventato il simbolo di una delle “filosofie di vita” più famose della storia, riscuotendo grande successo soprattutto nella nostra società moderna.

Il carpe diem dunque è un concetto attuale, sebbene sia antico ed esprime un piccolo dilemma dell’uomo che resta sempre attuale: presi dagli impegni della quotidianità  è facile perdere il contatto con il presente per concentrarsi sul futuro.

Ma partiamo dall’autore di questa celebre espressione: Orazio. Ciò che rende immortale la poetica di Orazio sono i temi da lui trattati e lo stile. Egli parla dell’uomo e conosce l’uomo sin nei più segreti meandri della sua anima. Egli è in grado di creare, con uno stile semplice e raffinato, nel quale ogni parola è esattamente dove deve essere e proprio per questo brilla e si riempie di ogni sfumatura di significato, immagini eterne. Orazio è stato definito da un grande studioso quale Alfonso Traina il poeta della cura, ovvero dell’ansia. Questo perché egli è consapevole di una delle più grandi verità che riguardano l’uomo: il tempo passa e si deve morire. E così nascono alcune tra le più belle pagine dei suoi Carmina, dove la caducità della vita umana è sempre presente come un’ombra oscura che minaccia il piccolo uomo: non importa quanto si sia ricchi, influenti, potenti; la morte rende tutti i uguali:

«Non illuderti d’essere immortale, t’ammoniscono
gli anni e i giorni che passano in un attimo.
Mitiga il vento il gelo a primavera e questa
la estingue l’estate che fugge,
poi quando l’autunno avrà dato i suoi frutti e le biade,
torna l’inverno senza vita.
Ma rapida la luna ripara i danni del cielo:
noi quando cadiamo nel buio
dove si trovano Enea, Anco e il ricco Tullo,
non siamo che polvere e ombra».
[Ode IV, 7, vv. 7-16]

Il confronto tra l’eterno ritorno di cui può godere la Natura accentua il sentimento di termine a cui, invece, è destinata la vita umana. Di fronte a ciò il messaggio che traspare dalle pagine di Orazio è estremamente attuale: ciò che importa davvero nella vita è la semplicità delle cose autentiche. Abbracciando una personale rielaborazione delle filosofie stoica ed epicurea Orazio è in grado di innalzare meravigliosi inni alla bellezza della vita e della giovinezza. Poiché l’uomo è moriturus, cioè destinato a morire, ciò che conta è saper carpire e dare significato fino in fondo all’istante in cui è vivo e saper godere della più bella stagione della vita, ovvero la giovinezza. Orazio è allora il poeta che, nel tentativo instancabile di salvaguardare i suoi contemporanei da una vita superficiale e vuota, insegna a loro, ma anche a noi, che est modus in rebus, ovvero c’è un limite nelle cose, che bisogna vivere aequa mente, essendo sempre pronti ad un eventuale rovesciamento della sorte, ma senza darne la colpa a nessuno, perché il Caso non prevede alcun supervisore, nemmeno gli dèi. L’uomo che avrà saputo vivere riempiendosi dell’attimo consapevole e nell’amicizia (unico vero autentico sentimento contemplato da Orazio), potrà dire alla fine della sua vita, senza rimorso, di aver vissuto.

Carpe diem non significa che si può fare ciò che si vuole

Ecco il vero significato del tanto chiacchierato carpe diem, termine abusato, usato a sproposito per giustificare qualsiasi tipo di azione, soprattutto se “alla leggera”. Carpe diem non significa che si può fare ciò che si vuole: esso unisce in sé la tragica consapevolezza della propria precarietà e della fuggevolezza del tempo e l’intenso amore per la vita, una vita che però deve essere “candida”, come la destinataria dell’ode, Leuconoe (dal greco: mente bianca), cioè semplice, priva di bramosia e di superstizione.

«Tu non chiedere, è empio sapere!, quale sorte gli dei
destineranno a me, quale a te, Leuconoe, e non consultare gli astri Babilonesi. 
Quanto è meglio, invece, rassegnarsi, qualsiasi cosa accadrà,
sia che Giove ci conceda molti altri inverni, sia che questo,
che sfianca il mar Tirreno infrangendolo contro l’argine delle scogliere, sia l’ultimo!
Sii saggia, annacqua il vino e sfronda la lunga speranza, che il tempo della vita è breve.
Mentre parliamo, invidioso fugge via il tempo.
Cogli l’attimo, non credere al domani».
[Ode I, 11]

La serenità con cui Orazio, nonostante l’angoscia esistenziale di cui sa farsi portavoce, riesce a guardare alla vita non nasce dal niente. Essa affonda le radici nella sua immensa cultura e nelle sue esperienze, che sa rielaborare in poesia. L’opera di Orazio è un classico, di quelli che non devono essere riposti su polverosi scaffali, ma che andrebbero sfogliati di giorno in giorno, accompagnando ancora oggi la crescita di un uomo che voglia dirsi davvero “saggio”. Perché tra quelle parole si trova, assieme alla mitologia, alla cultura antica, che è poi l’origine della nostra, anche l’insegnamento essenziale per un’esistenza che possa dirsi felice.

E alla fine dei conti, se ciascuno saprà cogliere il frutto dei suoi giorni, coltivandoli con intensità nella quotidianità senza rimandare ad un domani perennemente incerto, potrà dire anche lui: non omnis morirar (non tutto di me morirà), nel ricordo che si tramanda nel tempo grazie ai frutti di una vita davvero “compiuta” che verranno, di generazione in generazione, raccolti.

 

Fonte:

http://fascinointellettuali.larionews.com/orazio-suo-carpe-diem-perche-leggere-le-odi-puo-insegnare-vivere/

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