Trilussa, poeta vernacolare e iniziato alla Massoneria

Trilussa, pseudonimo di Carlo Alberto Salustri (1871 – 1950) fu, nella sua vita, poeta ed iniziato.

Trilussa è una delle figure più rocambolesche che si possano incontrare in un’indagine che scandagli i cammini paralleli di Letteratura e Massoneria. Il poeta romano, infatti, fu un massone che mai ricevette iniziazione massonica. Ciò rende ammaliante l’intera costellazione delle sue vicende. Mai compiacente osservatore delle cose italiane, aveva sempre offerto un loro ritratto ironico. Emblematica la sferzata al regime fascista (senza mai, però, sfociare nell’invettiva).

Nonostante l’atteggiamento sui generis – sempre al di sopra delle parti, e fedele solamente a Donna Poesia – il Paese lo vede di buon occhio e lo nomina senatore, senza che questi, però, perda il suo approccio distaccatamente ironico nei riguardi della vita. L’approccio della mente superiore, che vive e vede il mondo, ma mai perde la consapevolezza della caducità delle cose. La poesia in vernacolo, poi, consentiva margini più ampi alla satira, rispetto a quella in lingua. Col registro di cui fece uso, Trilussa immortalò nel migliore dei modi un mondo che viveva, pulsava.

Non trova, nelle istituzioni umane le doti etiche che dovrebbero essere patrimonio comune, ricordando, con tale critica universale, lo spirito massonico, al di là degl’ironici sonetti Li frammassoni de jeri e Li frammassoni d’oggi, in cui non si scaglia contro l’essenza dell’Istituzione ma contro gli uomini che ne fanno parte. Talvolta, questa tensione Trilussa all’universalità, che sfocia nel riconoscimento e nell’aspirazione all’uguaglianza, tracima dalle piccole cose quotidiane alle questioni di peso più considerevole e tragico, come la guerra. Nel 1915, in Fra cent’anni, Salustri, riguardo alla Grande Guerra, ammonisce, riferendosi ai soldati morti, tutti ugualmente straziati dal combattimento:

“E diranno fra loro: – Solo adesso

ciavemo per lo meno la speranza

de godesse la pace e l’uguajanza

che cianno predicato tanto spesso!”.

Il pessimismo di Trilussa

Al momento della morte, dunque, tutti diventeranno uguali, accomunati da quella grande “Livella” ch’è il Tristo Mietitore. Ed il discorso sulla caducità delle cose, sulla vita che altro non è che un gioco fatuo, viene chiuso nella deliziosa, e amara, La bolla de sapone:

“Lo sai ched’è la Bolla de Sapone?

L’astuccio trasparente d’un sospiro”.

Un ‘pessimismo’, quello di Trilussa che non è affatto distruttivo ma, anzi, diviene una presa di coscienza della vicenda umana, di un pánta rêi che non è mai chiuso nichilismo, ma cela la speranza del riscatto finale dell’Uomo. Una speranza covata anche dalla Massoneria, che spinge i suoi iniziati a non smettere mai di lavorare e studiare “per il bene e il progresso dell’Umanità”. Non si può certamente affermare la distanza di Trilussa dall’Ordine, neppure prendendo in considerazione l’ironia dei sonetti dedicati alla Libera Muratoria “di ieri e di oggi”, in cui più che un’aggressione all’Istituzione emerge l’amarezza per l’azione fascista. Mentre la satira dei sonetti massonici va a colpire gli uomini e non il pensiero massonico, negli scritti contro il Fascismo, vi è uno scagliarsi più contro il pensiero che non alle persone: come dimenticare il geniale attacco al “dittatore” in Nummeri ?

Del 1911 è il primo sonetto de Li frammassoni de jeri, in cui Trilussa denuncia il fatto che i massoni non seguono più i lavori come dovrebbero, e che ad assistere alle attività del Tempio non è rimasto che il Grande Architetto, mettendo in mostra l’inadeguatezza della struttura umana e giammai l’Istituzione:

“Pe’ questo so’ chiamati muratori

e er loro Dio lo chiameno Architetto…

Ma poco più j’assiste a li lavori”.

Il secondo sonetto, del 1912, vede il poeta romano evidenziare l’ambizione personale dei singoli che sopraffa il sentimento che dovrebbe animare i massoni. Tuttavia, quasi li giustifica, non vedendoci chissà quale male nel “moderno” pensiero. Proprio l’aggettivo “moderno”, che fa da contraltare ad “antico”, serve a ribadire, a mostrare che, se vi è il germe di cambiamento, esso è tra gli uomini:

“è un modo de pensà tutto moderno

e in questo nun ce trovo ‘sto gran male.

 

Se er frammassone cià li tre puntini,

er prete cià er treppizzi, e m’hai da ammette

che armeno in questo qui je s’avvicini”.

Dopo la fine della seconda guerra mondiale, con la caduta del Fascismo e la liberazione è tutto un fiorire e rifiorire di attività anche artistiche e culturali. Anche le porte del Tempio si riaprono, ed i Lavori tra le Colonne riprendono con convinzione.

È a questo punto che Trilussa cede alle sollecitazioni degli amici massoni, e chiede l’affiliazione che viene quindi accettata, ma che, purtroppo, non verrà mai messa in pratica ritualmente a causa della morte del poeta. Vi sono tutti gli elementi per pensare che la sua sia stata una richiesta ben cosciente, e sostenuta da una buona cultura in fatto di cose massoniche, e dalla sicurezza della buona fede di chi lo invitò.

Nonostante la mancanza dell’ultima mossa (l’iniziazione), Trilussa, vero e sincero uomo libero per definizione, che di Libertà, Uguaglianza e Fratellanza aveva costellato la sua vita e la sua opera, non può non essere considerato, dunque, un Figlio della Vedova, un vero e proprio ‘iniziato’.

 

L’ultima grande lezione di Tullio De Mauro: l’ignoranza strumentale italiana

Se c’è una lezione che la triste giornata di ieri ci ha insegnato, e della quale si dovrebbe far tesoro, è quella – l’ultima – del compianto Tullio De Mauro (Torre Annunziata, 30 marzo 1932 – Roma, 5 gennaio 2017).
Uomo libero, colto e raffinato, Tullio De Mauro aveva dedicato la vita al Paese, con un impegno non solo politico, ma anche sociale (si tengano a mente, a tal proposito, le correlazioni ‘Smithiane’ tra padronanza della lingua e fluidità dell’economia di uno Stato). Quanta inutile fatica, si potrebbe essere portati a pensare, in un periodo storico buio e miope, come quello in cui viviamo. Sì, perché i giovani non leggono più, o leggono davvero poco; perché l’italiano medio, dati alla mano, coglie con fatica il significato di un breve e semplice testo, e non pare, a causa di ciò, soffrire; perché il classico utente delle principali fonti del web, e dei social network più in vista, riesce a stento a verificare la veridicità di una notizia.

Perché, dunque, continuare a farsi strada in un ginepraio senza un’apparente via d’uscita, ed anzi, con prospettive future anche peggiori? Tullio De Mauro conosceva bene la situazione di un’Italia culturalmente in ginocchio. Un’Italia sulla scia peccaminosa dell’abbandono progressivo dell’uso pieno della lingua più pura. Un’Italia che De Mauro vedeva sempre più superficialmente anglofona. “Superficialmente” perché, come aveva più volte notato il linguista traduttore dell’illustre Ferdinand de Saussure, se da un lato l’italiano medio ricorre sempre più spesso agli anglismi, sempre meno italiani possono dirsi realmente ferrati in una lingua straniera. E sapeva, De Mauro, che la lingua italiana, un tempo controllata e misurata, andava sbilanciandosi – come aveva puntualizzato in un intervista decentemente recente – verso il turpiloquio, verso le parolacce liberalizzate anche in ambienti politici e culturali (i giornalisti si compiacciono nell’usarle, aveva detto). Era a conoscenza, infine, l’ottimo ed instancabile Tullio De Mauro, della tragedia dell’ignoranza italiana quale instrumentum regni. Un tasso catastrofico d’impossibilità al raziocinio, che, in una scala di cinque livelli – numeri e studi tutti suoi – relegava ai terribili primi due posti la maggioranza della popolazione in età lavorativa.

Cosa fare, dunque? Cosa pensare? È forse, l’Italia, una nave che affonda, e da abbandonare pena la tragica fine? Tullio De Mauro conosceva altro, oltre alle ferite di un’Italia martoriata. Sapeva l’Italia non essere l’unica vergogna mondiale, ed anzi essere seguita di pari passo dalla Spagna. Sapeva l’ignoranza strumentale avviluppare gran parte di Paesi europei primi per civilizzazione ed evoluzione del sistema d’istruzione, nonché più della metà della popolazione adulta degli USA. Sapeva, Tullio De Mauro, che il politico, lo scrittore ed il giornalista tendono alla parolaccia più che mai, ma non hanno, essi, la forza di deformare una lingua forte, complessa e profonda, come “quella di Dante”.
Ecco come reagire, all’alba del primo giorno senza Tullio De Mauro. Guardando al peggio, e muovendoci verso il meglio, in maniera consapevole, severa, ma ottimistica.

Fabio Delizzos, autore de ‘Il collezionista di quadri perduti’, in uscita a gennaio

Fabio Delizzos, classe ‘69, è uno di quegli autori che non hanno bisogno di presentazioni particolari. Noto al grande pubblico, infatti, è ormai tra gli autori maggiormente letti ed apprezzati, nel panorama internazionale del thriller contemporaneo. Storia, azione, esoterismo, misteri velati, sono alcuni degli elementi che i lettori trovano tra le sue pagine. Già autore di cose letterarie come La setta degli alchimisti e La cattedrale dell’Anticristo, Delizzos sta per tornare in libreria, con un titolo che è un manifesto: Il collezionista di quadri perduti (Newton Compton), disponibile in libreria già dal prossimo 2 gennaio.

Gli abbiamo chiesto anticipazioni riguardo al suo ultimo lavoro e lui ci ha cortesemente concesso “qualche pennellata”.

Ciao Fabio, siamo agli sgoccioli, poi uscirà la tua nuova, attesissima creatura. Come vivi l’ennesima attesa?

Ciao e, innanzitutto, grazie mille per l’accoglienza su ‘900letterario. Questa domanda mi piace molto. La parola “attesa” racchiude l’essenza della scrittura. E anche della lettura. A chi gli chiedeva quale fosse il segreto per scrivere un romanzo avvincente, il grande Charles Dickens rispondeva: “Fateli aspettare”, alludendo ai lettori. Questo vale ancor più per i thriller, dove serve un’attesa ben congegnata, la cosiddetta suspense. Il compito di uno scrittore è saperlo creare questo magico indugio, e non lo si può ottenere se si lavora con la smania di fare presto. La pazienza è tutto. Non serve solo a portare avanti, giorno dopo giorno, un lavoro per lo più solitario, che può durare molti mesi o anche anni: è davvero l’abilità fondamentale. Niente allena la capacità di aspettare quanto scrivere e pubblicare. Dunque… non sto più nella pelle, non vedo l’ora che arrivi il giorno in cui il libro sarà disponibile in libreria!

I tuoi lavori hanno appassionato i lettori di molti Paesi, esercitando un fascino raro e tutto particolare. Il 2 gennaio, invece, vedrà la luce Il collezionista di quadri perduti (Newton Compton). Dobbiamo aspettarci un appeal ugualmente potente?

In effetti, cerco di imparare da libri che sono scritti con potenza narrativa, come quelli di Cormac McCarthy, come Misery di Stephen King, Q dei W Ming, Il nome della Rosa di Umberto Eco… Quel che posso dire con certezza è che mi sono divertito a scriverlo, ho lavorato con passione, ispirazione ed entusiasmo, mi sono come sempre rotolato fra le parole e sono andato spesso in una sorta di estasi creativa. Spero per lo meno di aver a trovato le atmosfere, i toni e il linguaggio che preferisco, e di essere migliorato nella tecnica compositiva, grazie all’esperienza. Sono ansioso di poter vedere con gli occhi altrui anche questo nuovo racconto.

Il collezionista di quadri perduti. L’ennesimo tuo titolo dal messaggio chiaro, e dal sapore fortemente misterioso. Ti andrebbe di togliere uno sfizio ai tuoi lettori, esplicandolo e commentandolo al loro posto?

Il titolo si riferisce al personaggio principale del romanzo, Raphael Dardo, il quale è alla ricerca di opere d’arte che corrono il rischio di andare perdute per sempre. Tra queste ci sono i dipinti eretici destinati al rogo dall’Inquisizione; i quadri raffiguranti i criminali non ancora catturati, che venivano condannati al rogo in effigie; e gli affreschi che ritraevano i volti dei criminali ricercati dalle autorità, veri e propri “identikit” ante litteram. Ma ovviamente non sono questi i quadri davvero perduti, quelli veramente importanti cui si allude nel titolo. Bisognerà scoprirlo!

E dunque, che storia ci hai riservato, per questa tua nuova fatica? Puoi anticiparci qualcosa?

Un agente segreto di Cosimo I de’ Medici (accompagnato da un alchimista, inventore e prestigiatore ebreo) è alla ricerca di quadri eretici da salvare dal fanatismo degli inquisitori, ma si troverà a fare i conti con un complotto internazionale e, soprattutto, con la scottante e dura verità che riguarda la sua stessa vita, il suo passato, la sua famiglia. Parlando di quadri, poi, ho voluto creare delle situazioni e dei personaggi pittoreschi. È una storia che unisce mistero e azione, ci sono inseguimenti, sparatorie, avvelenamenti, cardinali che addestrano scimmie, modelle mozzafiato, satanisti e naturalmente pittori. Non posso dire molto di più, naturalmente: giusto qualche pennellata.

In quale tetro teatro si agiteranno i tuoi nuovi personaggi? E qual è, in breve, la figura che ti ha soddisfatto maggiormente, tra tutte?

Il teatro è quello magnifico e allo stesso tempo miserevole della Roma cinquecentesca. La storia si svolge nel maggio del 1555, mentre è in corso il conclave che eleggerà papa il fanatico inquisitore Gian Pietro Carafa. L’Inquisizione sta dando la caccia a degli eretici, tra i quali un pittore misterioso chiamato l’Anonimo. E una modella viene ripescata morta dalle acque del Tevere. La storia si dipana in molti luoghi: nelle sale affrescate dei Palazzi Apostolici, nei bordelli di lusso, in oscure catacombe, in chiese sconsacrate, nei sotterranei di San Pietro, in affollate osterie e in sontuosi palazzi. La figura che maggiormente mi soddisfa? È Raphael Dardo, il cacciatore di quadri perduti.

Le tue precedenti opere hanno impressionato anche per un lessico controllato e consapevole, costellato di termini ed espressioni chiave, che tradiscono una cultura storica – ma anche esoterica – non indifferente. Quello de Il collezionista è lo stesso Delizzos, o il registro è cambiato?

Stavolta tutte le informazioni necessarie al lettore (sul periodo storico, sull’arte…) giungono in modo più immediato, insieme al naturale fluire degli eventi; non ci sono momenti didascalici o spiegazioni, né lunghe né corte. Domina l’azione. L’elemento esoterico non manca affatto, tuttavia è in secondo piano, come sotto un velo; i misteri non sono lì per essere svelati alla fine con straordinarie e inaudite rivelazioni: permangono, fungono da motore, fanno vibrare l’edificio narrativo, emanano la loro energia. In effetti il vero segreto, il vero mistero in questa storia è quello della natura umana, dell’amore, dell’odio, del tradimento, della follia.

Un saluto per i tuoi lettori, ed uno per chi non ti ha ancora letto?

Li saluto tutti indistintamente con un enorme abbraccio. Chi legge è mio amico, a prescindere che legga me o altri autori. E poi gli uni e gli altri sono per me fondamentali: senza le mie lettrici e i miei lettori avrei forse qualche romanzo nel cassetto, scritto per me stesso o per gli amici, e ognuno di questi ipotetici manoscritti non sarebbe che la metà di una storia, perché chi legge crea l’altra metà; e, d’altro canto, senza coloro che ancora non hanno letto i miei libri mi mancherebbe la spinta a migliorare continuamente, a cercare di rinnovarmi per conquistare e convincere anche chi finora non si è accorto di me e dei miei lavori. Dunque, a tutti quelli che come me amano leggere, Auguro Buone Feste e un nuovo anno pieno di bei libri.

Ad maiora, Fabio!

Vale!

‘Doppio sogno’ di Arthur Schnitzler: un cammino iniziatico

Arthur Schnitzler ˗ classe ’62 dell’Ottocento˗ non ha bisogno di presentazioni. La sua arte letteraria, fine come poche altre al mondo, fu il prezioso filo d’oro con cui potè tessere opere di fattura pregevole, godibili da chiunque senza particolari esercizi di raziocinio. La semplicità del linguaggio e della costruzione, dote tipica dei grandi ˗ come ribadito con convinzione in altre sedi ˗ , è la malta perfetta, anche e soprattutto in un libro profondo come Doppio sogno (1926), per legare assieme le preziose pietre grezze dei vari episodi della storia, che divengono pietra d’angolo totale nella realizzazione finale dell’opera.

Copiosa la critica, abbondante la rielaborazione della Doppelnovelle, ai fini cinematografici. Doppio sogno divenne la Dream story di BBC Radio 4, ed un interessante film di Mario Bianchi, oltre che un capolavoro assoluto del cinema mondiale: Eyes Wide Shut  (1999), di Stanley Kubrick, ch’ebbe l’onore di essere l’ultima opera cinematografica del regista più geniale della storia del cinema.

Doppio sogno. Un titolo dal sapore quasi scientifico, psicanalitico. Molti quelli che l’attribuirono ad una forte influenza di Sigmund Freud sull’autore che, nel suo diario, invece, scriveva che «non è nuova la psicanalisi ma Freud. Così come non era nuova l’America ma Colombo».

E certamente, seppe scrutare, indagare e penetrare l’inconscio umano, Schnitzler, componendo il suo breve e potente romanzo. Nella storia, l’autore mette a nudo la realtà, ponendola ad un lettore che, sprovveduto, potrebbe ingannarsi e ritrovarvi dell’irreale, del trascendentale. Se è vero, infatti, che la realtà supera di gran lunga l’immaginazione, chi legge Doppio Sogno si trova a misurarsi con una spirale di accadimenti facilmente riconducibili alla vita reale, ma narrati in un abile stile asciutto e privo di fronzoli, dal forte impatto e dalla potente natura evocativa: qualcosa di molto simile all’in-credibile ed im-possibile mondo onirico.

Tra le pagine si agita una vita piacente e lussureggiante. L’ambiente è quello di una elegante ed accogliente cittadina austriaca. Una realtà fatta di seri cappotti borghesi; caldi caffè, colmi di gente fino a notte fonda; carrozze misteriose; sfarzosi e goliardici balli in maschera; una grottesca società segreta. Fridolin, un bell’e giovane medico con una carriera soddisfacente, ed Albertine, sua degna moglie, tornati a casa da una particolare e sfarzosa mascherata, forse eccessivamente stimolante, ingaggiano una banale discussione che degenera in un velenoso scambio di confessioni taglienti. Gesti, pensieri, desideri peccaminosi, malizie, confluiti di getto in una serata irreale e quasi insana, ed altrimenti non confessabili. Le ammissioni dispettose, fatte quasi prevalentemente per ferire l’altro, fanno scattare in entrambi i coniugi, per tutto il racconto, una serie di pulsioni e tensioni visionarie, che rivelano una sorta di sentimento astioso dell’una e dell’altro protagonista. Una urgente telefonata di lavoro per il dottore interrompe il litigio, costringendolo ad uscire di casa nonostante l’ora tarda. Fridolin si ritrova, così, immerso nell’invernale città notturna, che gli apre un cuore di misfatti, tentazioni, passioni, misteri. Le vicende del protagonista s’intrecciano casualmente con quelle di un’oscura e bizzarra società segreta, il cui nome non è dato sapere, e che si riunisce esclusivamente a notte fonda, protetta da una parola d’ordine. All’alba, al suo rientro, Albertine gli rivelerà uno strano sogno appena fatto, l’analisi del quale farà capire a Fridolin molte più cose di quanto non immaginasse, sulla propria moglie.

L’opera si conclude con un compromesso formidabile, pulito, eppure affatto banale, che rivela una certa, geniale concezione psicologica della vita da parte di Arthur Schnitzler; una singolare Weltanschauung, se si vuole, che l’autore pone come una verità alla quale i protagonisti giungono solo alla fine di un tribolato cammino iniziatico. Il mondo non è propriamente del Conscio, né propriamente dell’Inconscio, ma d’un celato Conscio intermedio, quasi del tutto impercettibile, colto raramente dall’uomo comune, e che lo scrittore ha voluto confidare apertamente, in maniera assai alta, ed abilmente codificata.

Luis Sepùlveda, un killer sentimentale per un noir originale

Le storie di killer, si sa, sono torbide. Sanno di vecchie polaroid, di fumo di sigarette ammezzate, di liquori aspri, di lerciume e sangue; e sanno di disumana confidenza con ognuno di questi elementi. Si potrebbe riconoscere un normale noir, senza particolari difficoltà, fin dalle primissime parti dell’opera. Si potrebbe, per giunta, decidere di abbandonare la lettura dell’ennesimo ‘mattone’ letterario, vinti dal tedio dell’aver già colto il prolisso disegno dell’autore, pur di non morire d’un libro scontato e malamente farcito. Tristemente ‘semplice’, oggigiorno, concepire storie simili: ambientazioni scure ed umide; personaggi poco raccomandabili; particolari scabrosi e registri coloriti. Totalmente diversa è la lettura del romanzo di Luis Sepùlveda, Diario di un killer sentimentale, risalente all’ormai lontano 1996: una storia che si legge, si rilegge, si vive con trasporto, e non si abbandona mai. In un uno spazio di poco più settanta pagine, l’autore ha inserito tutto un mondo nuovo, nell’ormai collaudato cosmo del roman noir.

Nella finzione letteraria, la narrazione è suddivisa in sette giorni: la quantità di tempo necessaria alla Creazione, o, verosimilmente, all’ottima realizzazione di un’opera ben fatta. L’io narrante è quello stesso del protagonista, un abile e quotato killer professionista al servizio dell'”uomo degli incarichi”, una persona mai incontrata fisicamente (“perché così funzionano le cose tra professionisti”). Il brillante assassino, nel punto più pieno della sua carriera, commette un errore: s’innamora di una giovanissima donna francese, che lo trascina in una costosa ed incauta vita aristocratica. Una giostra lussureggiante, interrotta dal protagonista esclusivamente per i viaggi di lavoro, al solo scopo di raggiungere le sue vittime, e ripartire.

All’alba, però, di una nuova commissione, un incarico con “sei zari sulla destra ed […] esentasse”, la bellissima francese tronca  la relazione, facendo piombare il protagonista in un insano vortice di ripensamenti e di monologhi profondi, insieme con la sua coscienza che agisce tramite la sua stessa immagine riflessa nello specchio, o tramite le foto dell’obbiettivo da eliminare. Tutta una serie di errori e tentennamenti che portano alla contrattazione di un pensionamento anticipato, fissato, ovviamente, al compimento di quell’ultimo lavoro. Nonostante i passi falsi e le incertezze, il killer si fa strada fino alla fine, trascinandosi dolorosamente fino al culmine di quell’ultimo omicidio, in un finale dal colpo di scena agrodolce.

Diario di un killer sentimentale, è un noir avvincente, spregiudicato ed efferato quanto basta. Una narrazione esile, asciutta ed agile, che alcuni canuti accademici annoiati, ai tempi, definirono scontata, ma che sorprende e colpisce il lettore ignaro come un colpo d’arti marziali, secco ed efficace. Un’opera in cui la crudeltà fredda del romanzo nero si mescola coi tormenti interiori di un’anima inaspettatamente fragile, e con debolezze e problematiche tutte umane, e tutte nuove, in un sottogenere già collaudato, ma abilmente svecchiato. “[…] perché era vero, l’amavo, ma non potevo agire diversamente in quel mio ultimo lavoro”.

‘Lolita’ di Nabokov, un tacito insegnamento

“Lolita, luce della mia vita, fuoco dei miei lombi. Mio peccato, anima mia”.

Un incipit assai noto, eppure affatto banale. Quasi imprescindibile, se si vuol discorrere del romanzo di Vladimir Nabokov. Quando Lolita (1955) vide la luce, venne accolto da un ciclone di critiche, ed indignato moralismo, difficile da immaginare oggi, in un momento storico in cui il mondo corre frenetico, avido di vita cruda, mai sazio di clamore. Eppure, la tormentata relazione, tra il raffinato Humbert Humbert (errante insegnante di letteratura) e Dolores Haze (piccola, scaltra dodicenne), sollevò, a suo tempo, un polverone di ingiuste ed insensate accuse di pornografia e pedofilia, davvero lunghe ad estinguersi. Ingiuste ed insensate, poiché oltremodo riduttivo e fuorviante sarebbe ridurre il capolavoro di uno dei più abili Russi della letteratura ad un misero racconto lascivo.

Lolita: trama e contenuti

Il protagonista espone la narrazione attraverso la forma del diario, in quella che potrebbe essere considerata, non a torto, una dolorosa eziologia. Un’esasperata analisi di tutta la faccenda riguardante la sua adorata Lolita. Rievoca il suo passato, spolverando un amore d’infanzia, la piccola Annabel, bambina conosciuta in un’estate spensierata, assieme alla quale Humbert scopre il mistero, fascinoso ed ossessionante, del desiderio carnale. I due ragazzini, coinvolti e curiosi, instaurano un legame sempre più solido, che si spezza, crudelmente, con la morte improvvisa di lei. È la fine della crescita sentimentale del protagonista. Egli svilupperà, negli anni, una brillante intelligenza ed una vasta cultura, desumibile dal francese aristocratico, dai gallicismi, dai latinismi, dalle allusioni precise sugli usi e costumi di vari Paesi, dalle citazioni di poeti quali Poe ed i grandi Francesi maledetti. Nonostante la crescita culturale, però, egli rimane imprigionato, a causa della cupa e scioccante privazione del suo giovane amore, in una dimensione solipsistica, in cui l’unica vera, appagante passione è quella per le bambine. Non per tutte, ma per le “ninfette”: creature smaliziate, furbe, già flessuose nonostante la tenera età, e pericolosamente inconsapevoli del loro fascino:

“Lolita […]. Una sua simile l’aveva preceduta? Ah sì, certo che sì! E in verità non ci sarebbe stata forse nessuna Lolita se un’estate, in un principato sul mare, io non avessi amato una certa iniziale fanciulla”.

La vita di H.H. scorre nel tormentato ricordo della piccola Annabel, tra occhiate furtive alle ninfette dei parchi, e morigerati, ma poco appaganti, amori coetanei, quando, per un purissimo gioco del destino, egli incontra la placida Charlotte una vedova americana (madre di una dodicenne) semplice e piacente, ma culturalmente scialba. Nella casa della donna, il protagonista conosce quello che diverrà l’amore della sua vita, la piccola e vivace “Lo”. Egli, accecato dall’insano sentimento, e dalla tensione sessuale nei confronti della ninfetta, decide di sposare la donna, pur di trascorrere quanto più tempo possibile con il suo tesoro: “Non sarebbe stata per sempre Lolita. […] Entro un paio d’anni avrebbe cessato di essere una ninfetta e si sarebbe trasformata in una ragazza”.

Saldamente legato al principio morale del “non corrompere una minorenne”, del far sì che la magia della passione si compia solo per sé, senza macchiare l’innocenza di una bambina, Humbert vive di sguardi, di salaci scambi di battute, di attimi di estasi non cogliendo che l’odore dei capelli di lei, e di carezze e strusciamenti che egli si sforza di non accentuare, ma che la piccola Lo coglie, e non sembra affatto aborrire. Il freno morale che H.H. si impone per molto tempo, viene levato bruscamente dalla subdola Lolita. Charlotte muore per un incidente, ed il protagonista si pone immediatamente come unico tutore possibile per la bambia. I due, rimasti soli, iniziano un lungo viaggio per le autostrade dell’America. Subito dopo il primo pernottamento, in uno dei Motel (il prestigio dei quali crescerà, con la fame calcolatrice della piccola) che l’insolita coppia visita, Lo si concede spudoratamente al protagonista, che perde ogni ritegno, e si abbandona, con lei, ad ogni sorta di piacere fisico, ed immergendosi nel rocambolesco e grottesco ruolo di tutore-amante, in un turbinio di sesso, ricatti, gelosie, paranoie. In giro per l’America. A bordo della vecchia auto di Charlotte. In un mondo sospettoso e minaccioso, in cui l’unica cosa che conta è farla franca, con la legge, con gli sguardi indiscreti, con l’amante. Lolita è incapace di amare. Trascina la storia per due anni, timorosa di finire in riformatorio, senza un tutore. Humbert muore di lei, e la vizia, le fa studiare recitazione, la coccola, la invoca come una dea (“Lolita mia!”).

L’abbandono, il vero male

Durante il lungo viaggio, l’annoiata, insofferente e viziata Lolita si ammala. Ricoverata la ragazza, H H si ritrova, per la prima volta dopo due interi anni, senza la compagnia della sua piccola amante. Ella, riavutasi in pochi giorni dalla malattia, trova il modo di scappare dal suo tutore, ed andar via dall’ospedale insieme con Quilty, un insano regista poco raccomandabile, conosciuto durante un corso di recitazione, col quale teneva i contatti, durante il viaggio, in attesa dell’occasione giusta. Lolita, ingenuamente innamorata del regista, si affida totalmente a lui, mentre il protagonista, in preda alla disperazione, segue le loro tracce di Hotel in Hotel, senza però riuscire mai ad acciuffarli. Infine, Humbert desiste. Ingaggia una storia passeggera con Rita, una donna dalla reputazione poco invitante, finché, un giorno, non giunge un’inattesa lettera di Lo. H.H la raggiunge, ed ascolta la storia che la ragazza, ormai diciassettenne, ha da raccontare.

Quilty l’aveva portata via, con l’unico, torbido intento di approfittarsi di lei, di inserirla nel mondo della pornografia, e del suo mondo fatto di droghe ed alcol. Ella, innamorata e delusa, aveva rifiutato, ed era stata abbandonata. Subito dopo, aveva incontrato l’ignaro Dick, dal quale, ora, attendeva un figlio. Humbert Humbert doveva limitarsi ad aiutarli economicamente.

Consegnata una grossa somma alla ragazza, non riuscendo a negarle alcunché, H H esplode in un pianto disperato, implorando la sua Lolita di seguirlo, di partire insieme e rimanere inseparabili per il resto della vita, ma riceve una secco rifiuto.

“Voglio che tu lasci il tuo occasionale Dick, e questa topaia orrenda, e che venga a vivere con me, e a morire con me, e tutto con me”.

Respinto irrimediabilmente, H.H correrà a raggiungere Quilty, il vero male, il reale, sporco approfittatore. Il personaggio finemente adagiato, dal sapiente Nabokov, tra le pagine di un romanzo che, più che turbare, invita ad una riflessione. Spinge all’analisi complessa del ‘mostro’, alla ricerca della causa. Esorta all’attenzione e mette in guardia dal giudizio facile (quello che, il più delle volte, risulta fatale), mostrando la netta linea di confine tra il moralmente inconcepibile ed il male.

“Io ti amavo. Ero un mostro […], ma ti amavo. Ero ignobile […] e tutto quello che vuoi, mais je t’aimais, je t’aimais!“.

Domenico Dara torna in libreria con ‘Appunti di meccanica celeste’

Domenico Dara, classe 1971, finalista del Premio Italo Calvino 2013, tornerà in libreria il 6 ottobre, dopo aver mostrato il suo Breve Trattato sulle coincidenze a tutta Italia. Lo fa con Appunti di meccanica celeste (Nutrimenti), un titolo seducente, che fa già scalpitare il pubblico. L’autore ci ha anticipato qualcosa riguardo il suo ultimo lavoro a due anni dal successo del Breve Trattato.

– Ciao, Domenico. Sono passati due anni dalla pubblicazione del “Breve trattato sulle coincidenze”. Vorresti, o meglio, riusciresti a fare un bilancio delle emozioni di questo brillante periodo d’esordio?

Sono stati due anni intensi, straordinari, per alcuni versi inattesi. Ho conosciuto tanta gente, ho avuto il privilegio di parlare a molti del mio libro, e soprattutto è maturata una consapevolezza che prima non avevo. È bello fare i conti con abitudini che prima erano solo timide proiezioni di vita.

Il protagonista del tuo primo capolavoro, il postino di Girifalco, ha conquistato lo Stivale. Il 6 ottobre, invece, vedrà la luce “Appunti di meccanica celeste”. Dobbiamo aspettarci un appeal ugualmente potente?

Alla luce del successo del Breve trattato sono consapevole della difficoltà rappresentata dal secondo lavoro. Non so se l’appeal è ugualmente potente, non spetta a me affermarlo, ma spero che i lettori che hanno apprezzato la prima opera apprezzeranno anche gli Appunti. Vivo questa seconda uscita con molta serenità: non mi sento affatto sotto esame, e non c’è mai stato un attimo in cui ho fatto confronti in termini qualitativi con il Breve trattato. Ho scritto un libro che mi piace, e questo è ciò che conta.

– “Appunti di meccanica celeste”. Un titolo, come ci stai piacevolmente abituando a constatare, particolare, romantico, quasi solipsistico ed ossimorico. Ti andrebbe di esplicarlo, anche in maniera vaga, astratta, surrealistica?

Il titolo fa riferimento a un personaggio particolare, Archidemu Crisippu, lo stoico, che dalla sua finestra che dà sulla piazza principale del paese, osserva le genti muoversi convincendosi che anche gli uomini si muovono come corpi celesti, seguendo traiettorie e orbite già tracciate. Si devono a lui i frequenti accostamenti tra le azioni umane e le leggi dell’universo. 

– E dunque, che storia ci hai riservato, per questa tua nuova fatica? Puoi anticiparci qualcosa?

I protagonisti sono sette personaggi colti in un momento in cui la loro vita è come sospesa, stagnante: Lulu il pazzo che vaga per il paese suonando le foglie e aspettando il ritorno della madre; Archidemu Crisippu schiacciato dai sensi di colpa per il fratello scomparso; l’epicureo don Venanzio, amatore sopraffino; Cuncettina ‘a sìcca, che sospira al figlio mai nato; Angeliaddu che desidera il padre che non ha mai avuto, Mararosa che maledice Rorò per averle rubato l’amore della vita. Notte di San Lorenzo, tutti e sette esprimono un desiderio sulla stessa stella cadente. Il giorno dopo, richiamato forse da quei desideri ogni anno gli stessi, arriva a Girifalco un circo diverso dal solito,  una carovana avvolta da un’aura incantata, un corteo di elefanti e domatori, trapezisti, lanciatori di coltelli e illusionisti. La novità scuote la gente ed eccita gli animi, e cambierà per sempre le sorti dei sette protagonisti del romanzo.

– L’ambientazione del tuo primo romanzo è stata la tua cara Calabria, precisamente la magica Girifalco degli anni Sessanta. In quale teatro onirico si muoveranno i tuoi nuovi personaggi? E qual è, in breve, tra tutte, la creatura che ti ha soddisfatto maggiormente?

I sette protagonisti vivono e abitano ancora una volta a Girifalco, ma in anni più vicini ai nostri. Di loro non saprei sinceramente indicare chi mi sta di più a cuore poiché in tutti riconosco una parte di me, posso però affermare che il più difficile da gestire è stato lo stoico Archidemu, un personaggio complesso, vero continuatore del postino pensatore.

– Col tuo Breve trattato, hai impressionato anche con  la tua abilità di sedurre lettori di ogni dove, con un lessico sapientemente costellato di termini ed espressioni dialettali girifalcesi. Quello degli Appunti, è lo stesso Dara, o il registro è cambiato?

Il registro è rimasto invariato, poiché mi sembra impossibile scrivere una storia a Girifalco senza mutuarne il linguaggio. Ho dunque optato ancora una volta per la formula che mescola italiano e dialetto, anche se quest’ultimo è stato utilizzato con più parsimonia rispetto al Breve trattato.

Focalizza i tuoi lettori del Breve Trattato. Visualizza, poi, chi non è ancora stato iniziato ai misteri delle tue pagine. Un messaggio per gli uni, ed uno per gli altri . . .?

A coloro che hanno letto il Breve trattato apprezzandone la storia, i personaggi e il linguaggio, posso dire che non resteranno delusi. Per chi invece non conoscesse ancora ciò di cui stiamo parlando, è l’occasione giusta per entrare in un mondo che, ne sono certo, non li lascerà indifferenti.

Domenico Dara, autore di “Appunti di meccanica celeste”

 

Se è vero che, per dirla con un insegnamento del nolano Bruno, si raccoglie ciò che si semina, l’augurio a Domenico Dara e al suo Appunti di meccanica celeste è quello di continuare a seminare, ancora e ancora. Ad maiora semper!

Calvino e quel suo Barone rampante-‘Iniziato’

Il Barone rampante e l’aspetto massonico. Scrivere di Italo Calvino (1923 ˗ 1985) è sempre una fatica ingrata. L’estasi delle sue pagine è inversamente proporzionale alla difficoltà del misurarsi col suo genio inarrivabile. Quale scrittore non sogna la sua agilità stilistica, e la sua capacità di aggettivazione accurata e mai pedante? Quale uomo di lettere non brama la sua maestria nell’essere ostico in proposizioni semplici, e facilmente godibile in periodi quasi interminabili? Questa, la sua caratteristica più gustosa: una padronanza invidiabile della parola scritta, grazie alla quale l’autore si misurava col foglio bianco, intagliando fini ghirigori di alto pregio, in una resa tale da far apparire l’impresa quasi facile. Prolifico ed estroso, Calvino ha costellato la letteratura italiana di capolavori di indiscutibile fama, pregni di simboli ed insegnamenti iniziatici affatto trascurabili.

Figlio e nipote di massoni (Libero Muratore era stato suo nonno, Giovanni Bernardo; e la stessa strada la percorsero suo padre, Mario, e suo zio Quirino), Calvino ebbe modo di assorbire l’insegnamento iniziatico di una Massoneria che più volte trasparì dai suoi scritti. Uno dei casi più espliciti, e comunque uno dei più particolari, è il romanzo del 1957: Il barone rampante.

Il Barone rampante: una storia di ribellione tra fantasia e elementi massonici

Parte integrante della trilogia I nostri antenati, insieme con Il visconte dimezzato (del ’52) e Il cavaliere inesistente (del ’59), il romanzo tratta la bislacca esistenza di Cosimo Piovasco di Rondò, giovane barone appartenente ad una nobile famiglia decaduta. La scena è narrata dal suo fratello minore, Biagio, che descrive la rigida famiglia, il paese immaginario della storia (Ombrosa), e tutte le vicende, con accuratezza e generosità di particolari. Tutto comincia quando, con un gesto di ribellione all’inflessibile autorità del padre,  Cosimo (detto anche “Mino”) rifiuta di mangiare un piatto di lumache, allontanandosi, piccato, dal desco paterno, per sparire in cima agli alberi del vasto giardino di casa, e per non rimettere mai più piede a terra. Durante la sua intera vita tra i rami, Mino non si fa mancare alcuna esperienza, ed anzi, la sua esistenza è densa d’avventure d’ogni sorta. S’innamorerà di Ursula, vivrà tra duelli, battute di caccia, beffe, e peripezie, serbando, per la vecchiaia una fine scenografica.

Nella vita del protagonista del Barone rampante (ed in quella del narratore), non manca l’elemento massonico. Ci confida, infatti, Biagio, iniziando il Capitolo XXV, e ragionando delle questioni segrete del fratello:

“Io non so se a quell’epoca già fosse stata fondata a Ombrosa una Loggia di Franchi Muratori: venni iniziato alla Massoneria [. . . ] dopo la campagna napoleonica [. . . ] e non so dire perciò quali siano stati i primi rapporti di mio fratello con la Loggia”.

Da questo punto, il narratore del Barone rampante vola con la memoria ad un particolare episodio: due spagnoli, giunti ad Ombrosa, incrociano la loro strada con quella di Cosimo. Ne nasce un diverbio. Uno dei due sfodera la spada, sfidando a duello il protagonista, e raggiungendolo sugli alberi. Nella foga dell’attimo, Mino apre la sfida al grido massonico di “A Gloria del Grande Architetto dell’Universo”. Il ‘terreno’ dello scontro è scomodo, ma i due tirano di spada senza problemi, e senza reverenza. Dopo un tiro mancino dello spagnolo, a spuntarla è comunque il barone di Rondò, che raggiunge l’avversario al ventre, facendolo rovinare al suolo. Il particolare del motto massonico non sfugge a Biagio, che archivia il discorso asserendo: “Da quel giorno mio fratello ebbe fama generale di frammassone”.

Il capitolo continua con una gustosa digressione sulla fantasiosa Massoneria di Ombrosa, fatta di rituali particolari, e di riunioni tenute all’aperto, celate nel bosco, alla luce di fiaccole e candele, e simboli affatto ortodossi. Una società segreta nella quale Cosimo, secondo le supposizioni di Biagio, sembra quasi inciampare per puro caso:

“È possibile che la Massoneria esistesse già da tempo, all’insaputa di Cosimo, ed egli casualmente una notte, muovendosi per gli alberi del bosco, scoprisse in una radura una riunione d’uomini con strani paramenti [. . . ] e poi intervenisse [. . .] con qualche uscita concertante [. . .] e i Massoni, riconosciuta la sua dottrina, lo facessero entrare nella Loggia, con cariche speciali [. . .]”.

Il narratore tenta, così, di darsi una spiegazione riguardo agli ‘atteggiamenti’ ed alle pieghe poco ortodossi della Massoneria di Ombrosa, il cui fondatore pareva essere un leggendario Maestro detto “Picchio Muratore”, la cui simbologia includeva elementi ch’erano chiari richiami agli alberi (come le pigne e le civette), il cui rituale d’iniziazione prevedeva la salita su un albero e la discesa (bende agli occhi) tramite delle corde appositamente congegnate.

La semplicità della narrazione di Calvino

Semplicità disarmate, dunque, quella con cui Calvino, nel Barone rampante, mette il lettore comune a tu per tu con l’Istituzione Massonica. La semplicità della padronanza, della sicurezza, della confidenza con l’argomento e con l’arte della scrittura. Doti dalle quali nasce un romanzo che cela qualcosa di più che una semplice narrazione di riti, Logge e simboli. Un romanzo che, non a torto, può essere assimilato ad un percorso iniziatico; ad un cammino di crescita interiore del protagonista. Cosimo ˗ come l’iniziato ˗ fa una forte scelta che lo porta a camminare in parallelo coi suoi simili, ma in ambienti e dimensioni decisamente distaccati. Il regno degli alberi è il tempio in cui Mino impara a misurarsi con sé stesso, con l’universo, con quella libertà individuale cara all’ambiente iniziatico, e che è la causa fondamentale per la quale egli decide di abbandonare il restrittivo tetto paterno. Scelta ferma ed irrevocabile, quella di Cosimo, che mantiene i rapporti con gli uomini, ma che resta ad osservare la vita da una prospettiva alternativa, incomprensibile per il profano:

“Come questa passione che Cosimo sempre dimostrò per la vita associata si conciliasse con la sua perpetua fuga dal consorzio civile, non ho mai ben compreso [. . .]”.

E coerente resterà fino in fondo, il protagonista del Barone rampante, quando, alla fine del suo cammino, tacciato di follia, compirà la sua ultima ricerca interiore, anelando ad un’uscita di scena differente da quella prestabilita per l’Uomo, e ascendendo al Cielo non in maniera figurata, ma fisicamente, nell’incomprensione e nell’incredulità generale.

A ricordarlo, una stele nella tomba di famiglia:

Cosimo Piovasco di Rondò – Visse sugli alberi – Amò sempre la terra – Salì in cielo”.

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