In ricordo di Mircea Eliade, archeologo simbolico e ricercatore delle radici europee

Il 13 marzo 1907, a Bucarest, nasceva Mircea Eliade. Ad onta delle varie critiche – spesso scientifiche, spesso no – mosse a questo straordinario pensatore, filosofo, antropologo, storico delle religioni, mitografo, a 110 anni dalla sua nascita il suo pensiero è più vivo che mai: stanno a dimostrarlo le continue ristampe dei suoi testi, ma anche le nuove opere edite in italiano, che coprono tutto l’arco della sua produzione, dalla narrativa alla saggistica, dalla diaristica al teatro. Il pensiero di Eliade è un’autentica oasi in quel deserto di strutturalismi, decostruzionismi e pensieri deboli, post, neo e via discorrendo, che imperversa oggi. Forse il merito più grande dello storico delle religioni romeno è stato di avere preso il sacro sul serio. Questa la sua eredità, che è compito degli studiosi approfondire e meditare.

Eliade: il sacro come categoria fondamentale delle civiltà

Secondo Eliade il sacro è la categoria fondamentale delle civiltà: non è una sovrastruttura, come vorrebbe un certo materialismo dialettico, non nasconde un sostrato economico o sociale, ma al contrario, li fonda. Tutto il reale è leggibile come ierofania, manifestazione del sacro, della sua potenza: cratofania. Non c’è ambito che non lo sia, nelle civiltà arcaiche. E il sacro è anzitutto collegato al problema del tempo (autentico suo chiodo fisso, che compare anche in molta sua narrativa, da Un’altra giovinezza al recentemente pubblicato Dayan). Attraverso il rito, scrive in quel capolavoro che è il Trattato di storia delle religioni, l’uomo viene reintegrato nell’illud tempus, nel tempo senza tempo precedente la caduta nella storia. Un tempo che però non è confinato in un lontanissimo passato ma che è contemporaneo a tutte le epoche, e che spetta al rito riattualizzare. Solo così l’uomo può incontrare la propria essenza più profonda.

Il rito, il mito, il simbolo: ecco le chiavi che schiudono l’accesso ai tesori dell’antichità e delle culture “altre”. Altro che Lévi-Strauss… Nelle civiltà arcaiche tutto è rituale, tutto è eseguito a regola d’arte, in conformità con l’ordine cosmico (dove i concetti vacillano, le etimologie sono inequivocabili): la costruzione delle città come l’edificazione delle case, le nascite come le morti, le unioni come le separazioni. Ogni cosa, ogni azione è sacrificio, restituzione agli dèi di ciò che l’uomo ha profanato. Tutto è rituale, ogni azione umana: ogni esistenza si rinnova continuamente, reintegrandosi nella ciclicità del cosmo, ripetendone la genesi. Ogni vita, scrive Eliade, è infatti una lunga e ininterrotta catena di morti e resurrezioni iniziatiche. Con l’uomo, ogni volta, muore e risorge l’universo intero. Da qui anche la funzione fondamentale del mito, modello esemplare (su cui ha scritto pagine indimenticabili Gian Franco Lami), precedente autorevole che garantisce la continuità nell’avvicendarsi delle generazioni e delle ere.

L’archeologia simbolica di Eliade non manca tuttavia di considerare il presente, il nostro mondo. Lo storico delle religioni si cimenta in una lunga analisi comparata (che proseguirà anche il suo allievo, Ioan Petru Culianu, autore di un pioneristico studio su di lui, assassinato in circostanze assai misteriose a Chicago, all’inizio degli anni Novanta). Nel mondo moderno, il sacro non scompare affatto. Al massimo può mutare forma, nascondersi: nella creatività, ad esempio. Viene da sorridere, addirittura, sentendolo parlare di modernissime correnti che trarrebbero energia da componenti mitiche pre-moderne, come la psicanalisi freudiana, anticipata dalla psicologia dello yoga. Il sacro risorge nella scrittura, nelle produzioni dello spirito: addirittura, le ultime pagine di Mito e realtà designano la letteratura fantastica come erede degli antichi miti. Ogni scrittura è mitopoietica, anche quando risolutamente lo nega. Ogni letteratura è fantastica, aveva confessato Jorge Luis Borges negli anni Quaranta, persino quella iperrealista, che vorrebbe sezionare la realtà con il bisturi dello scienziato.

Alla saggistica Eliade accosta un’intensa produzione narrativa. Li chiama i due lati, diurno e notturno, della sua attività. Ciò che non riesce a comunicare con la prima emerge nella seconda. Da questo scambio nascono capolavori come Notti di Serampore o Il segreto del dottor Honigberger, autentiche sospensioni del principio di realtà, magnifiche celebrazioni dell’immaginazione creatrice. A proposito dei quali dirà: «Io credo alla realtà delle esperienze che ci fanno uscire dal tempo e dallo spazio». Lo faceva uscire dal tempo anche la musica, specie quella di Bach. Mettendosi a scrivere, nell’avvicendarsi di trame e personaggi Eliade cerca lo straordinario nell’ordinario, il metastorico nello storico. Cerca il Grande Incontro, come l’aveva definito Jünger nei suoi Avvicinamenti, rassegna di esperienze estatiche legate agli stupefacenti (la prima parte della quale è dedicata, non a caso, proprio a Eliade, con cui aveva diretto per più di un decennio la rivista «Antaios»).

La storia e il tempo

Un occhio rivolto al passato, uno fisso sulla modernità, rea di aver distrutto l’immaginazione, decimato la fantasia, relegandola a una specie di costruzione al di là del mondo, buona solo per chi non sa stare con i piedi per terra. L’opera di Eliade ci ricorda che il tempo storico non esaurisce affatto ciò che siamo, ma che è sempre possibile nelle nostre vite l’irruzione dell’Altra Realtà. Guai a chi afferma che la storia non ha altra dimensione che quella materiale. Guai a chi vede il tempo come lineare. Eliade ha coniato una splendida definizione per descrivere il nostro tempo: è il «terrore della storia», la condizione di chi rinuncia a leggere passato, presente e futuro con un occhio metastorico. Senza un riferimento superiore, allora, le crisi non sono più viste come delle prove ma come dei drammi fini a sé stessi. Laddove cessa un’indagine simbolica sulla storia, essa diviene una collazione di tragedie. Da qui la sua esplorazione del passato dell’Europa: un abisso scompagina la storiografia che noi tutti conosciamo. Mettendosi alla ricerca delle radici europee, scopre che sono molto più profonde di quel che ci hanno raccontato, più antiche della cultura greca e di quella romana, radici che, come racconterà a Claude-Henri Rocquet, «ci rivelano l’unità fondamentale non soltanto dell’Europa, ma anche di tutto l’ecumene che si stende dal Portogallo alla Cina, dalla Scandinavia a Ceylon». Un metodo analogo a quello di René Guénon, che lesse e non mancò di criticare, ma soprattutto di Julius Evola, con il quale mantenne una fitta corrispondenza.

Dalle radici al futuro: Eliade fa un sogno terribile, che racconta nei suoi diari. Due vecchi muoiono, in silenzio, l’uno accanto all’altro. Con loro scompare un mondo, in un silenzio colpevole. Ne è terrorizzato: si ritira in una stanzetta, inizia a pregare. Gli rimbomba nelle orecchie una sentenza terribile, l’oscuro mantra del XX secolo: «Se Dio non esiste, tutto è finito, tutto è assurdo». Se l’esistenza non è più legata a qualcosa che la trascende, non rimane che il nulla, il nichilismo compiuto. Ma Eliade ci vede anche qualcos’altro: la scomparsa di un’eredità. Quel che è accaduto ai due vecchi potrebbe un giorno avvenire anche all’Europa. Una perdita terrificante. Le bombe atomiche a distruggere le biblioteche, la tecnica al servizio della barbarie denunciata da Jünger nei suoi libri La pace e Le scogliere di marmo«Il grande delitto contro lo spirito» confida sempre a Rocquet. Se la Terra cessa di essere tempio, diviene un macello.

Dopo la Seconda Guerra Mondiale Eliade sceglie l’esilio. Dopo anni di servizio diplomatico a Londra e Lisbona, il suo daimon lo conduce altrove. Francia, Stati Uniti. La sua patria? La lingua romena: «Per ogni esiliato, la patria è la lingua materna che continua a parlare». La prolificità della migrazione romena nella prima metà del XX secolo è ancora tutta da raccontare: Eliade, Cioran, Eugen Ionescu, Vintila Horia. Per lo storico delle religioni – lo scriverà in uno dei suoi ultimi racconti, All’ombra di un giglio – l’esilio non è una condizione semplicemente politica, ma molto di più. Un viaggio verso l’ignoto, che però perde le sue fattezze misteriose se analizzato da un punto di vista diverso, al riparo dal terrore della storia di cui abbiamo già detto: «In qualsiasi posto c’è un centro del mondo. Una volta in questo centro, siete a casa vostra, siete davvero nel vero sé e al centro del cosmo». Lo stesso esilio ci aiuta a capire che il vero centro non si esaurisce nella geografia ma risiede in una dimensione più che materiale. Il simbolismo del centro di cui ha parlato nel Trattato l’ha vissuto personalmente, lui.

Quel simbolismo che potrebbe aiutare anche noi, uomini d’inizio millennio, a porci al riparo dai brutti scherzi della storia. Questo il messaggio di Eliade, ciò che di lui è vivo dopo un secolo.

 

Fonte:

http://www.lintellettualedissidente.it/homines/mircea-eliade/

Le democrazie occidentali ai tempi dei social network

Asfaltare, umiliare, distruggere, sono solo alcuni dei termini più comuni condivisi migliaia di volte al giorno da platee sterminate di frequentatori di social network. Si tratta nella maggioranza dei casi di video insignificanti in cui vengono estrapolati parti di interventi televisivi o pubblici in cui il protagonista utilizza un linguaggio, spesso offensivo, verso i suoi interlocutori. Di fronte a queste frasi gli improvvidi navigatori si profondono in applausi a scena aperta. Poi ci sono i commenti, sempre in linea con l’asfaltare, umiliare, ecc.

Insomma, i social si dimostrano sempre più un postaccio dove trovi il peggio del peggio – fascisti, negazionisti, violenti, giustizialisti e ignoranti – ed in cui le opinioni diventano notizie e le notizie vengono scambiate per opinioni. In questo brodo di coltura si forma l’elettorato attivo delle moderne democrazie occidentali e, a seconda dei periodi, le vittime dei più feroci attacchi diventano giornalisti, politici o intellettuali.

Tra le vittime preferite dell’ultimo periodo ci sono proprio coloro che hanno il compito di raccontare la realtà, i giornalisti, che schiacciati da una campagna di odio nei loro confronti innescata da alcuni esponenti politici, non ultimo in presidente americano Trump, vivono il periodo più difficile della loro storia.

Non è un fenomeno da sottovalutare, i giornalisti con le loro inchieste hanno storicamente il compito di aumentare la consapevolezza dell’elettorato che poi deve decidere da chi farsi governare. Sui social network non si contestano i contenuti delle inchieste, ma l’aspetto strumentale che verosimilmente ci sarebbe dietro. Non si può non nominare in questo contesto la questione romana, con un sindaco che dimostra ogni giorno di più la propria incapacità sia politica che amministrativa, e che naturalmente finisce sotto l’occhio attento dell’informazione. Sui social network si sprecano i commenti contro gli organi di informazione perché agiscono in malafede e viene da chiedersi dove fosse tutta questa platea quando sui giornali ci finiva la Panda rossa di Ignazio Marino.

Si sa, la memoria è corta e poi se si riesce a diventare influencer, sono così che si chiamano i vecchi opinion leader, si acquisisce un potere enorme di fronte ad una platea sterminata di gente incapace di comprendere la differenza che passa tra una notizia vera ed un fake. Ma forse tutto questo non significa nulla e tutti gli incendiari da social network in previsione delle prossime elezioni torneranno dal solito politico a raccogliere promesse per un futuro che, per forza di cose, non sarà così diverso dal presente.

In aiuto però ci sono i social dove puoi asfaltare, umiliare, ecc., restando comodamente seduto a casa e poi accada quel che deve accadere.

I martiri delle foibe scomparsi dai libri di storia e dalla memoria collettiva

«Non abbiamo ormai detto tutto su vicende di 70 anni fa? Ha senso ritornarci sopra ad ogni ricorrenza? Ebbene sì, ha senso. Riconciliazione non significa rinuncia alla memoria». Queste le parole dell’ex Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano in occasione delle celebrazioni per la Giornata del Ricordo delle Foibe del lontano 2013, degne di un Capo di Stato responsabile e attento a voler tenere vivo nel ricordo di tutti il dolore che ancora provano le vittime delle persecuzioni titine. Eppure, quando nel febbraio 2011 l’Unione degli Istriani denunciò pubblicamente la presenza del maresciallo Tito tra i cavalieri di Gran Croce della Repubblica, nessuno si indignò. «Chiedo al presidente della Repubblica di voler procedere all’annullamento immediato della benemerenza», il presidente dell’associazione in questione, Massimiliano Lacota, scrisse proprio a Giorgio Napolitano. «È semplicemente orribile e disgustoso che lo Stato italiano riconosca il dramma delle Foibe e allo stesso tempo annoveri tra i suoi più illustri insigniti proprio chi ordinò i massacri e la pulizia etnica degli Italiani d’Istria, ovvero il dittatore comunista Tito».

Ma quello sfogo non sortì alcun effetto. La grande stampa, la politica moraleggiante e Napolitano quasi si nascosero, ignorando l’appello di chi, ancora ferito, si sentiva umiliato dalla permanenza del proprio carnefice nell’elenco più importante dei benemeriti della Repubblica. Fa rabbia pensarlo. Il suo successore, Sergio Mattarella, ha impiegato settimane intere per comunicare chiaramente la volontà di ricevere al Quirinale le associazioni di esuli, dopo giorni e giorni di silenzio assordante. Non solo, come sottolinea in una nota che dovrebbe essere riconciliatoria Giovanni Grasso, direttore dell’Ufficio stampa e Comunicazione del Quirinale, Mattarella nel 2015, appena insediatosi, si limitò ad intervenire alla Camera con due note sull’accaduto, mentre lo scorso anno era in visita a Washington. Quest’anno, ancora una volta, si trova all’estero, a Madrid.

Non proprio due grandi esempi di autorevolezza istituzionale da parte degli ultimi due presidenti della Repubblica, ecco. Ma ciò che getta ancor più nello sconcerto è constatare come questa non sia ancora la più grande delle ingiustizie perpetrate ai danni delle vittime di quella pulizia etnica. Peggio ancora del parlare nel modo sbagliato di una tragedia è, infatti, non parlarne affatto. Ed è proprio il silenzio su questo tema che ha caratterizzato la storia repubblicana del nostro Paese: ignorare, apporre una pagina completamente bianca sui libri di storia. Ciò che ha cancellato per anni la tragedia del popolo giuliano-dalmata è stata anzitutto un’operazione culturale.

Scrive Nicola Imberti su Il Tempo: “Il Trattato del 1947 chiedeva all’Italia di «restituire» alla Jugoslavia l’Istria, con le città di Fiume e Zara e le isole di Cherso e Lussino (836.129 abitanti). Nonché prevedeva il diritto da parte jugoslava di requisire tutti i beni dei cittadini italiani. A luglio il testo approdò davanti all’Assemblea Costituente per la ratifica. E fu un plebiscito: su 410 presenti 262 votarono sì, 68 no, mentre in 80 si astennero. Storico (e citato nel libro) resta il discorso pronunciato in quell’occasione da Vittorio Emanuele Orlando che sottolineò tutta la drammaticità di un’Italia che si vedeva «amputata» di città e territori dove «l’italianità è più profonda, più intima, più pura».

A settembre il Trattato entrò in vigore ed iniziò una lunga e travagliata vicenda. In realtà già nel 1945 il presidente del Consiglio Ferruccio Parri e il ministro degli Esteri Alcide De Gasperi avevano denunciato la scomparsa di 8.000 deportati italiani in Jugoslavia.
Insomma sapevano. Sapevano che, dopo la fine del conflitto, i vincitori jugoslavi avevano utilizzato qualsiasi mezzo per ottenere la «slavizzazione» della Venezia Giulia. I bilanci peccano spesso in difetto, ma si calcola che tra il 1945 e il 1956, circa 350.000 italiani fuggirono dall’Istria, da Zara, Fiume e dalle isole, e si ritrovarono profughi lungo la Penisola.

Il «Parere sull’importanza dell’insegnamento della Storia e del ruolo del docente» scritto dal Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione nel settembre del 1960 recitava testualmente: «la trattazione dei fatti contemporanei… dovrà essere svolta… ai fini di apologia democratica, pacifista, antifascista».

Gli infoibati, non rientrando nella suddetta categorizzazione, restarono alla stregua di veri e propri fantasmi. Parlarne diveniva quasi controproducente, si rischiava di essere additati, etichettati, messi ai margini.

Qualcosa cambiò nel 1996 quando l’allora ministro dell’Istruzione Luigi Berlinguer, con decreto ministeriale, stabilì che i programmi dovessero «contemperare l’esigenza di fornire un quadro storico generale». Da qui la «necessità di studiare l’intero Novecento e non solo la parte che possa far piacere, senza omettere, ma anche senza dimenticare che non si fa opera di verità confondendo vittime e aguzzini».
Da quel momento qualcosa iniziò a smuoversi, timidamente. La celebrazione di questa tragedia storica diventò man mano una questione politica: da destra si premeva affinché venissero riconosciute le responsabilità dei partigiani titini, da sinistra si gridava all’apologia di fascismo. Fino ai giorni nostri il dramma delle foibe ha rappresentato tutta l’immaturità dell’uomo moderno nel non saper rispettare, con il silenzio del cordoglio e non con quello dell’indifferenza, le vittime dell’ingiustizia, a prescindere dalle circostanze e dal periodo storico.

Proprio questa è la più importante testimonianza di come si debba parlare delle vittime delle foibe ancora per molto, in tutti i modi possibili, visto che per troppo tempo un popolo intero si è reso complice dell’infamia del silenzio che ha mietuto vittime del tutto prive di colpa.

 

http://www.ilconservatore.com/idee/martiri-delle-foibe-scomparsi-dai-libri-storia-dalla-memoria-collettiva/

La lingua italiana tra analfabetismo e riforme della scuola

È difficile prendere sul serio i 600 docenti universitari che hanno lanciato l’allarme sull’uso approssimativo che i loro studenti fanno della lingua italiana. La difficoltà non nasce dalla fondatezza della loro denuncia – è sotto l’occhio di tutti il degrado culturale in cui versa il nostro Paese – ma dal silenzio assordante che ha contraddistinto la categoria, con le dovute eccezioni, nel corso delle riforme peggiorative della scuola che, più o meno, hanno operato tutti i governi negli ultimi vent’anni.

Verrebbe quasi da dire che, siccome se ne sono accorti persino loro, il problema dell’uso della lingua italiana ha ormai raggiunto delle dimensioni drammatiche. Ma, a parte facili ironie, la questione assume una centralità che non può essere liquidata con una semplice battuta.

I giovani studenti in percentuali significative, usciti da un percorso di studio lungo ben dodici anni, non riescono a raggiungere le competenze linguistiche che un tempo erano requisito necessario per l’ottenimento della licenza elementare. Detta in questi termini è una notizia clamorosa, ma in realtà appare fuori luogo operare dei paragoni intergenerazionali perché condurrebbero a conclusioni inadeguate rispetto alle premesse. Il risultato di questo fallimento educativo non può essere imputato solo alla scuola. È facile, banale e ormai anche un po’ stucchevole riversare sull’istituzione scolastica tutte le colpe di malfunzionamenti complessi. Per fare una analisi seria è necessario guardare anche al contesto.

A partire dagli anni ’80 i modelli di riferimento sono profondamente mutati e, vuoi per il travolgente impulso della televisione commerciale, vuoi per il nuovo spirito edonista americaneggiante, il sapere e la fatica della conoscenza hanno gradualmente lasciato il passo al mito della vita senza sforzi, del vincere facile. Si è così persa la misura essenziale del “dover essere” per lasciare il posto ad una frivola apparenza. A questo si sommano intere generazioni di genitori che, da ferrei custodi della disciplina, si sono gradualmente trasformati in spazzaneve che fanno di tutto per rendere la strada dei propri figli sempre più agevole eliminando, se necessario anche facendo ricorso agli strumenti della legge, ogni forma di ostacolo dal loro cammino. Il risultato nel medio periodo ha condotto ad una svalutazione totale della scuola come strumento educativo e all’identificazione della stessa come capro espiatorio di tutti i mali dei nostri giorni.

Perché un ragazzo dovrebbe abbandonare i videogiochi, i social, internet e la televisione, se tutto quello che serve a vivere è a portata di mano? Perché impegnarsi nello studio quando chiunque può fare qualsiasi cosa? Perché studiare quando ciò che conta si trova fuori dai libri?

L’argomentazione non deve apparire assolutoria nei confronti della scuola, per carità, le responsabilità ci sono anche qui, ma forse sono meno determinanti di quelle presenti al di fuori dell’istituto scolastico. Oggigiorno tutto è ridimensionabile nei termini del consumo e, così, anche la filosofia dell’istruzione pensata esclusivamente come veicolo per l’ottenimento di un lavoro ha dominato e continua a dominare le politiche legate all’istruzione. Sono nate da qui le più grosse sciagure brillantemente sintetizzate nelle tre I, ma che hanno prodotto sinora solo un numero consistente di I(gnoranti), lasciando dubbi e minando nel profondo anche l’unica certezza che avevamo: una scuola in grado di formare.

L’incapacità di utilizzare in maniera corretta la lingua italiana, purtroppo, è solo un sintomo. La malattia si trova altrove e prima o poi dovremo pur accorgercene.

Giorgio Perlasca: uno dei “Trentasei Giusti ” al mondo nel saggio di Deaglio

27 Gennaio, il tempo per un attimo si arresta e ritorna al 1945, quando Le Forze alleate riaprirono i cancelli di Auschuwiz, riportando alla luce l’infamia di Hitler e delle leggi razziali, che prima devastarono e poi consumarono un’intera popolazione di Ebrei. In questa data, ogni anno si celebra il Giorno della Memoria. Una memoria ricostruita soprattutto da uomini e donne che hanno vissuto da protagonisti l’orribile olocausto, mostrandoci un pezzo di storia che non dovrà mai più ripetersi.

Alcuni Testamenti importanti ci sono anche nella letteratura come il libro Se questo un uomo di Primo Levi o il Diario di Anna Frank, che attraverso i loro occhi ci fanno vivere l’incubo dello sterminio degli  ebrei.

Nel 1991 un giornalista, Enrico Deaglio, ha riportato un’ulteriore testimonianza, raccontando la storia di Giorgio Perlasca. Il titolo del saggio è La banalità del bene.                                                                         In questo saggio Deaglio tesse la trama del saggio seguendo due fili precisi: La prima parte del racconto viene riportata oralmente dallo stesso Perlasca che sta tenendo un’intervista con il giornalista. Nella seconda parte il lettore apprende le vicende attraverso le parole del diario che Perlasca scrisse durante quegli anni.

L’incredibile vicenda di un commerciante padovano

Perlasca nacque a Como da una famiglia cattolica. Dalla città natale è costretto a trasferirsi a Trieste, dove aderisce al fascismo. L’ammirazione di Perlasca per D’Annunzio fu l’oggetto di uno screzio con un professore e che gli costò l’espulsione per un anno da tutte le scuole. Deaglio riporta testualmente le sue parole: “A dire il vero non sono il tipo da sgobbone, non finii  l’istituto tecnico. Ero uno a cui piaceva divertirsi, stare con gli amici e giocare a Pallone”. Nel 1936 andò come volontario, prima in Abissinia poi in Spagna. Da veterano, venne richiamato alle armi. Erano gli anni del “Manifesto della razza” e delle leggi razziali: gli ebrei cominciavano ad essere considerati una razza inferiore. Al giovane Perlasca, la realtà delle leggi razziali stava stretta: le considerava inique.

Questo suo essere “fuori dalla linee”, spinse i suoi superiori a spedirlo in licenza agricola. Quando scoppiò la guerra Perlasca aveva trent’anni e lavorava nella SAIB (Società Anonima Importazione Bovini), fu inviato a Budapest come diplomatico. In quel periodo i nazisti ungheresi avevano ormai occupato la città, imprigionando tutti i diplomatici del posto. Grazie ad un permesso per una visita medica, Perlasca riuscì a fuggire, trovando rifugio da alcuni conoscenti. Il servizio militare prestato in Spagna, qualche anno prima agevolò la sua entrata nell’ambasciata Spagnola, dove ottene un passaporto spagnolo. Da allora il suo nome sarebbe stato Jorge Perlasca. Da quel momento sarebbe cambiata la sua vita.

Perlasca: gli anni della sua formidabile impresa

Nel frattempo la guerra dilagava e ben presto tutti gli ebrei ungheresi “parassiti e contagiosi bacilli della tubercolosi”, come li definiva Hitler, andavano sterminati.

L’ambasciata da quel momento diventò il campo base per un operazione rischiosa: Jorge insieme ad un gruppo di persone, cominciò a rilasciare salvacondotti falsi, che impedirono alle SS di catturare gli ebrei, perché protetti da un paese neutrale, la Spagna. Gli Ebrei strappati dai vagoni merce venivano protetti e ospitati in otto case rifugio, istituite preventivamente da Perlasca e il suo seguito. Mentre la guerra, inesorabile, continuava a seminare morte e terrore, l’ambasciatore spagnolo Sanz Briz scappò. Il governo lo accusò di essere fuggito. Perlasca approfittò della situazione e si autonominò ambasciatore spagnolo. Consegnò un documento al ministro degli Esteri dove si leggeva che l’ambasciatore si è trasferito per svolgere al meglio le sue funzione e che esisteva una precisa nota di Sanz Briz che nominava Perlasca suo sostituto per il periodo della sua assenza” come riporta lo stesso Deaglio.

Quel magnifico “impostore”, in compagnia di un gendarme che issava il vessillo spagnolo, girando per le strade riuscì a portare in salvo più 5000 Ebrei Ungheresi.

La fine della guerra e il ritorno a casa

La guerra stava volgendo ormai a termine, l’Armata Rossa entrò a Budapest, Perlasca venne imprigionato per un breve periodo. Dopo poco ritornò nella sua casa padovana dove condusse una vita normalissima. Nessuno seppe mai delle imprese eroiche di cui fece promotore.

Negli anni Ottanta, un gruppo di donne riuscì a rintracciarlo per rendergli un meritato omaggio, e così la storia di Perlasca cominciò ad essere raccontata. Giorgio Perlasca fu insignito del titolo “uomo giusto” e dichiarato eroe in molti paesi europei

L’intento didascalico del saggio

Il Saggio inizia con una domanda che Perlasca pone a Deaglio: “Che cosa avrebbe fatto al posto mio, vedendo massacrare delle persone innocenti?”. Stava svolgendo il suo lavoro da diplomatico eppure non riuscì ad essere indifferente alla barbarie che si consumavano sotto gli occhi distratti del mondo. Tutti sapevano ma nessuno mosse un dito per cercare di evitare un genocidio innocente. Si comportò come se l’altruismo, il coraggio e la solidarietà fossero delle qualità innate, insite in ogni uomo. Come se fosse una cosa semplice, banale e che tutti avrebbero dovuto fare. Una banalità nel fare del Bene appunto.

Il titolo è come un déjà vu: nel lettore riecheggia  immediatamente il libro di Hannah Arendt, la banalità del male. La scelta non è causale. Deaglio lo utilizza volutamente per riportare una storia completamente opposta. Alla banalità del male di Eichmann, descritta dalla Arendt oppone la banalità del bene di Perlasca.

Nonostante la sua impresa fosse stata grande, Perlasca non si è mai sentito un eroe, anzi come riporta Deaglio nel suo saggio “Per far parte dei modelli vigenti dell’eroismo, gli mancavano molte qualità. Troppa modestia e poca attitudine a scalare il palcoscenico”.

Perlasca accettò di raccontare la storia, per far comprendere alle generazioni future che,non basta guardare ma è necessario vedere ed agire, invitando tutti a non aver paura di pronunciare quel monosillabo così breve ma così carico di coraggio, NO e che il più delle ci dà la possibilità di arrestare violenze e soprusi.

La non riforma delle forze dell’ordine italiane-l’abolizione del Corpo Forestale

Tra le tante semplificazioni tentate dal governo Renzi, ce n’è una che sicuramente è tra le peggiori, anche se tra le meno denunciate, a causa del solito disinteresse italiano, che si traduce in vera e propria ignoranza per i dettagli. Si sta parlando del capitolo della riforma della Pubblica Amministrazione a firma del ministro Marianna Madia (ma diciamo a firma Renzi) riguardante l’abolizione del Corpo forestale dello Stato (CfS) come corpo a sé stante, per essere invece inglobato in quello dei carabinieri.

In occasione di tragedie come quella causata ultimamente dalla neve all’hotel Rigopiano e in tutta l’Italia centrale – ammesso che la colpa poi sia stata effettivamente della sola neve e non delle imprudenze e inefficienze umane – si è riacceso il dibattito sull’opportunità o meno di una tale riforma. Ovviamente che i forestali diventino carabinieri, non vuol dire che non sappiano più fare i forestali, ma che svolgono tale compito con la divisa dei carabinieri, invece che con quella verde dei forestali. Fin qui la cosa non cambia, non migliora e probabilmente non peggiora.

Solo fin qui però. Il punto è chiedersi se tale riforma sia inserita in un contesto che le dia un senso un po’ più marcato di quello del fare una riforma che non cambia nulla, né in peggio, né in meglio, perché se così fosse, perché allora farla? La risposta è semplice: il contesto di ulteriori riforme razionalizzanti e semplificative del sistema delle forze di sicurezza italiane non è stato veramente compiuto, ma era necessario, in tipico stile renziano, far invece apparire che la riforma ci fosse, quindi quale corpo abolire? Il più “facile” da eliminare, più facile perché è un corpo di valore numerico abbastanza limitato (7-8000 elementi a livello nazionale), e sicuramente meno conosciuto rispetto a carabinieri o guardia di finanza. Non c’è solo questo però. I carabinieri ottengono la gestione dei reati di competenza del Corpo forestale dello Stato, non tramite i nuovi carabinieri ex forestali, ma tramite il proprio personale. Già, perché gli ex forestali devono scegliere se diventare militari come i carabinieri e riempire buchi di organico o andare in mobilità e poi lasciare.

Oggi si assiste invece all’infondato dibattito per cui è stata l’assenza della forestale a rendere più difficili i soccorsi al Rigopiano e dintorni appenninici, ma appunto i forestali esistono ancora, anche se ora si chiamano carabinieri. Dunque che cosa si sarebbe dovuto semplificare per avere un effettiva semplificazione e maggiore efficienza nei soccorsi?

Innanzitutto polizia e carabinieri, di fatto, svolgono la medesima funzione di ordine pubblico. I carabinieri sono anche altro, sono una forza armata, ma perché una forza armata ha una seconda natura che è quella di tutela della pubblica sicurezza, quando esiste già la polizia? Chi ad esempio vuole fare una denuncia, poniamo contro ignoti, può andare tanto in un commissariato di polizia che in uno dei carabinieri. Cosa cambia? Niente. Anzi no, cambia che si pagano due strutture per gli uffici, quindi doppi comandi, come a dire due teste che comandano un solo corpo (ordine pubblico). Poi abbiamo la guardia di finanza, che si occupa soprattutto di reati fiscali e finanziari. Ottimo, ma essendo comunque reati non basterebbe inglobare la guardia di finanza nella polizia ed eliminare un ennesimo costo di uffici per un ulteriore comando a sé stante?

Per venire infine ai forestali, sono stati aboliti per i motivi che dovrebbero valere altrettanto bene per l’abolizione dei carabinieri e guardia di finanzia, per poi inglobarli dentro la polizia. Soprattutto si sarebbero potuti abolire i corpi di forestali regionali presenti in Italia. Ecco un’altra tipica sorpresa da sistema marcio:il CfS non può coprire le regioni a statuto speciale (Valle d’Aosta, TrentinoAlto Adige/province di Trento e Bolzano, Friuli Venezia Giulia, Sicilia, Sardegna), ma non solo, anche le regioni a statuto ordinario hanno i loro forestali regionali meno formati del corpo nazionale (quelli calabresi sono5.887!).Si si vuole semplificare si possono togliere le prerogative delle regioni a statuto speciale in tema di tutela ambientale con una vera riforma costituzionale di un singolo e semplice articolo che faccia subentrare il CfS. Perché poi esistono anche i corpi forestali regionali ordinari? Sono uno dei tanti postifici per raccomandati, che sarebbero altrimenti senza futuro.

In conclusione si poteva scegliere di accorpare anche polizia e carabinieri, o polizia e guardia di finanza, abolire i forestali regionali, invece… meglio accorpare solo il Corpo forestale dello Stato. E queste sono riforme?

Addio al grande Zygmunt Bauman, teorico della ‘società liquida’

Una chiave di lettura originale, non banale e certamente discutibile per comprendere il mondo contemporaneo. Con Zygmunt Bauman scompare non solo un grande intellettuale, ma forse il più importante costruttore di lenti che ci hanno permesso di osservare il mondo in modo differente.

La sua ideologia laica è stata costruita sul concetto di liquidità, analizzata come caratteristica fondamentale del postmoderno. Nessuna categoria valida nel passato può essere applicata in un presente che sfugge ad ogni possibile definizione. Tutto è viscido, sfuggente e questa liquidità imperante non può non coinvolgere il tessuto sociale in ogni sua componente. Il soggetto diventa a sua volta liquido ed è incapace di intessere relazioni stabili. Tutto è soggetto al fluire. Idee, progetti, visioni del mondo, politica, persino le relazioni amorose. Il collante che tiene unito tutto è il consumo. La necessità di consumare e la volontà di ottenere il diritto di consumare.

La liquidità allora assume caratteristiche diverse perché “il consumismo non consiste nell’accumulare beni ma nell’usarli e quindi nello smaltirli per fare posto ad altri beni da usare”. Ed è questa la logica che abbraccia tutto e tutti. Comprare, consumare, buttare. Non solo nella realtà, ma anche nella virtualità dove non sono i veri beni ad essere oggetto di consumo, ma anche i semplici like. In più la realtà virtuale ha il merito di “ridurre la pressione che la vicinanza non virtuale ha l’abitudine di esercitare e detta anche il modello per qualunque altra forma di prossimità che è destinata a uniformare i propri pregi e difetti sugli standard virtuali”.

La liquidità, che trova il suo ambiente naturale nell’economia di mercato, genera nuovi nemici e pericolose paure in tutti gli uomini. Così il diverso, lo straniero, diventa bersaglio privilegiato di campagne di odio. Bauman ha scritto moltissimo nell’ultimo periodo al riguardo schierandosi apertamente a favore dell’accoglienza e contro l’Europa dei muri che colpevolizza le vittime.

È difficile comprendere la portata del pensiero di Bauman perché viviamo sommersi nella realtà da lui descritta, ma non si può non apprezzare la grande lucidità ed originalità che tiene insieme i pezzi di un puzzle complicatissimo chiamato postmodernità.

La scomparsa di Bauman ci lascia orfani di un modo di concepire la conoscenza che non appartiene più al nostro secolo.

L’ultima grande lezione di Tullio De Mauro: l’ignoranza strumentale italiana

Se c’è una lezione che la triste giornata di ieri ci ha insegnato, e della quale si dovrebbe far tesoro, è quella – l’ultima – del compianto Tullio De Mauro (Torre Annunziata, 30 marzo 1932 – Roma, 5 gennaio 2017).
Uomo libero, colto e raffinato, Tullio De Mauro aveva dedicato la vita al Paese, con un impegno non solo politico, ma anche sociale (si tengano a mente, a tal proposito, le correlazioni ‘Smithiane’ tra padronanza della lingua e fluidità dell’economia di uno Stato). Quanta inutile fatica, si potrebbe essere portati a pensare, in un periodo storico buio e miope, come quello in cui viviamo. Sì, perché i giovani non leggono più, o leggono davvero poco; perché l’italiano medio, dati alla mano, coglie con fatica il significato di un breve e semplice testo, e non pare, a causa di ciò, soffrire; perché il classico utente delle principali fonti del web, e dei social network più in vista, riesce a stento a verificare la veridicità di una notizia.

Perché, dunque, continuare a farsi strada in un ginepraio senza un’apparente via d’uscita, ed anzi, con prospettive future anche peggiori? Tullio De Mauro conosceva bene la situazione di un’Italia culturalmente in ginocchio. Un’Italia sulla scia peccaminosa dell’abbandono progressivo dell’uso pieno della lingua più pura. Un’Italia che De Mauro vedeva sempre più superficialmente anglofona. “Superficialmente” perché, come aveva più volte notato il linguista traduttore dell’illustre Ferdinand de Saussure, se da un lato l’italiano medio ricorre sempre più spesso agli anglismi, sempre meno italiani possono dirsi realmente ferrati in una lingua straniera. E sapeva, De Mauro, che la lingua italiana, un tempo controllata e misurata, andava sbilanciandosi – come aveva puntualizzato in un intervista decentemente recente – verso il turpiloquio, verso le parolacce liberalizzate anche in ambienti politici e culturali (i giornalisti si compiacciono nell’usarle, aveva detto). Era a conoscenza, infine, l’ottimo ed instancabile Tullio De Mauro, della tragedia dell’ignoranza italiana quale instrumentum regni. Un tasso catastrofico d’impossibilità al raziocinio, che, in una scala di cinque livelli – numeri e studi tutti suoi – relegava ai terribili primi due posti la maggioranza della popolazione in età lavorativa.

Cosa fare, dunque? Cosa pensare? È forse, l’Italia, una nave che affonda, e da abbandonare pena la tragica fine? Tullio De Mauro conosceva altro, oltre alle ferite di un’Italia martoriata. Sapeva l’Italia non essere l’unica vergogna mondiale, ed anzi essere seguita di pari passo dalla Spagna. Sapeva l’ignoranza strumentale avviluppare gran parte di Paesi europei primi per civilizzazione ed evoluzione del sistema d’istruzione, nonché più della metà della popolazione adulta degli USA. Sapeva, Tullio De Mauro, che il politico, lo scrittore ed il giornalista tendono alla parolaccia più che mai, ma non hanno, essi, la forza di deformare una lingua forte, complessa e profonda, come “quella di Dante”.
Ecco come reagire, all’alba del primo giorno senza Tullio De Mauro. Guardando al peggio, e muovendoci verso il meglio, in maniera consapevole, severa, ma ottimistica.

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