‘Decimo Dan’, la silloge poetica esoterica di Marco Plebani

Decimo Dan, edito da Edizione la Gru è la silloge di Marco Plebani. Classe 1978, Plebani è un insegnante di Lettere presso la scuola media “E. Fermi” di Macerata. Ha vissuto la sua vita tra Montefano (MC), Macerata e Corridonia, dove attualmente vive con la compagna e con il figlio. La raccolta Un giorno qualunque (Ed OTMA, Milano 2011) è la sua opera prima, con la quale si è classificato secondo al premio A.U.P.I. (Albo ufficiale Poeti Italiani). Sono un rockettaro sfegatato, amo ballare fino allo sfinimento e “canto” (ovvero strillo) in un complesso chiamato “Tetrics”.

 

<<Adoro fare fotografie e strimpellare la mia chitarra>> dice di se stesso Plebani, nella sua biografia. Si diletta nella poesia dal 1999. Decimo Dan, raccoglie liriche composte in un arco temporale di oltre due decenni, proprio dal 1999 al 2021. Il libro si apre con la prefazione a cura di Pier Marino Simonetti e si chiude con la postfazione di Ricardo Pérez Márquez.

Il titolo dell’opera è un rimando metaforico al massimo grado delle arti marziali inteso come quel più alto livello di consapevolezza che la poesia fa raggiungere. Plebani scandisce il fluire della narrazione in un’unica giornata, cadenzata in tre momenti, antimeridiano, pomeriggio e sera e infine notte. La sezione più corposa è proprio quella di pomeriggio sera con 71 componimenti, poi a seguire notte con 68 e infine antimeridiano con 52. Lo scrittore apre la prima parte della sua silloge con Prima del Big bang:

Che cosa

è

la

vita

sulla

Terra?

È il tormentato sogno di Dio.

Già dai primi versi si intuisce il senso di malinconia e di afflizione che l’autore vive nel tempo della narrazione. La realtà di un mondo forse troppo distante, troppo diverso da lui, talvolta si percepisce quasi la sua angoscia e il suo straniamento. E’ forse per questo che In istruzioni per l’uso rivolge un invito a chi legge:

Leggimi, lettore, se questo vuoi:

fallo con voce

bassa,

lenta,

modulata,

medianica,

affrettata ove è necessario.

Che tu possa, lettore, aderire

a codesti dettagli inconoscibili;

impara, però, predisposto silenzio

Lo scenario che si apre per chi legge è un mondo fatto di magiche suggestioni ma anche riflessioni profonde e talvolta taglienti. Plebani non parla di cose distanti da lui ma di esperienze vissute, fatti personali che si consacrano di eterno una volta sulla carta. Perché colleziono ricordi per il futuro scrive nel brevissimo componimento Crono.

L’autore trasforma in versi tutto ciò che ha vissuto, e visto, descrivendo anche molto attentamente i sentimenti provati in quelle determinate situazioni: gli incontri con alcuni suoi alunni che ha conosciuto nel suo peregrinare da docente, così come le serate trascorse con qualche suo amico di uscite, determinati luoghi in cui è passato come Recanati oppure  come la poesia Parco Cormor  ispirata, invece, ad un fatto di cronaca successo a Udine nel 2012.

Plebani invita il lettore ad entrare nell’ intimo mondo di chi scrive senza paura di farsi leggere dentro, perché il Poeta è colui che sensibile pelle espone ai rovi. Da musicista l’autore ha imbastito un pentagramma poetico fatto di diverse melodie. In Decimo Dan c’è molto ritmo e musica. I componimenti che si susseguono sono di lunghezza diverse: alcune estremamente brevi altri, invece, decisamente più lunghi.  Le metriche usate sono varie: dal più comune sonetto e verso libero a qualcosa di più ricercato come il madrigale e la còbbola provenzale.

Un efficace supporto in questo senso è l’apparato delle note al testo che in maniera precisa erudisce anche i meno esperti di metrica. I versi sono per lo più endecassillabi e/o in versi sillabicamente dispari. Ogni componimento va minuziosamente decifrato. In Decimo Dan massiccio è il ricorso al mito, da Prometeo ad Orfeo, a Penelope, fino ai luoghi come Itaca.

Figure o rimandi mitologici incastonate sapientemente tra i versi, una chiave di lettura ancor più immediata per i lettori, che attraverso rimandi metaforici riescono a svelare i significati più nascosti. Ogni parola nelle sue poesie non è messa lì a caso ma tutte sono armoniosamente vicine per una costruzione. Non mancano all’interno delle poesie aspre critiche come si nota nella sezione pomeriggio sera e nello specifico nella poesia intitolata In città:

All’ascolto di urbane disarmonie

conosco un prezzo: sensibilità deviate.

Uomini chini,

colpiti ad intermittenza

da miriadi di messaggi

pubblicitari accesi e spenti.

Oppure Panta Rei:

Il naturale tramutar del tutto

porterà via volendo

un’umanità disumanizzata

da pornografia e videopoker.

Intrattenimento dei persuasori

occulti.

Uno scandalo al giorno non sia norma.

Con parole graffianti Plebani si scaglia contro un’umanità disumanizzata fatta di uomini persi con la testa negli smartphone, ormai assuefatti dal suono dei messaggi e intrappolati da pornografia e videopoker. Uomini condannati ad una dimensione inequivocabilmente orizzontale, curvi su loro stessi. Ma forse l’aspetto più sorprendente di questa silloge è proprio la parte finale: l’ultima sezione Notte si chiude con la stessa riflessione iniziale ma con una consapevolezza diversa:

Padre-Nonno che sono in Terra diventato,

lento, lento e lentamente

ancor

mi chiedo:

«Che cos‟è la vita sulla Terra?»

«Che cos‟è la vita sulla Terra?»

«Che cos‟è la vita sulla Terra?»

È il tormentato sogno di Dio

Una penna molto creativa e mistica quella di Plebani che si avvale di uno stile certamente anticonvenzionale, pungente, e ricorda la tradizione delle invettive tra Medioevo e Umanesimo, e che induce il lettore a non avere paura di andare oltre il visibile, a scoprire qualcosa, perché finché ci sono domande, ci saranno sempre risposte da trovare.

René Guénon, intellettuale atipico del nostro tempo, assertore dell’unità primordiale delle tradizioni

È proprio nel cristianesimo che Guénon riconosce l’unico reale ed effettivo collegamento tra l’Occidente e la tradizione primordiale, con i dovuti caratteri peculiari che ogni tradizione particolare presenta. È una logica che oggi pare quasi assurda, e che, anche per i più ben disposti, risulta ardua da penetrare.

“Il Mio cuore è divenuto capace di accogliere
 ogni forma,
è pascolo per le gazzelle,
un convento per i monaci cristiani,
è un tempio per gli idoli,
è la Ka’ba del pellegrino,
è le tavole della Torah,
è il libro sacro del Corano.
Io seguo la religione dell’amore,
quale mai sia la strada
che prende la sua carovana:
questo è mio credo e mia fede”.
Ibn l-Arabi, dal Tarjuman Al-Ashwaq

C’è una chiesa a Roma. Questa affermazione, priva all’apparenza di ogni funzione, essendo il numero di chiese presenti nella capitale d’Italia estremamente alto, serve a trasportarci in un luogo che può aiutarci a comprendere ciò di cui stiamo per parlare. Questa chiesa, sita in una traversa di via Labicana, alle spalle del Colosseo, è la Basilica di San Clemente.
Diversa da ogni altra, dimora dei frati predicatori, meglio conosciuti come Domenicani, la chiesa di San Clemente è composta da tre livelli. Il Primo, quello della basilica superiore, risale al XII secolo e si presenta oggi come un’affascinante commistione di stili, che si sono susseguiti dall’epoca della sua costruzione sino alle modifiche e alle ristrutturazione protrattesi fino al XVIII secolo. Un secondo livello, a cui si accede scendendo sottoterra, è costituito dalla Basilica antica, risalente probabilmente al IV secolo d.C. Anche il livello inferiore, forse unico nel suo genere e per questo ancor più suggestivo, ha subito aggiunte e modifiche nel tempo, arricchito da meravigliosi affreschi che narrano i miracoli e la storia del Santo. Ma c’è di più. Perché ad un livello ancora più basso rispetto alle due basiliche, permangono oggi i resti di una casa patrizia, in cui una zona era dedicata al culto di Mitra, divinità adorata sia nella cultura greco-romana sia in quella indo-persiana.

Guénon: grande esponente del “Tradizionalismo Integrale”

La tradizione cristiana, le sue radici e la sua evoluzione, e la tradizione pagana, rappresentata da una dea il cui culto ha travalicato le civiltà arrivando a Roma dalla lontana India, insieme in un unico complesso. Quasi unite da un filo impercettibile, le icone e i luoghi dei due culti sono ancora oggi coincidenti, uno sopra l’altro, intatti da più di 1500 anni come a simboleggiare un unicum inscindibile. Ecco, questa immagine forse, può dare l’idea dell’assunto principale su cui ruotano gli studi e gli scritti di uno degli intellettuali più atipici del nostro tempo: René Guénon.
Nato cattolico il 15 novembre 1886 a Blois in Francia, morì musulmano il 7 gennaio 1951 a il Cairo. Secondo i più smaliziati la causa della sua apostasia è da ricercare nel mancato successo delle sue idee in alcuni ambienti della intellighenzia cattolica. Una cosa è certa: non mancano detrattori al pensiero, a suo modo rivoluzionario, di René Guénon. Dal nostrano Umberto Eco – che assieme ad altri accademici rifiuta l’intero impianto del pensiero di Guénon – agli ambienti intellettuali cattolici contemporanei, che gli rimproverano, oltre all’affiliazione alla Massoneria Scozzese e a confraternite Sufi, una presunta scarsa considerazione della dottrina e della religione cristiana, nonché l’assunto principale del suo pensiero: la comune origine delle tradizioni particolari in un’unica e autentica tradizione primordiale.

La collaborazione a molte riviste degli ambienti più eterogenei, l’insegnamento in patria e nelle colonie hanno caratterizzato la vita di Guénon, sino al trasferimento a Il Cairo, in cui l’intellettuale francese continuerà a studiare e a scrivere sino alla morte, mantenendo rapporti epistolari con studiosi di tutto il mondo.
Ma più che la sua vita, ad essere d’estremo rilievo ed interesse, sono i suoi studi e il suo pensiero. Dal Taoismo all’origine dei numeri, dalla Cabala alla Divina Commedia di Dante sino all’Esoterismo Islamico, la materia di lavoro del “Great Sufi”- così soprannominato da Shri Ramana Maharshi, noto mistico Indiano –  è sconfinata. L’elemento centrale però, il perno intorno a cui questa ricerca perennemente ruota, è quello che abbiamo cercato di descrivere richiamando l’immagine della Basilica di San Clemente: l’unità primordiale delle Tradizioni. Tale concetto, di per sé oltremodo affascinante, è esplicato da Guénon in grandissima parte dei suoi scritti.
Ma quello che forse più di tutti riesce a darne l’immagine più definita in è il saggio Il Re del Mondo, comparso in Francia nel 1925.

Sull’onda di due testi: Mission de l’Inde di Saint Yves d’Alveydre e Bétes, Hommes et Dieux di Ferdinand Ossendoswki, relativi ad un antico centro iniziatico dell’Asia, situato in un mondo sotterraneo le cui ramificazioni si estendono in tutto il mondo: l’Agarttha. L’originale ed eclettico pensatore francese decise di scrivere un saggio in cui chiarì gli aspetti simbolici e la storia di questo centro; esponendo con chiarezza e scorrevolezza disarmanti tutti i collegamenti e i punti in comune che i caratteri chiave dell’Agarttha e del suo Capo, Il Brahmatma – il Re del mondo – presentavano con tutte le tradizioni. Dall’Ebraismo al Cristianesimo, passando per l’Islam siano alla leggenda del Graal e dei cavalieri della tavola rotonda, il quadro tracciato con estrema maestria dall’autore, si apre sempre di più al lettore capitolo per capitolo, disegnando una fitta trama di rimandi tra le varie tradizioni, tale da far porre degli interrogativi anche al più scettico tra gli uomini.

Ma l’Agarttha, l’inaccessibile centro di cui SainyYves e Ossendoswki parlano nei rispettivi testi, non è stato sempre nascosto. È lo stesso Ossendowski infatti ad indicare, come riporta lo stesso Guénon all’interno del saggio, che il centro è nascosto da circa seimila anni, data in cui si fa risalire l’inizio della nera età del ferro: il “Kali Yuga”.
Tramite il rimando al Kali yuga, definito dal pensatore tradizionalista come periodo di oscuramento e confusione,  si snoda l’aspra critica alla modernità che caratterizza la totalità dell’opera dell’autore.

È l’allontanamento dall’unità primordiale, dalla verità e dall’ “unica e vera conoscenza” ad essere per Guénon il tratto caratterizzante dell’età moderna, del Kali Yuga. Questa confusione comporta un continuo fraintendimento della realtà, dei simboli e della tradizione, tutti distorti sotto la lente del profano, delle moderne filosofie e delle  scienze contemporanee, che ,scollegate dai principi, a nulla possono portare se non ad accidentali e parziali verità.
In un articolo comparso sulla rivista “Voile D’Isis” nel 1935 : “Le arti e la loro concezione tradizionale”, contenuto in Italia nella raccolta Il Demiurgo e altri saggi, edita da Adelphi, Guénon si scaglia contro il concetto moderno di arte, ridotto al solo significato di “Belle arti”, rivendicando il più ampio valore del termine che ricomprendeva in sé anche i mestieri, e sottolineando come la perdita della funzione iniziatica di tali “arti” le abbia svuotate della loro funzione principale.

Nello stesso articolo Guénon esprime un’altra tagliente critica alla modernità e al suo approccio scientifico, denunciando che “ Il concetto di scienze strettamente specializzate e separate le une dalle altre è nettamente antitradizionale, in quanto rivela una mancanza di principio, ed è caratteristico dello spirito analitico, che ispira e regola le scienze profane, mentre ogni punto di vista tradizionale può solo essere essenzialmente sintetico”. L’iniziazione, è per lui – l’importanza che egli attribuisce a tale concetto è stato in parte criticato dallo stesso Julius Evola, il quale prediligeva l’approccio individuale rispetto all’affiliazione ad organizzazioni –  è un elemento ricorrente nella sua opera e nella  sua vita . Questi, come abbiamo già detto affiliato alla massoneria scozzese e  a confraternite Sufi, espresse un elitarismo reale e scevro da ogni ostacolo moraleggiante, affermando più volte come solo “pochi eletti” possano essere atti a ricevere la vera conoscenza. È cruciale il ruolo che Guénon affida ad alcune organizzazioni come i Templari e i Rosacroce nei suoi scritti, sottolineando come la dipartita di questi ultimi verso l’Asia abbia fatto cessare gli scambi spirituali e i contatti con i centri iniziatici tra Oriente e Occidente.

In un altro articolo comparso sulla rivista Études Traditionnelles nel 1940, intitolato “La Diffusione della Conoscenza e dello Spirito Moderno” egli – per usare un espressione semplicistica ma che plasticamente rende l’oggetto dell’argomentazione – critica la tensione della modernità di “sacrificare la qualità per la quantità”. Secondo lo scrittore francese  infatti “La diffusione sconsiderata di una istruzione che si pretende di impartire a tutti, attraverso forme e metodi identici, non può portare che a una sorta di livellamento verso il basso; qui come dappertutto nella nostra epoca la qualità è sacrificata alla quantità”.

Come altri prima di lui, l’intellettuale francese vedeva nell’Oriente, specificamente nell’India, un luogo in cui la spiritualità e  dunque una coscienza e una predisposizione maggiori verso la verità e la tradizione primordiale, si fossero conservate a differenza dell’Occidente, in cui sempre a sua detta non esistono nemmeno le parole per rendere ed esprimere alcuni concetti fondamentali.
Nonostante le critiche voltegli, come sopra riportato, da un certo ambiente cattolico, è proprio nel cristianesimo che Guénon riconosce l’unico reale ed effettivo collegamento tra l’Occidente e la tradizione primordiale, con i dovuti caratteri peculiari che ogni tradizione particolare presenta.
È una logica che oggi pare quasi assurda, e che, anche per i più ben disposti, risulta ardua da penetrare.
Quello che rimane, a prescindere dall’ efficacia delle tesi sostenute è la tenacia intellettuale, sono la difficoltà e la vastità degli argomenti trattati, la scorrevolezza dei testi che li rende accessibili anche ad un pubblico non specializzato, e ,soprattutto, lo sforzo titanico di chi non riconoscendosi nelle istanze del suo tempo le ha combattute con la più profonda conoscenza.
Al termine del saggio Il Re del Mondo, Guénon cita Jospeh De Maistre, pensatore francese del XIX secolo: ”Dobbiam tenerci pronti per un avvenimento immenso nell’ordine divino, verso il quale procediamo a velocità accelerata che deve colpire tutti gli osservatori. Temibili Oracoli annunciano già che i tempi sono giunti”; dicendo che tale frase è ancor più vera al suo tempo di quanto non lo fosse quando fu pronunciata. E chissà se questo tristo Vaticinio non sia ancor più vero oggi. Chissà.

Proponiamo, in conclusione, alcuni passi dall’opera di René Guénon su:

Il simbolismo
(da Considerazioni sulla via iniziatica): Il simbolismo è essenzialmente inerente a tutto quel che presenta un carattere tradizionale, è anche bello stesso tempo, uno dei tratti attraverso i quali le dottrine tradizionali, nel loro insieme (perché esso si applica contemporaneamente ai due ambiti esoterico ed essoterico) si distinguono a prima vista dal pensiero profano, al quale questo stesso simbolismo è del tutto estraneo, e questo necessariamente, per il fatto stesso che traduce propriamente qualcosa di “non umano” che non potrebbe per nulla esistere in un simile caso.
(da Simboli della Scienza sacra): Anzitutto, il simbolismo ci appare adatto in modo speciale alle esigenze della natura umana, che non è una natura puramente intellettuale, ma ha bisogno d’una base sensibile per elevarsi verso le sfere superiori.
….
Il simbolo è suscettibile di molteplici interpretazioni, in nessun modo contraddittorie, ma invece complementari le une colle altre e tutte parimenti vere, pur procedendo da differenti punti di vista. E’ sufficiente che i simboli siano mantenuti intatti perché siano sempre suscettibili di svegliare, in colui che ne è capace, tutte le concezioni di cui figurano la sintesi.

L’iniziazione
(da Considerazioni…): Iniziazione deriva da “initium” e questa parola significa propriamente “entrata” o “punto di partenza”: è l’entrata in una via che resta da percorrere, o meglio il punto di partenza di una nuova esistenza.
L’iniziazione, a qualsiasi grado, rappresenta per l’essere che l’ha ricevuta un’acquisizione, uno stato che, virtualmente ed effettivamente egli ha raggiunto una volta per sempre e che ormai nulla può togliergli.

Esoterismo
(da Considerazioni….): L’esoterismo è ben altra cosa che la religione, e non la parte “interiore” di una religione, anche quando ha la sua base ed un punto d’appoggio in questa, come succede in alcune forme tradizionali, ad esempio nell’islamismo.

Massoneria
(da Etudes Traditionnelles): I primi responsabili di questa deviazione, (la Massoneria moderna n.d.r.) a quanto sembra, sono i pastori protestanti Anderson e desaguliers che redassero le Costituzioni della Gran Loggia d’Inghilterra, pubblicate nel 1723 e che fecero scomparire tutti gli antichi documenti su cui poterono mettere le mani, perché non ci si accorgesse delle innovazioni che introducevano, e anche perché questi documenti contenevano delle formule che essi consideravano limitanti, come l’obbligo di fedeltà a Dio, alla Santa Chiesa e al Re, segno incontestabile della origine cattolica della Massoneria. I protestanti avevano preparato questo lavoro di deformazione mettendo a profitto i quindici anni che passarono tra il ritiro di Christophe Wren, ultimo Gran Maestro della Massoneria antica (1702, e la fondazione della nuova Grande Loggia d’Inghilterra (1717). Tuttavia, lasciarono sussistere il simbolismo, senza dubitare che questo, per chiunque lo capisse, testimoniava contro di essi con tanta eloquenza, quanto i testi scritti, che d’altro canto non erano riusciti a distruggere del tutto. Ecco, riassunto molto brevemente, quel che dovrebbero sapere tutti coloro che vogliono combattere efficacemente le tendenze dell’attuale Massoneria. C’è stata un’altra deviazione nei paesi latini, questa in senso antireligioso, ma è sulla “protestantizzazione” della Massoneria anglosassone, che bisogna insistere in primo luogo.

 

Fonti: http://www.granloggia.it/page/ren%C3%A9-guenon

http://www.lintellettualedissidente.it/homines/rene-guenon/

‘Doppio sogno’ di Arthur Schnitzler: un cammino iniziatico

Arthur Schnitzler ˗ classe ’62 dell’Ottocento˗ non ha bisogno di presentazioni. La sua arte letteraria, fine come poche altre al mondo, fu il prezioso filo d’oro con cui potè tessere opere di fattura pregevole, godibili da chiunque senza particolari esercizi di raziocinio. La semplicità del linguaggio e della costruzione, dote tipica dei grandi ˗ come ribadito con convinzione in altre sedi ˗ , è la malta perfetta, anche e soprattutto in un libro profondo come Doppio sogno (1926), per legare assieme le preziose pietre grezze dei vari episodi della storia, che divengono pietra d’angolo totale nella realizzazione finale dell’opera.

Copiosa la critica, abbondante la rielaborazione della Doppelnovelle, ai fini cinematografici. Doppio sogno divenne la Dream story di BBC Radio 4, ed un interessante film di Mario Bianchi, oltre che un capolavoro assoluto del cinema mondiale: Eyes Wide Shut  (1999), di Stanley Kubrick, ch’ebbe l’onore di essere l’ultima opera cinematografica del regista più geniale della storia del cinema.

Doppio sogno. Un titolo dal sapore quasi scientifico, psicanalitico. Molti quelli che l’attribuirono ad una forte influenza di Sigmund Freud sull’autore che, nel suo diario, invece, scriveva che «non è nuova la psicanalisi ma Freud. Così come non era nuova l’America ma Colombo».

E certamente, seppe scrutare, indagare e penetrare l’inconscio umano, Schnitzler, componendo il suo breve e potente romanzo. Nella storia, l’autore mette a nudo la realtà, ponendola ad un lettore che, sprovveduto, potrebbe ingannarsi e ritrovarvi dell’irreale, del trascendentale. Se è vero, infatti, che la realtà supera di gran lunga l’immaginazione, chi legge Doppio Sogno si trova a misurarsi con una spirale di accadimenti facilmente riconducibili alla vita reale, ma narrati in un abile stile asciutto e privo di fronzoli, dal forte impatto e dalla potente natura evocativa: qualcosa di molto simile all’in-credibile ed im-possibile mondo onirico.

Tra le pagine si agita una vita piacente e lussureggiante. L’ambiente è quello di una elegante ed accogliente cittadina austriaca. Una realtà fatta di seri cappotti borghesi; caldi caffè, colmi di gente fino a notte fonda; carrozze misteriose; sfarzosi e goliardici balli in maschera; una grottesca società segreta. Fridolin, un bell’e giovane medico con una carriera soddisfacente, ed Albertine, sua degna moglie, tornati a casa da una particolare e sfarzosa mascherata, forse eccessivamente stimolante, ingaggiano una banale discussione che degenera in un velenoso scambio di confessioni taglienti. Gesti, pensieri, desideri peccaminosi, malizie, confluiti di getto in una serata irreale e quasi insana, ed altrimenti non confessabili. Le ammissioni dispettose, fatte quasi prevalentemente per ferire l’altro, fanno scattare in entrambi i coniugi, per tutto il racconto, una serie di pulsioni e tensioni visionarie, che rivelano una sorta di sentimento astioso dell’una e dell’altro protagonista. Una urgente telefonata di lavoro per il dottore interrompe il litigio, costringendolo ad uscire di casa nonostante l’ora tarda. Fridolin si ritrova, così, immerso nell’invernale città notturna, che gli apre un cuore di misfatti, tentazioni, passioni, misteri. Le vicende del protagonista s’intrecciano casualmente con quelle di un’oscura e bizzarra società segreta, il cui nome non è dato sapere, e che si riunisce esclusivamente a notte fonda, protetta da una parola d’ordine. All’alba, al suo rientro, Albertine gli rivelerà uno strano sogno appena fatto, l’analisi del quale farà capire a Fridolin molte più cose di quanto non immaginasse, sulla propria moglie.

L’opera si conclude con un compromesso formidabile, pulito, eppure affatto banale, che rivela una certa, geniale concezione psicologica della vita da parte di Arthur Schnitzler; una singolare Weltanschauung, se si vuole, che l’autore pone come una verità alla quale i protagonisti giungono solo alla fine di un tribolato cammino iniziatico. Il mondo non è propriamente del Conscio, né propriamente dell’Inconscio, ma d’un celato Conscio intermedio, quasi del tutto impercettibile, colto raramente dall’uomo comune, e che lo scrittore ha voluto confidare apertamente, in maniera assai alta, ed abilmente codificata.

Calvino e quel suo Barone rampante-‘Iniziato’

Il Barone rampante e l’aspetto massonico. Scrivere di Italo Calvino (1923 ˗ 1985) è sempre una fatica ingrata. L’estasi delle sue pagine è inversamente proporzionale alla difficoltà del misurarsi col suo genio inarrivabile. Quale scrittore non sogna la sua agilità stilistica, e la sua capacità di aggettivazione accurata e mai pedante? Quale uomo di lettere non brama la sua maestria nell’essere ostico in proposizioni semplici, e facilmente godibile in periodi quasi interminabili? Questa, la sua caratteristica più gustosa: una padronanza invidiabile della parola scritta, grazie alla quale l’autore si misurava col foglio bianco, intagliando fini ghirigori di alto pregio, in una resa tale da far apparire l’impresa quasi facile. Prolifico ed estroso, Calvino ha costellato la letteratura italiana di capolavori di indiscutibile fama, pregni di simboli ed insegnamenti iniziatici affatto trascurabili.

Figlio e nipote di massoni (Libero Muratore era stato suo nonno, Giovanni Bernardo; e la stessa strada la percorsero suo padre, Mario, e suo zio Quirino), Calvino ebbe modo di assorbire l’insegnamento iniziatico di una Massoneria che più volte trasparì dai suoi scritti. Uno dei casi più espliciti, e comunque uno dei più particolari, è il romanzo del 1957: Il barone rampante.

Il Barone rampante: una storia di ribellione tra fantasia e elementi massonici

Parte integrante della trilogia I nostri antenati, insieme con Il visconte dimezzato (del ’52) e Il cavaliere inesistente (del ’59), il romanzo tratta la bislacca esistenza di Cosimo Piovasco di Rondò, giovane barone appartenente ad una nobile famiglia decaduta. La scena è narrata dal suo fratello minore, Biagio, che descrive la rigida famiglia, il paese immaginario della storia (Ombrosa), e tutte le vicende, con accuratezza e generosità di particolari. Tutto comincia quando, con un gesto di ribellione all’inflessibile autorità del padre,  Cosimo (detto anche “Mino”) rifiuta di mangiare un piatto di lumache, allontanandosi, piccato, dal desco paterno, per sparire in cima agli alberi del vasto giardino di casa, e per non rimettere mai più piede a terra. Durante la sua intera vita tra i rami, Mino non si fa mancare alcuna esperienza, ed anzi, la sua esistenza è densa d’avventure d’ogni sorta. S’innamorerà di Ursula, vivrà tra duelli, battute di caccia, beffe, e peripezie, serbando, per la vecchiaia una fine scenografica.

Nella vita del protagonista del Barone rampante (ed in quella del narratore), non manca l’elemento massonico. Ci confida, infatti, Biagio, iniziando il Capitolo XXV, e ragionando delle questioni segrete del fratello:

“Io non so se a quell’epoca già fosse stata fondata a Ombrosa una Loggia di Franchi Muratori: venni iniziato alla Massoneria [. . . ] dopo la campagna napoleonica [. . . ] e non so dire perciò quali siano stati i primi rapporti di mio fratello con la Loggia”.

Da questo punto, il narratore del Barone rampante vola con la memoria ad un particolare episodio: due spagnoli, giunti ad Ombrosa, incrociano la loro strada con quella di Cosimo. Ne nasce un diverbio. Uno dei due sfodera la spada, sfidando a duello il protagonista, e raggiungendolo sugli alberi. Nella foga dell’attimo, Mino apre la sfida al grido massonico di “A Gloria del Grande Architetto dell’Universo”. Il ‘terreno’ dello scontro è scomodo, ma i due tirano di spada senza problemi, e senza reverenza. Dopo un tiro mancino dello spagnolo, a spuntarla è comunque il barone di Rondò, che raggiunge l’avversario al ventre, facendolo rovinare al suolo. Il particolare del motto massonico non sfugge a Biagio, che archivia il discorso asserendo: “Da quel giorno mio fratello ebbe fama generale di frammassone”.

Il capitolo continua con una gustosa digressione sulla fantasiosa Massoneria di Ombrosa, fatta di rituali particolari, e di riunioni tenute all’aperto, celate nel bosco, alla luce di fiaccole e candele, e simboli affatto ortodossi. Una società segreta nella quale Cosimo, secondo le supposizioni di Biagio, sembra quasi inciampare per puro caso:

“È possibile che la Massoneria esistesse già da tempo, all’insaputa di Cosimo, ed egli casualmente una notte, muovendosi per gli alberi del bosco, scoprisse in una radura una riunione d’uomini con strani paramenti [. . . ] e poi intervenisse [. . .] con qualche uscita concertante [. . .] e i Massoni, riconosciuta la sua dottrina, lo facessero entrare nella Loggia, con cariche speciali [. . .]”.

Il narratore tenta, così, di darsi una spiegazione riguardo agli ‘atteggiamenti’ ed alle pieghe poco ortodossi della Massoneria di Ombrosa, il cui fondatore pareva essere un leggendario Maestro detto “Picchio Muratore”, la cui simbologia includeva elementi ch’erano chiari richiami agli alberi (come le pigne e le civette), il cui rituale d’iniziazione prevedeva la salita su un albero e la discesa (bende agli occhi) tramite delle corde appositamente congegnate.

La semplicità della narrazione di Calvino

Semplicità disarmate, dunque, quella con cui Calvino, nel Barone rampante, mette il lettore comune a tu per tu con l’Istituzione Massonica. La semplicità della padronanza, della sicurezza, della confidenza con l’argomento e con l’arte della scrittura. Doti dalle quali nasce un romanzo che cela qualcosa di più che una semplice narrazione di riti, Logge e simboli. Un romanzo che, non a torto, può essere assimilato ad un percorso iniziatico; ad un cammino di crescita interiore del protagonista. Cosimo ˗ come l’iniziato ˗ fa una forte scelta che lo porta a camminare in parallelo coi suoi simili, ma in ambienti e dimensioni decisamente distaccati. Il regno degli alberi è il tempio in cui Mino impara a misurarsi con sé stesso, con l’universo, con quella libertà individuale cara all’ambiente iniziatico, e che è la causa fondamentale per la quale egli decide di abbandonare il restrittivo tetto paterno. Scelta ferma ed irrevocabile, quella di Cosimo, che mantiene i rapporti con gli uomini, ma che resta ad osservare la vita da una prospettiva alternativa, incomprensibile per il profano:

“Come questa passione che Cosimo sempre dimostrò per la vita associata si conciliasse con la sua perpetua fuga dal consorzio civile, non ho mai ben compreso [. . .]”.

E coerente resterà fino in fondo, il protagonista del Barone rampante, quando, alla fine del suo cammino, tacciato di follia, compirà la sua ultima ricerca interiore, anelando ad un’uscita di scena differente da quella prestabilita per l’Uomo, e ascendendo al Cielo non in maniera figurata, ma fisicamente, nell’incomprensione e nell’incredulità generale.

A ricordarlo, una stele nella tomba di famiglia:

Cosimo Piovasco di Rondò – Visse sugli alberi – Amò sempre la terra – Salì in cielo”.

Giovanni Pascoli massone ed esoterista

Giovanni Pascoli, è più noto alla maggior parte del pubblico per la sua poesia piuttosto che per la sua conservazione della lignée esoterica e gnostica che riformulò in corposi testi che rischiano di essere dimenticati, se non conosciuti affatto.

Certamente è sotto gli occhi di tutti quelli che hanno studiato anche solo un minimo Giovanni Pascoli, il suo costante rapporto con la morte e il mistero, l’gnoto verso cui si protende l’animo, cercando di carpire i segreti e gli enigmi che provengono dal mondo. Bisogna a tal proposito tenere sempre presente che complice di questo particolare rapporto con la morte da parte del poeta, è la prova del dolore e della sofferenza cui fu sottoposto Pascoli nella prima gioventù, a causa dell’omicidio del padre. Infine l’amore di Pascoli, per il passato classico, in particolare per quel mondo greco-latino che è stato una costante della sua produzione poetica e delle sue traduzioni.

Giovanni Pascoli: l’iniziazione alla Massoneria

Londra, 1717. Alla luce delle candele, ed al tepore amichevole della locanda “All’oca e alla graticola”, nasce ufficialmente quella che sarà destinata a diventare, nei secoli, sino ai giorni nostri, la più diffusa ed enigmatica società segreta al mondo: la Massoneria.

Formazione intellettuale di gentiluomini – evoluzione di quelle affascinanti corporazioni medievali di scalpellini, usi tramandarsi allegoricamente i segreti del mestiere – , l’istituzione massonica coltivò, fin dal principio, il fine ultimo dell’elevazione etica, spirituale e culturale dei suoi affiliati, offrendo loro un insegnamento umano, filantropico ma anche deistico. Valore imprescindibile, per attraversare le Colonne del Tempio, era, infatti, la fede nell’esistenza di un qualsiasi Essere superiore, un Dio creatore, sì, dell’Universo, ma che, pur rimanendovi immanente, non sarebbe dovuto intervenire nelle questioni dell’Uomo.

Avvolta dal mistero, protetta da uno spesso velo di riservatezza, senza mai tralasciare i suoi antichi rituali, la Massoneria si è affermata – nello scorrere degli eoni – in ogni ambito della società, senza sdegnare, anzi, quasi prediligendolo, il mondo della cultura. Nel tempo, il suo insegnamento esoterico (dal greco esoterikòs, che vale “interno”; “riservato”, appunto) e gnostico (dal greco gnósis, “conoscenza”) ha sempre affascinato menti brillanti e curiose.

Ma qual è la portata del sostrato esoterico, gnostico e iniziatico dell’insegnamento massonico, sulla letteratura italiana? Un documento, un triangolo di carta ricavato da un foglio a righe, acquistato nel giugno del 2007 dal Grande Oriente d’Italia nell’asta romana della Casa Bloomsbury, con le risposte autografe di Pascoli, scandisce l’accesso alla Massoneria del celebre scrittore italiano attraverso tre domande rituali. “Che cosa deve l’uomo alla Patria?”, cui Pascoli rispose “La vita” “Quali sono i doveri dell’Uomo verso l’Umanita’?”, cui scrittore rispose “D’amarla”. E infine: “Quali sono i doveri dell’Uomo verso se stesso?”, cui rispose “Di rispettarsi”.

Giovanni Pascoli (1855-1912), dunque è un autore, un maestro di letteratura da riscoprire, ascoltare la voce di un autentico maestro di letteratura, il cui pensiero fa ancora strada.

Figura illuminante nella prospettiva della ricerca iniziatica in letteratura, Giovanni Pascoli, dunque, fu l’uomo, il poeta, il letterato, il docente e – ultimo, ma con un’eco molto più ampia, rispetto a quanto si potrebbe pensare – l’iniziato all’istituzione massonica.

Egli ricevette l’iniziazione il 22 Aprile del 1882, nella Loggia “Rizzoli” di Bologna. Sia chiarito immediatamente che, appena tre anni dopo, la Loggia terminò definitivamente i lavori, ed il poeta non rinnovò l’iscrizione altrove. Inoltre, la maturità e la vecchiaia segnarono, per il poeta, un ritorno alla fede cattolica:

 «Voglio dietro alla mia bara un fraticello francescano, oppure un bambino colla Croce, simboli della vera fede». (G. Pascoli, in vecchiaia, alludendo al suo funerale, come ricorda P. Mariani in La penna e il compasso).

L’iniziazione, però, segnò per Giovanni Pascoli un punto di non ritorno. Se la sua poesia, infatti, è pregna anche di elementi esoterici, la sua prosa mostra una visione dell’Uomo e della storia che possono essere accostate, non a torto, alla Tradizione massonica. Su quel piano poetico derivato dal Fanciullino, Pascoli rappresenta la poesia come unità contro il male (che è divisione), e come unico fattore in grado di restituire all’Uomo una piena coscienza di sé. La sua fu una romantica ricerca classica dei miti (ricerca totalmente antitetica al cristianesimo) che lo proiettò verso un anacronistico ritorno al primitivo, come si evince, exempli gratia, dall’ode Ad Antonio Fratti: “Ciò fu ai tempi che ai monti / stridevano ancor le Chimere“. Ed ancora, sempre nell’ode al garibaldino, avvertendo la nostalgia di quei tempi che, da Sparta, erano giunti ad un presente di rimpianti, difronte allo scetticismo moderno:

“Altri tempi, altri tempi che prischi

Chiama lo stanco sorriso

Nostro!”.

Potente, dunque, la tensione alla straordinarietà del principio, del primitivo, di quel passato di pace seguito da dissapori e guerre; fattori lontani anche da quegli ideali, certamente anche massonici, di Unione e Fratellanza.

 

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