San Francesco d’Assisi, lontano dal mito che oggi circola e dai falsari

Francesco d’Assisi ci è troppo prezioso per lasciarlo ai faciloni, ai disinformati, quando non ai falsari. Di recente, uno che conosce bene il santo “vero”, quello della storia e non del mito che oggi circola, ha reagito con la passione che gli è propria. Ha detto dunque Franco Cardini, il medievista, lo storico delle crociate («E Francesco d’Assisi – ricorda – è il prodotto più rappresentativo ed ortodosso della Chiesa delle crociate») che quel grandissimo «non è affatto il personaggio che generalmente ci viene presentato adesso. Non era il precursore dei teologi della liberazione. Né tantomeno fu l’araldo di un cristianesimo dolciastro, melenso, ecologico-pacifista: il tipo che ride sempre, lo scemo del villaggio che parla con gli uccellini e fa amicizia con i lupi. Gli voglio troppo bene, a Francesco, per vederlo ridotto così dai suoi sedicenti seguaci. No, Francesco era ben altro».

Il problema è importante: ancor oggi (anzi, forse oggi più che mai) la straordinaria figura del figlio di Pietro Bernardone esercita un fascino unico sugli uomini di ogni razza, di ogni fede, di ogni incredulità. Ma, spesso, il “loro” Francesco non è mai esistito. A lui credono di rifarsi adepti e proseliti di molte ideologie e utopie contemporanee, sospette e magari dannose sotto le nobili apparenze. È nel suo nome che si parla di uno “spirito d’Assisi” che ha spesso l’aria di uno spirito di pseudo ecumenismo “da otto settembre”, da “tutti a casa”. Discorsi che, se li sentisse, indurrebbero il santo a riconvocare quel suo “pugile di Firenze”.

Sentite, infatti, che cosa si racconta nella «Vita seconda» di Tommaso da Celano: «Come ogni animo ripieno di carità, anche Francesco detestava chi era odioso a Dio. Ma fra tutti gli altri viziosi, aborriva con vero orrore i denigratori, e diceva che portano sotto la lingua il veleno, col quale intaccano il prossimo (…). Un giorno udì un frate che denigrava il buon nome di un altro e, rivoltosi al suo vicario, frate Pietro di Cattaneo, proferì queste terribili parole: “Incombono gravi pericoli sull’Ordine, se non si rimedia ai detrattori. Ben presto il soavissimo odore di molti si cambierà in un puzzo disgustoso, se non si chiudono le bocche di questi fetidi. Coraggio, muoviti, esamina diligentemente e, se troverai innocente un frate che sia stato accusato, punisci l’accusatore con un severo ed esemplare castigo! Consegnalo nelle mani del pugile di Firenze, se tu personalmente non sei in grado di punirlo”. Chiamava “pugile” fra Giovanni di Firenze, uomo di alta statura e dotato di grande forza». Né, quelle, erano minacce a vuoto, visto che quel fra Giovanni, entrato nell’Ordine e in fama di sante virtù, non esitava a rimettersi, su comando, in azione. E i pugni sapeva usarli in tal modo sui confratelli riottosi che il Salimbene, nella sua «Chronica», non teme di chiamarlo «spietato carnefice». Ammetterete che un simile “fioretto” (taciuto anche da molti storici perché non si inquadra nel loro schema) fa a pugni – è davvero il caso di dirlo… – con l’immagine di un santo tutto svenevole dolcezza.

Quanto a certo ecumenismo, quello inteso come resa o dimissioni, il Francesco “vero” vi ha altrettanto poco a che fare. Dopo la conversione, tutta la sua vita è segnata dall’ansia non di «dialogare» accademicamente con i musulmani, ma di «convertirli» a Gesù Cristo. Più volte tenta di giungere in Oriente con lo scopo esplicito di conseguirvi il martirio: non vi andava, dunque, per diffondervi idee ireniche, ma per predicarvi il Vangelo in modo così esplicito da meritare la morte dagli infedeli. Del resto, i primi martiri dell’epoca francescana sono san Daniele e i suoi compagni, trucidati in Marocco poco dopo la morte del santo perché, malgrado gli avvertimenti delle autorità islamiche, non vollero saperne di «dialogo» e tentarono di convertire chi capitava loro a tiro, predicando in italiano e in latino, visto che non conoscevano nulla degli idiomi locali.

Bisognerebbe evitare una volta per tutte di snaturare e sfruttare il patrono d’Italia come fosse un santino laico, adatto per le pubblicità del presunto progresso. Fu un ribelle? Si, a suo modo. Ma nulla a che vedere con i sessantottini. Amava la Chiesa e fu sempre fedele al Papa. Cambiò il mondo con l’ubbidienza e l’umiltà. Tutto il contrario di chi oggi ne abusa per i suoi sporchi slogan.

 

Vittorio Messori

Leda Rafanelli, una donna da scoprire: l’anarchica musulmana per cui la letteratura come il luogo dove far liberamente giocare e portare in primo piano interrogativi, problemi, conflitti tipici della condizione femminile

Anarchica e musulmana, frequentava la moschea come i circoli anarchici in cui si predicava l’ateismo. Leda Rafanelli ha combattuto tutta la vita per l’affermazione della figura femminile all’interno della società, predicandone l’emancipazione. Scrittrice, attivista, giornalista ed editrice, riuscì ad essere contemporaneamente amica di anarchici, rivoluzionari, futuristi e fascisti. Tutto questo fa di lei una donna da scoprire. Lo scrittore toscano Enrico Pea (1881-1958), nel suo romanzo autobiografico Vita in Egitto (1949), rievocò il proprio noviziato anarchico alla Baracca Rossa di Alessandria d’Egitto, in via Hammam-El-Zahab, “tumultuante ritrovo di gente di ogni risma e d’ogni nazione”, da lui frequentata insieme al giovane Giuseppe Ungaretti. Il narratore rammentava i nomi degli anarchici italiani ivi conosciuti,- Pilade Tocci, Icilio Ugo Parrini e Pietro Vasai– le loro vicissitudini, le loro interminabili dispute sull’ateismo e sul materialismo cui i giovani Pea e Ungaretti spesso opponevano una diversa, più poetica e spiritualistica visione della vita.

Il movimento anarchico italiano in Egitto era uno dei ceppi più antichi e robusti tra quelli della nostra emigrazione all’estero. Le migliaia di lavoratori-formiche che dall’Italia erano andati in Egitto al tempo dello scavo del canale di Suez (1859-1869), erano rimasti nel paese e vi avevano avviato botteghe artigiane o piccoli commerci. Molti erano i toscani: di Firenze, Lucca, Pisa, Livorno e della rossa Versilia. Fra di loro erano passati Amilcare Cipriani, ancor prima della Comune di Parigi, e più tardi Errico Malatesta, incitante gli arabi alla resistenza contro l’occupazione inglese dell’Egitto del 1882. Il primo giornale internazionalista di lingua italiana uscito all’estero fu Il Lavoratore, pubblicato ad Alessandria d’Egitto nel 1877, cui seguirono altri fogli socialisti. Al principio del Secolo Ventesimo Leda Rafanelli, in seguito ad una disgrazia familiare di cui non amava parlare (forse il padre in carcere per un certo tempo), venne condotta ad Alessandria d’Egitto presso una famiglia amica. Ella era nata a Pistoia da genitori livornesi il 4 luglio 1880 ed aveva circa vent’anni. Suo nonno era figlio illegittimo di uno zingaro arabo e fin da bambina si era sempre sentita straniera in patria, ammalata di esotismo, anelante all’Africa e all’Oriente. Il breve soggiorno in Egitto, appena tre mesi, le bastò per assorbirne il profumo e sentirne la nostalgia per tutta la vita. In Egitto ebbe anche occasione di assistere alle persecuzioni contro gli anarchici suoi conterranei, colpevoli secondo la polizia locale di aver progettato un attentato contro il Kaiser germanico Guglielmo II di Hohenzollern in visita da quelle parti (in effetti si trattò di una montatura per giustificare l’imprigionamento e poi l’espulsione di alcuni anarchici europei dall’Egitto).

Da Alessandria Leda Rafanelli tornò in Italia rigenerata nel corpo e riplasmata nello spirito. Convertitasi all’Islam e all’Anarchismo, ella farà di queste due fedi incrociate il distintivo del suo impegno culturale, caratterizzato da una visione religiosa e mistica della vita. La sua religiosità, inscalfibile e profondamente sentita, tollerata dai compagni atei come una perdonabile ma alquanto bizzarra stranezza, fu a sua volta tollerantissima della loro miscredenza. Infine la quintessenza d’arabismo filtrata durante l’esperienza alessandrina, col tempo trasse nuova linfa dallo studio delle antiche civiltà egizie e della stessa lingua araba, dal sopravvenuto interesse per le scienze occulte, per l’astrologia e la magia e da una crescente attrazione verso tutto il mondo orientale, anche ebraico ed indiano. In quel mondo Leda fantasticamente si riconosceva e si muoveva come in uno specchio o in un globo di vetro. Era il rimpianto di un passato perduto (quello dei suoi avi o addirittura, com’ella credeva, delle sue vite vissute) oppure la ricerca dell’utopia da contrapporre anarchicamente all’Occidente moderno del Capitale, già allora incamminato verso l’amara china della spersonalizzazione e dell’omologazione.

Da quel momento iniziò il suo stravagante modo di abbigliarsi all’araba, di cibarsi secondo le usanze arabe e le regole coraniche, di circondarsi di tutte le possibili araberie. Il punto d’intersezione fra Islam e Anarchismo venne istintivamente trovato nell’assoluta indifferenza per i problemi economici e pratici (il denaro, l’alloggio, l’approvvigionamento), nella allegra disponibilità per tutte le situazioni, anche le più scomode e precarie, nell’incertezza del domani come regola dell’oggi, nel vivere dell’aiuto altrui, mai preteso, sempre gradito e sempre generosamente ridonato. Insomma una zingara anarchica, secondo la definizione dello storico Pier Carlo Masini: questo fu Leda Rafanelli. Quando la giovane tornò in Italia, inebriata d’oriente e d’anarchia, si stabilì a Firenze. La sua cultura era quella di una autodidatta intelligente che, avendo fatto l’apprendista in tipografia, nel comporre a mano aveva immagazzinato vocabolario, classici, storia, grammatica, sintassi, geografia e scienze. Il suo primo maestro d’anarchia era stato un compagno di lavoro, pratese, concittadino di Gaetano Bresci, il cui gesto recente era stato quello del seminatore di nuovi proseliti.

Indirizzata da questo compagno Leda Rafanelli cominciò a frequentare l’ambiente della Camera del Lavoro di Firenze, dove poté incontrare gli ultimi superstiti della Prima Internazionale, come il contadino Giuseppe Scarlatti e i coniugi Pezzi, la più avventurosa coppia dell’anarchismo italiano. Vi incontrò anche Luigi Polli, un giovane anarchico già conosciuto in Egitto ed ora rimpatriato. I due si amarono e si sposarono. Nacque la “ditta” Rafanelli-Polli, una casa editrice all’insegna dell’anarchismo. Gli opuscoli che uscirono dai torchi anarchici fiorentini – uno stanzone in Via dei Papi, nel rione di Santa Croce e una rivendita in Borgognissanti – rifornirono di nuovi testi la propaganda del movimento. Il pamphlet di Leda Contro la scuola (1907), che anticiperà le analoghe invettive papiniane, ebbe un grande successo e fu ripreso a puntate sul giornaletto di Ostiglia Luce! (1900-1909), del quale il giovane Arnoldo Mondadori era uno dei redattori.

“Riscuote in pubblico fama di persona piuttosto libera nella condotta morale, anche per i suoi principi di libero amore. Ha intelligenza svegliata e cultura superiore alla media acquistata con la lettura assidua e con l’assimilazione di libri, opuscoli, riviste sociologiche. Ha frequentato appena le scuole elementari”.

Così cominciava, in data 4 agosto 1908, una lunga scheda di Pubblica Sicurezza conservata presso l’Archivio Centrale dello Stato intestata per l’appunto a Leda Rafanelli.

L’atteggiamento di Leda nei rapporti con i compagni anarchici e di altri partiti si caratterizzò per la sua mancanza di settarismo e per la sua tolleranza: “Devo dire, a mia lode, che sono stata immune da settarismo anche a quei tempi che era di moda. Collaboravo su tutti i giornali di propaganda, qualunque fosse il loro partito politico. Parlavo nei comizi a fianco di compagni di ogni tendenza”. Le analisi politiche e sociali condotte da Leda nei suoi articoli erano spesso acute ed originali, tanto da mettere in discussione le rigide categorie di pensiero che, soprattutto in tema di morale, circolavano anche fra gli anarchici e i socialisti. In particolare esse si distinsero per una insolita attenzione al punto di vista delle donne rispetto ai vari problemi affrontati: per esempio, pur allineandosi con l’anticlericalismo – mai con l’ateismo – professato generalmente dagli anarchici, Leda cercò di approfondire l’analisi delle ragioni che spingono soprattutto le donne a frequentare la chiesa – e ritenne che non fossero ragioni disprezzabili: derivavano da un lato dalla solitudine in cui le donne sono lasciate dai mariti, che nel tempo libero dal lavoro si dedicano preferibilmente al vizio del bere; dall’altro dal bisogno che esse hanno di confronto spirituale, data la loro maggiore ricchezza interiore rispetto agli uomini.

Leda Rafanelli, oltre che polemista, si scoprì narratrice e iniziò a pubblicare racconti e bozzetti, tutti ispirati alla protesta sociale. Fu una prima fase, un po’ ingenua, con molte concessioni alla propaganda spicciola e al bozzettismo strappalacrime. Ma nel 1905 da questo erbaio spuntò il primo arbusto: il romanzo Un sogno d’amore, che ricevette le lodi di Paolo Orano sull’Avanti! (e più tardi anche una traduzione in spagnolo). Leda aveva venticinque anni. Il suo nome era già noto nelle file del movimento anarchico. Armando Borghi le chiese una presentazione di alcuni suoi scritti, ed effettivamente ella redigerà la prefazione del suo libello Il nostro e l’altrui individualismo (1907), il primo attacco borghiano contro il superomismo nicciano; Pietro Gori ne apprezzò le qualità e la considerò come una sorella, una stima che Leda contraccambierà con la venerazione. La sua sfrenata produzione di articoli inondò la stampa libertaria e fiancheggiatrice; per i tipi Rafanelli-Polli uscì a Firenze anche una rivista, La Blouse (1906-1910), tutta compilata da “autentici lavoratori del braccio”. Intanto i rapporti tra Leda e Luigi Polli, ottimi sul piano politico, si raffreddarono su quello affettivo.

Dopo una breve relazione con il giornalista spoletino Piero Belli (1882-1957) che più tardi passerà all’interventismo corridoniano e al fiumanesimo, fu decisivo nella vita della Rafanelli l’arrivo a Firenze del giovane aretino Giuseppe Monanni (1887-1952), al quale il buon Polli lasciò subito libero il campo, conservando per Leda una calda e lunga amicizia. Anche Monanni era tipografo e anarchico ma di un anarchismo più affinato ed esigente che valse a trarre Leda dal minuto populismo a dispense fino a quel momento coltivato. Spirava allora in Italia da qualche anno un vento di novità che, dietro i nomi di Max Stirner e di Nietzsche, aveva investito anche il movimento anarchico, scomponendone le file. L’accento passò dalle masse all’uomo, anzi al superuomo, dall’eguaglianza alla libertà, dalla rivoluzione sociale alla rivolta individuale. Il Monanni, sensibile a questi richiami, li assimilò fondando a Firenze, povero ma ventenne, la rivista Vir (luglio 1907-maggio 1908), un titolo che era già un programma. La riproduzione di molti articoli di Giovanni Papini e l’esaltazione di Gabriele D’Annunzio per la tragedia Più che l’amore (1906), il cui protagonista è l’eroe Corrado Brando, erano rivelatori di una nuova tendenza. Nasceva l’anarco-individualismo.

A metà del 1908 Monanni e Leda vennero chiamati a Milano da un’altra coppia che fece storia a sé nelle vicende dell’anarchismo italiano: Ettore Molinari e Nella Giacomelli. Molinari era docente di chimica al Politecnico e la Giacomelli, istitutrice dei suoi figli, curava la pubblicazione del giornale Il Grido della Folla (1902-1907), seguito poi da La Protesta Umana (1906-1909). La linea di questi giornali fu quella dell’individualismo d’azione e dello scontro frontale con le Istituzioni borghesi, sfidate con violenti articoli e proposte spericolate. La coppia milanese si rivolse a Monanni e alla Rafanelli che conoscevano il mestiere e già collaboravano da Firenze ai due periodici. Giunti a Milano, la Rafanelli e Monanni, mentre diedero volentieri una mano a La Protesta Umana, continuarono in autonomia la loro originale esperienza e fondarono una nuova rivista già concepita a Firenze come continuazione di Vir. La intitolarono Sciarpa Nera (1909-1910) e subito assurse ad emblema dell’individualismo stirneriano. Ma si trattò di un individualismo diverso da quello di Molinari e Giacomelli, meno follaiolo e meno barricadiero. “Dunque”, scriveva Bruna (che è il secondo nome di Leda) sul terzo numero della rivista,

“Milano rumorosa, città più di attrito che di lavoro, di foga più che di volontà, di sport più che di arte, di abilità più che di sapienza, sia pure considerata come il cervello d’Italia; ma noi faremo la distinzione fra la materia e la sua esplicazione spirituale ed esalteremo quest’ultima”.

Nel corso del 1909 Monanni acquisì la Società Editrice Milanese che si trasformò in Casa Editrice Sociale. Fu questo il più grande sforzo editoriale degli anarchici italiani, con una produzione di qualità tecnica elevata e di buon livello culturale (una edizione de L’Unico di Stirner, de L’Anticristo di Nietzsche, scritti di Kropotkin e di Gori tra gli altri). Monanni come editore ebbe fiuto e una solida base di conoscenze letterarie, filosofiche, sociologiche. Le spese furono limitate dato che Monanni e Leda componevano personalmente i libri da stampare, ma l’organizzazione commerciale si dimostrò pessima. Così l’impresa navigò sempre in mezzo ai debiti e alle cambiali, senza requie, per altri quindici anni. Un pittore non ancora famoso disegnò il marchio della Casa Editrice Sociale: un volto demoniaco di ribelle anguicrinito con il motto “che solo amore e luce ha per confine”. L’artista si chiamava Carlo Carrà, era stato militante anarchico a Londra alla fine del secolo precedente e a Milano continuò a frequentare i gruppi anarchici, quello de La Protesta Umana e quello di Sciarpa Nera (per i due periodici egli fornì la sua collaborazione in qualità di grafico).

Fra Leda Rafanelli e il pittore nacque un rapporto di simpatia, forse una breve avventura sentimentale. Carrà stava lavorando al grande dipinto I funerali dell’anarchico Galli (1910-1911) che segnò il suo passaggio al futurismo. Era in atto una curiosa convergenza per nulla occasionale fra anarchismo e futurismo: Carrà disegnò la testata del giornale anarchico di Parma La Barricata (1912-1913), diretto dall’anarco-futurista Renzo Provinciali, mentre Filippo Tommaso Marinetti collaborò alla rivista La Demolizione (1907-1911) pubblicata dal sindacalista rivoluzionario Ottavio Dinale (1871-1959) ad Annemasse, in Alta Savoia, ed in seguito a Milano (su entrambi i periodici apparve anche la firma della Rafanelli). Significative furono nel periodo anteguerra le interferenze e le contaminazioni tra individualismo stirneriano-nicciano, sindacalismo, sovversivismo irregolare ed inclassificabile, follajolismo alla Paolo Valera. La coppia Monanni-Rafanelli “fuori da ogni circolo, libera da ogni legame, immune da ogni contagio”– così i due si definirono, vi passò in mezzo, curiosa ed eccitata, senza perdere niente della sua autonomia e della sua originalità.

Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, la Rafanelli partecipò attivamente alla campagna antimilitarista mentre Monanni, disertore alla chiamata alle armi, riparò in Svizzera. I rapporti fra i due interrotti sul piano affettivo e familiare non si turbarono su quello politico e la collaborazione continuò nel lavoro editoriale e nella propaganda. La Rafanelli aveva ora un nuovo compagno nel falascià Emmanuel Taamrat. I falascià erano uno sparuto gruppo etnico di stirpe ebraica e di lontana origine assiride, trapiantato da secoli in Etiopia e là perseguitato dal governo imperiale di Addis Abeba e dai dignitari della chiesa cristiano-copta. La Rafanelli, avendo conosciuto a Milano il pubblicista ebreo Raffaele Ottolenghi, ex diplomatico e conoscitore dei problemi africani ed asiatici (anch’egli aveva soggiornato per qualche tempo in Egitto), socialista, collaboratore di Critica Sociale e dell’Avanti!, si era fatta con lui promotrice di una campagna di solidarietà verso l’etnia falascià. E uno di essi, Emmanuel Taamrat per l’appunto, capitato non sappiamo come a Milano, ella aveva accolto in casa sua per qualche tempo come amico e in seguito come compagno di vita. Fu in quell’epoca che Leda ebbe occasione di conoscere Filippo Turati e Anna Kuliscioff.

Nel dopoguerra l’attività editoriale di Rafanelli e Monanni riprese con rinnovato vigore e maggior fortuna, favorita dal momento politico. La Casa Editrice Sociale sfornò decine di libri: l’opera omnia di Nietzsche in undici volumi (di cui Leda corresse tutte le bozze), opere di Kropotkin, Morris, Malatesta, Darwin, Mackay, Palante. Giuseppe Rensi vi pubblicò il saggio Il materialismo critico (1927), Antonio Graziadei Capitale e colonie (1927). Monanni ebbe soprattutto il grande merito di aver per primo fatto conoscere agli Italiani nella loro lingua un’opera capitale come La psicologia delle folle (1895) di Gustave Le Bon, tradotta e pubblicata nel 1925.

Pure Leda Rafanelli dette un suo personale contributo alle edizioni con un nuovo romanzo, L’eroe della folla (1920), e con una raccolta di novelle, Donne e femmine (1922). Nel 1923 l’attività subì un duro colpo in seguito a una spedizione fascista che distrusse la sede di Viale Monza, “covo di anarchici”. Ora si bruciava L’Unico di Max Stirner insieme a La Comune di Louise Michel, Le parole di un ribelle di Petr Kropotkin insieme alla Storia di un ruscello di Elisée Reclus: gli autori che Mussolini un tempo aveva amato ed elogiato. Ciò malgrado l’impresa risorse dalle ceneri e continuò la sua attività mutando nome in Casa Editrice Monanni (1924), grazie alla stima e all’amicizia nonché al sostegno fattivo e all’appoggio concreto che alcuni sindacalisti rivoluzionari come Angelo Oliviero Olivetti e Agostino Lanzillo manifestarono verso l’editore. In una collana di romanzi che Monanni pubblicò nella seconda metà degli Anni Venti (opere di Maksim Gorkij, Michail Artzybaschev, Jack London, Upton Sinclair, Han Ryner, Octave Mirbeau, Aleksandr Kuprin, Lydia Sejfulina, Aldous Huxley), Leda Rafanelli redasse sotto lo pseudonimo di Etienne Gamalier, fingendosene traduttrice, un romanzo anticolonialista: L’oasi. Romanzo arabo (1929).

Leda Rafanelli aveva allora quasi cinquant’anni ma purtroppo la sua vita pubblica stava per finire. Vivrà ancora per altri quaranta, in ritiro, fra angustie economiche e familiari (la morte del figlio Aini, “occhi miei” in lingua araba, Marsilio, nel 1944). Scriverà di tanto in tanto racconti per ragazzi, poesie, romanzi da riporre nel cassetto, molte lettere agli amici. Nada, La signora mia nonna, Le memorie di una chiromante – tutti testi inediti – sono il commovente tentativo di lasciare una testimonianza di sé e di alcuni frammenti, spesso dolorosi, della sua vita, come la turbolenta fine della relazione con Monanni, la morte del figlio, le ristrettezze economiche nelle quali è costretta a vivere. Questi scritti, concepiti in forma di romanzo, se da un lato danno la possibilità di conoscere qualcosa dell’esistenza raminga di Leda, riflettono dall’altro l’immagine di una donna animata dalla volontà di non scomparire dalla scena, la sua convinzione di volere e di potere dire ancora qualcosa di sé. E questa volta è proprio al privato, al suo modo di essere e di vivere, alle sue passioni che Leda attribuisce importanza e valore di documenti, non solo per se stessa: l’uso dell’autobiografia romanzata, e non del diario, è un segno che la scrittrice prevedeva ancora dei destinatari.

Leda concepisce la letteratura come il luogo dove far liberamente giocare e portare in primo piano interrogativi, problemi, conflitti tipici della condizione femminile e che lei stessa sperimenta in prima persona. Se nei suoi scritti di propaganda militante sull’emancipazione femminile ella sostiene che i reali mutamenti nella vita delle donne avverranno in seguito a trasformazioni in primo luogo culturali, nella sua narrativa Leda Rafanelli ci immerge nel vivo delle contraddizioni che l’essere donna comporta, offrendoci stimoli ancora attuali. I primi suoi romanzi (Un sogno d’amore, 1905; Seme nuovo, 1912; L’eroe della folla, 1920) raccontano storie di donne che si dedicano a tempo pieno alla propaganda anarchica, emancipate, intelligenti e spesso intellettuali, ribelli e protagoniste della propria vita. Così Vera, l’eroina di Seme nuovo “era passata attraverso quella febbre di movimento, rafforzando il pensiero, elevandolo, spogliandolo sempre più dai pregiudizi della educazione antica, ricostruendo in sé senza saperlo una nuova morale al posto di quella che demoliva”. Vera è “la donna ribelle; la donna che si è saputa elevare al di sopra della massa delle incoscienti del suo sesso, e discute, nega, afferma alla coerenza delle idee innovatrici”.

Non è facile conciliare la donna rivoluzionaria di questa prima produzione narrativa con quella “orientale” delle ultime opere edite (Incantamento, 1921; Donne e femmine, 1922; la succitata L’oasi, 1929), della quale viene celebrata proprio la capacità di obbedienza, di dolcezza e di sottomissione (Islam in arabo significa per l’appunto “sottomissione di sé a Dio”, come ci ha ricordato Michel Houellebecq), che vive solo per l’amore e per la quale non sembra esistere altra dimensione della vita se non quella racchiusa tra le mura domestiche. Frequenti si fanno, nella seconda fase della produzione narrativa di Leda, espressioni come questa, tratta da L’oasi:

“Che cosa siamo noi, povere donne, per i nostri maschi audaci e forti? Siamo piccole cose, dolci e discrete, che le cose grandi trascinano come il vento trascina la sabbia! Siamo le lampade della casa, le schiave obbedienti che accolgono con gioia il loro amore impetuoso e selvaggio”.

Il percorso che ha indotto la Rafanelli ad abbandonare la primitiva visuale per aderire al mito idealizzato della donna araba può essere motivato da una sua personale evoluzione nel privato, in quanto, proprio per la intensa commistione tra letteratura e vita di cui si è parlato, e del quale il suo non è certo un caso unico in quest’epoca-si pensi alla vita e alle opere di Gabriele D’Annunzio-l’elemento autobiografico è sempre presente nella sua narrativa. Già le protagoniste dei suoi primi romanzi (Anna di Un sogno d’amore e Vera di Seme nuovo) non sembrano molto differenti dalla giovane Leda Rafanelli militante anarchica, articolista, attivista e propagandista; la capacità di analisi e l’autonomia di posizione che Leda mostra nelle colonne dei giornali su cui scrive e che spesso fonda e dirige, appartengono anche alle protagoniste che ella rappresenta. Queste ultime non hanno dubbi sulla loro scelta rivoluzionaria e nel dibattito politico tengono testa agli stessi compagni. Non solo; esse non hanno bisogno di nessun mediatore per riconoscere la giustezza delle idee che professano. A differenza di molte figure femminili della narrativa del tempo, le eroine della Rafanelli non scoprono la politica perché incontrano un uomo: l’opposizione, nei suoi romanzi, non si pone tra uomo e donna, ma tra gli oppressori e chi, indipendentemente dal sesso, lotta per l’affermazione dei propri ideali rivoluzionari. Si ribalta dunque un cliché, non solo letterario, che prevede l’iniziativa maschile per l’accesso della donna ai temi sociali e politici. Probabilmente questa dovette non solo essere la convinzione letteraria di Leda Rafanelli, ma anche coincidere con la sua esperienza prettamente personale, che si presenta, per i dati che abbiamo visto, difficilmente inquadrabile in un ruolo subalterno.
Ma già in questi primi romanzi, si può notare che l’esperienza dell’amore-passione introduce la contraddizione e la scissione all’interno della figura femminile stessa:

Magda sembrava una donna del passato e Vera era una donna dell’avvenire. Ma in ambedue era anche qualcosa che sminuiva l’apparenza. Vera aveva ancora in sé la passione sensuale dell’anima latina, mentre Magda, rinunciando a tutto quello che per l’amica era la vita, aveva saputo liberarsi dalla schiavitù dei sensi e dell’amore. In questo era più ribelle dell’altra, di Vera, completamente schiava dell’istinto, donna forte nel pensiero e nell’azione di fronte alla società e alle leggi e pronta a tornare femmina non appena vicina a un maschio” .
(Seme nuovo)

Da una parte i sentimenti “naturali” delle donne (l’amore, la gelosia, la maternità) sono valutati negativamente, sentiti come una perdita d’indipendenza, come una forza capace di riportare la donna al suo atavico stato asinino di soggezione, e soprattutto sono interpretati come inaccettabili distrazioni che allontanano dal lavoro-missione di propaganda politica:

“Sentì tutta la miseria dei sensi, la miseria che rende schiavi i maschi e le femmine, che fa piegare gli individui a vergogne rimpiante, a bassezze odiose. E si stupì quasi di conoscere che anche lei, in certi momenti, non era che una femmina; che la sua intelligenza superiore, la sua volontà plasmata di forze cedevano quasi senza lotta al primo assillo di un desiderio sensuale. E ne restò umiliata”. (Seme nuovo)

Ma d’altra parte le protagoniste dei romanzi di Leda Rafanelli sono donne molto sensuali e passionali e Leda stessa dedica nei suoi testi un grande spazio e una grande attenzione a questa dimensione del privato femminile e soprattutto all’intreccio fra tempestosa vita personale e intenso impegno politico. Se nei suoi primi romanzi, opere di propaganda anarchica, caratterizzati da scarsissima cura formale e dall’uso di schemi tipici della letteratura di consumo, la contraddizione si risolve tutta a favore di ciò che l’ideologia anarchica prevede per la donna emancipata, con la rinuncia delle protagoniste alla loro vita privata e l’adesione totale all’immagine pubblica e ideologica, è anche vero però che Leda dovette interrogarsi a lungo sulla scissione pubblico-privato, intravvista come specificità insita nel destino femminile. Probabilmente è sul filo delle sue riflessioni che elaborò negli ultimi romanzi il mito della donna araba. Una delle tracce più importanti che guidano l’elaborazione di questo mito è l’affermazione che le donne, non meno degli uomini, hanno diritto ad una vita sessuale felice. In questo Leda è voce originale anche fra le emancipazioniste radicali, che per lo più, in tema di sessualità, pudicamente tacciono.

Convinta che tutte le donne, anche quelle non belle, debbano avere spazio per l’espressione della loro sessualità, Leda ritiene in un primo momento che la soluzione stia nel libero amore, tema cardine dell’etica anarchica:

Il diritto all’amore diverrebbe nella società egualitaria il privilegio per chi la natura ha favorito della bellezza? No, ci voleva per l’avvenire l’amore per tutti come ci voleva per tutti il pane e il lavoro. […] L’amore in comune, la completa distruzione della famiglia, il ritorno alla primitività del possesso…” (Un sogno d’amore).

Più tardi Leda Rafanelli si convince però che non sono le questioni estetiche a determinare il problema della sessualità femminile, ma più sostanziali questioni di civiltà: nel mondo occidentale non è possibile che la donna viva per intero la sua vita sessuale. Anche per questo nel mito arabo degli ultimi romanzi sembrano vivere a proprio agio soprattutto le donne: qui esse sono in presa diretta con una parte di sé più profonda e naturale, qui possono interrogarsi sulle loro passioni e i loro sentimenti e confrontarsi con una istintività e una autenticità che la civiltà occidentale ha ormai debellato, rimosso o codificato in rigide ed asettiche regole comportamentali. Tuttavia anche la scelta di un’altra civiltà sembra non lasciare scampo al destino fatale e biologico delle donne, la maternità:

“Comprese che una legge di dolore incatenava tutte le povere donne l’una all’altra, in una solidarietà di sesso! Una legge di natura che piega a terra, le costringe a pagare-esse sole-il piacere che hanno goduto in due” (Donne e femmine).

Il finale de L’oasi, che rappresenta un bambino e due donne sole di fronte al mare, è quasi un appello alla solidarietà femminile come possibilità intravista per alleviare il peso di un destino che rimane tragico. In buona sostanza, la Rafanelli va senza dubbio inscritta, per il suo marcato orientalismo, nella cerchia di quegli intellettuali che, da Giuseppe De Lorenzo, primo traduttore italiano dei discorsi di Buddha, al teosofo Giuseppe Tucci, a Giovanni Papini, studioso di esoterismo negli anni in cui fu direttore del Gabinetto Vieusseux a Firenze, coltivarono interessi non superficiali per la teosofia. In ogni caso, almeno sul piano concreto, neppure la fine del fascismo le restituì la forza per rituffarsi concretamente nell’impegno civile e politico. Solo negli ultimi anni di vita si risvegliò in lei una rinnovata passione civile. Scrisse negli Anni sessanta alcuni suoi ricordi per il giornale Umanità Nova diretto da Mario Mantovani, suo vecchio compagno degli anni milanesi. Ritrovò la sua vena di scrittrice, aiutata da una memoria prodigiosa. Ella ripercorse e rievocò fino agli ultimi giorni in lunghe lettere agli amici più intimi il lontanissimo passato, la sua primavera fiorita fra le rive del Nilo e le ciminiere di Sesto San Giovanni. Morì a Genova il 13 settembre 1971.

 

Bibliografia

Paolo Orano, Autori proletari. Leda Rafanelli in Avanti! del 22 febbraio 1906.

Carlo Carrà, La mia vita, Milano, Rizzoli, 1945. I ricordi di Carrà sono molto imprecisi (si parla della collaborazione con Monanni a pagina 71). Di Carrà devono essere ricordati i disegni per Sciarpa Nera, la copertina al pamphlet antimonarchico di Paolo Valera, Il cinquantenario (Milano, Casa Editrice Sociale, 1911), il ritratto di Pietro Gori su La Rivolta di Milano del 10 maggio 1911.

Da ricordare che Giuseppe Monanni collaborò dalla Svizzera a Critica Sociale con due articoli: La questione dell’oro (numero del 16-31 gennaio 1917) e Mirbeau (numero del 1-15 marzo 1917).

Raffaele Ottolenghi morì suicida nel 1917. Su di lui il necrologio di Filippo Turati su Critica Sociale del 16-30 giugno 1917.

L’intellettuale dissidente

René Guénon, intellettuale atipico del nostro tempo, assertore dell’unità primordiale delle tradizioni

È proprio nel cristianesimo che Guénon riconosce l’unico reale ed effettivo collegamento tra l’Occidente e la tradizione primordiale, con i dovuti caratteri peculiari che ogni tradizione particolare presenta. È una logica che oggi pare quasi assurda, e che, anche per i più ben disposti, risulta ardua da penetrare.

“Il Mio cuore è divenuto capace di accogliere
 ogni forma,
è pascolo per le gazzelle,
un convento per i monaci cristiani,
è un tempio per gli idoli,
è la Ka’ba del pellegrino,
è le tavole della Torah,
è il libro sacro del Corano.
Io seguo la religione dell’amore,
quale mai sia la strada
che prende la sua carovana:
questo è mio credo e mia fede”.
Ibn l-Arabi, dal Tarjuman Al-Ashwaq

C’è una chiesa a Roma. Questa affermazione, priva all’apparenza di ogni funzione, essendo il numero di chiese presenti nella capitale d’Italia estremamente alto, serve a trasportarci in un luogo che può aiutarci a comprendere ciò di cui stiamo per parlare. Questa chiesa, sita in una traversa di via Labicana, alle spalle del Colosseo, è la Basilica di San Clemente.
Diversa da ogni altra, dimora dei frati predicatori, meglio conosciuti come Domenicani, la chiesa di San Clemente è composta da tre livelli. Il Primo, quello della basilica superiore, risale al XII secolo e si presenta oggi come un’affascinante commistione di stili, che si sono susseguiti dall’epoca della sua costruzione sino alle modifiche e alle ristrutturazione protrattesi fino al XVIII secolo. Un secondo livello, a cui si accede scendendo sottoterra, è costituito dalla Basilica antica, risalente probabilmente al IV secolo d.C. Anche il livello inferiore, forse unico nel suo genere e per questo ancor più suggestivo, ha subito aggiunte e modifiche nel tempo, arricchito da meravigliosi affreschi che narrano i miracoli e la storia del Santo. Ma c’è di più. Perché ad un livello ancora più basso rispetto alle due basiliche, permangono oggi i resti di una casa patrizia, in cui una zona era dedicata al culto di Mitra, divinità adorata sia nella cultura greco-romana sia in quella indo-persiana.

Guénon: grande esponente del “Tradizionalismo Integrale”

La tradizione cristiana, le sue radici e la sua evoluzione, e la tradizione pagana, rappresentata da una dea il cui culto ha travalicato le civiltà arrivando a Roma dalla lontana India, insieme in un unico complesso. Quasi unite da un filo impercettibile, le icone e i luoghi dei due culti sono ancora oggi coincidenti, uno sopra l’altro, intatti da più di 1500 anni come a simboleggiare un unicum inscindibile. Ecco, questa immagine forse, può dare l’idea dell’assunto principale su cui ruotano gli studi e gli scritti di uno degli intellettuali più atipici del nostro tempo: René Guénon.
Nato cattolico il 15 novembre 1886 a Blois in Francia, morì musulmano il 7 gennaio 1951 a il Cairo. Secondo i più smaliziati la causa della sua apostasia è da ricercare nel mancato successo delle sue idee in alcuni ambienti della intellighenzia cattolica. Una cosa è certa: non mancano detrattori al pensiero, a suo modo rivoluzionario, di René Guénon. Dal nostrano Umberto Eco – che assieme ad altri accademici rifiuta l’intero impianto del pensiero di Guénon – agli ambienti intellettuali cattolici contemporanei, che gli rimproverano, oltre all’affiliazione alla Massoneria Scozzese e a confraternite Sufi, una presunta scarsa considerazione della dottrina e della religione cristiana, nonché l’assunto principale del suo pensiero: la comune origine delle tradizioni particolari in un’unica e autentica tradizione primordiale.

La collaborazione a molte riviste degli ambienti più eterogenei, l’insegnamento in patria e nelle colonie hanno caratterizzato la vita di Guénon, sino al trasferimento a Il Cairo, in cui l’intellettuale francese continuerà a studiare e a scrivere sino alla morte, mantenendo rapporti epistolari con studiosi di tutto il mondo.
Ma più che la sua vita, ad essere d’estremo rilievo ed interesse, sono i suoi studi e il suo pensiero. Dal Taoismo all’origine dei numeri, dalla Cabala alla Divina Commedia di Dante sino all’Esoterismo Islamico, la materia di lavoro del “Great Sufi”- così soprannominato da Shri Ramana Maharshi, noto mistico Indiano –  è sconfinata. L’elemento centrale però, il perno intorno a cui questa ricerca perennemente ruota, è quello che abbiamo cercato di descrivere richiamando l’immagine della Basilica di San Clemente: l’unità primordiale delle Tradizioni. Tale concetto, di per sé oltremodo affascinante, è esplicato da Guénon in grandissima parte dei suoi scritti.
Ma quello che forse più di tutti riesce a darne l’immagine più definita in è il saggio Il Re del Mondo, comparso in Francia nel 1925.

Sull’onda di due testi: Mission de l’Inde di Saint Yves d’Alveydre e Bétes, Hommes et Dieux di Ferdinand Ossendoswki, relativi ad un antico centro iniziatico dell’Asia, situato in un mondo sotterraneo le cui ramificazioni si estendono in tutto il mondo: l’Agarttha. L’originale ed eclettico pensatore francese decise di scrivere un saggio in cui chiarì gli aspetti simbolici e la storia di questo centro; esponendo con chiarezza e scorrevolezza disarmanti tutti i collegamenti e i punti in comune che i caratteri chiave dell’Agarttha e del suo Capo, Il Brahmatma – il Re del mondo – presentavano con tutte le tradizioni. Dall’Ebraismo al Cristianesimo, passando per l’Islam siano alla leggenda del Graal e dei cavalieri della tavola rotonda, il quadro tracciato con estrema maestria dall’autore, si apre sempre di più al lettore capitolo per capitolo, disegnando una fitta trama di rimandi tra le varie tradizioni, tale da far porre degli interrogativi anche al più scettico tra gli uomini.

Ma l’Agarttha, l’inaccessibile centro di cui SainyYves e Ossendoswki parlano nei rispettivi testi, non è stato sempre nascosto. È lo stesso Ossendowski infatti ad indicare, come riporta lo stesso Guénon all’interno del saggio, che il centro è nascosto da circa seimila anni, data in cui si fa risalire l’inizio della nera età del ferro: il “Kali Yuga”.
Tramite il rimando al Kali yuga, definito dal pensatore tradizionalista come periodo di oscuramento e confusione,  si snoda l’aspra critica alla modernità che caratterizza la totalità dell’opera dell’autore.

È l’allontanamento dall’unità primordiale, dalla verità e dall’ “unica e vera conoscenza” ad essere per Guénon il tratto caratterizzante dell’età moderna, del Kali Yuga. Questa confusione comporta un continuo fraintendimento della realtà, dei simboli e della tradizione, tutti distorti sotto la lente del profano, delle moderne filosofie e delle  scienze contemporanee, che ,scollegate dai principi, a nulla possono portare se non ad accidentali e parziali verità.
In un articolo comparso sulla rivista “Voile D’Isis” nel 1935 : “Le arti e la loro concezione tradizionale”, contenuto in Italia nella raccolta Il Demiurgo e altri saggi, edita da Adelphi, Guénon si scaglia contro il concetto moderno di arte, ridotto al solo significato di “Belle arti”, rivendicando il più ampio valore del termine che ricomprendeva in sé anche i mestieri, e sottolineando come la perdita della funzione iniziatica di tali “arti” le abbia svuotate della loro funzione principale.

Nello stesso articolo Guénon esprime un’altra tagliente critica alla modernità e al suo approccio scientifico, denunciando che “ Il concetto di scienze strettamente specializzate e separate le une dalle altre è nettamente antitradizionale, in quanto rivela una mancanza di principio, ed è caratteristico dello spirito analitico, che ispira e regola le scienze profane, mentre ogni punto di vista tradizionale può solo essere essenzialmente sintetico”. L’iniziazione, è per lui – l’importanza che egli attribuisce a tale concetto è stato in parte criticato dallo stesso Julius Evola, il quale prediligeva l’approccio individuale rispetto all’affiliazione ad organizzazioni –  è un elemento ricorrente nella sua opera e nella  sua vita . Questi, come abbiamo già detto affiliato alla massoneria scozzese e  a confraternite Sufi, espresse un elitarismo reale e scevro da ogni ostacolo moraleggiante, affermando più volte come solo “pochi eletti” possano essere atti a ricevere la vera conoscenza. È cruciale il ruolo che Guénon affida ad alcune organizzazioni come i Templari e i Rosacroce nei suoi scritti, sottolineando come la dipartita di questi ultimi verso l’Asia abbia fatto cessare gli scambi spirituali e i contatti con i centri iniziatici tra Oriente e Occidente.

In un altro articolo comparso sulla rivista Études Traditionnelles nel 1940, intitolato “La Diffusione della Conoscenza e dello Spirito Moderno” egli – per usare un espressione semplicistica ma che plasticamente rende l’oggetto dell’argomentazione – critica la tensione della modernità di “sacrificare la qualità per la quantità”. Secondo lo scrittore francese  infatti “La diffusione sconsiderata di una istruzione che si pretende di impartire a tutti, attraverso forme e metodi identici, non può portare che a una sorta di livellamento verso il basso; qui come dappertutto nella nostra epoca la qualità è sacrificata alla quantità”.

Come altri prima di lui, l’intellettuale francese vedeva nell’Oriente, specificamente nell’India, un luogo in cui la spiritualità e  dunque una coscienza e una predisposizione maggiori verso la verità e la tradizione primordiale, si fossero conservate a differenza dell’Occidente, in cui sempre a sua detta non esistono nemmeno le parole per rendere ed esprimere alcuni concetti fondamentali.
Nonostante le critiche voltegli, come sopra riportato, da un certo ambiente cattolico, è proprio nel cristianesimo che Guénon riconosce l’unico reale ed effettivo collegamento tra l’Occidente e la tradizione primordiale, con i dovuti caratteri peculiari che ogni tradizione particolare presenta.
È una logica che oggi pare quasi assurda, e che, anche per i più ben disposti, risulta ardua da penetrare.
Quello che rimane, a prescindere dall’ efficacia delle tesi sostenute è la tenacia intellettuale, sono la difficoltà e la vastità degli argomenti trattati, la scorrevolezza dei testi che li rende accessibili anche ad un pubblico non specializzato, e ,soprattutto, lo sforzo titanico di chi non riconoscendosi nelle istanze del suo tempo le ha combattute con la più profonda conoscenza.
Al termine del saggio Il Re del Mondo, Guénon cita Jospeh De Maistre, pensatore francese del XIX secolo: ”Dobbiam tenerci pronti per un avvenimento immenso nell’ordine divino, verso il quale procediamo a velocità accelerata che deve colpire tutti gli osservatori. Temibili Oracoli annunciano già che i tempi sono giunti”; dicendo che tale frase è ancor più vera al suo tempo di quanto non lo fosse quando fu pronunciata. E chissà se questo tristo Vaticinio non sia ancor più vero oggi. Chissà.

Proponiamo, in conclusione, alcuni passi dall’opera di René Guénon su:

Il simbolismo
(da Considerazioni sulla via iniziatica): Il simbolismo è essenzialmente inerente a tutto quel che presenta un carattere tradizionale, è anche bello stesso tempo, uno dei tratti attraverso i quali le dottrine tradizionali, nel loro insieme (perché esso si applica contemporaneamente ai due ambiti esoterico ed essoterico) si distinguono a prima vista dal pensiero profano, al quale questo stesso simbolismo è del tutto estraneo, e questo necessariamente, per il fatto stesso che traduce propriamente qualcosa di “non umano” che non potrebbe per nulla esistere in un simile caso.
(da Simboli della Scienza sacra): Anzitutto, il simbolismo ci appare adatto in modo speciale alle esigenze della natura umana, che non è una natura puramente intellettuale, ma ha bisogno d’una base sensibile per elevarsi verso le sfere superiori.
….
Il simbolo è suscettibile di molteplici interpretazioni, in nessun modo contraddittorie, ma invece complementari le une colle altre e tutte parimenti vere, pur procedendo da differenti punti di vista. E’ sufficiente che i simboli siano mantenuti intatti perché siano sempre suscettibili di svegliare, in colui che ne è capace, tutte le concezioni di cui figurano la sintesi.

L’iniziazione
(da Considerazioni…): Iniziazione deriva da “initium” e questa parola significa propriamente “entrata” o “punto di partenza”: è l’entrata in una via che resta da percorrere, o meglio il punto di partenza di una nuova esistenza.
L’iniziazione, a qualsiasi grado, rappresenta per l’essere che l’ha ricevuta un’acquisizione, uno stato che, virtualmente ed effettivamente egli ha raggiunto una volta per sempre e che ormai nulla può togliergli.

Esoterismo
(da Considerazioni….): L’esoterismo è ben altra cosa che la religione, e non la parte “interiore” di una religione, anche quando ha la sua base ed un punto d’appoggio in questa, come succede in alcune forme tradizionali, ad esempio nell’islamismo.

Massoneria
(da Etudes Traditionnelles): I primi responsabili di questa deviazione, (la Massoneria moderna n.d.r.) a quanto sembra, sono i pastori protestanti Anderson e desaguliers che redassero le Costituzioni della Gran Loggia d’Inghilterra, pubblicate nel 1723 e che fecero scomparire tutti gli antichi documenti su cui poterono mettere le mani, perché non ci si accorgesse delle innovazioni che introducevano, e anche perché questi documenti contenevano delle formule che essi consideravano limitanti, come l’obbligo di fedeltà a Dio, alla Santa Chiesa e al Re, segno incontestabile della origine cattolica della Massoneria. I protestanti avevano preparato questo lavoro di deformazione mettendo a profitto i quindici anni che passarono tra il ritiro di Christophe Wren, ultimo Gran Maestro della Massoneria antica (1702, e la fondazione della nuova Grande Loggia d’Inghilterra (1717). Tuttavia, lasciarono sussistere il simbolismo, senza dubitare che questo, per chiunque lo capisse, testimoniava contro di essi con tanta eloquenza, quanto i testi scritti, che d’altro canto non erano riusciti a distruggere del tutto. Ecco, riassunto molto brevemente, quel che dovrebbero sapere tutti coloro che vogliono combattere efficacemente le tendenze dell’attuale Massoneria. C’è stata un’altra deviazione nei paesi latini, questa in senso antireligioso, ma è sulla “protestantizzazione” della Massoneria anglosassone, che bisogna insistere in primo luogo.

 

Fonti: http://www.granloggia.it/page/ren%C3%A9-guenon

http://www.lintellettualedissidente.it/homines/rene-guenon/

“Divorzio all’islamica”, di Amara Lakhous

Divorzio all’islamica a viale Marconi (E/O, 2010) è il secondo romanzo in italiano dello scrittore, antropologo e giornalista algerino Amara Lakhous. Il primo è stato pubblicato, sempre da E/O, nel 2006, ed è il famosissimo Scontro di civiltà per un ascensore a piazza Vittorio. Proprio come la sua prima opera in italiano, anche questo testo si concentra su tematiche fondamentali della nostra Italia multiculturale, quali l’integrazione, i pregiudizi razziali e religiosi, le difficoltà degli immigrati. E lo fa, ancora una volta, mescolando i punti di vista, alternando le narrazioni fra personaggi italiani e stranieri, smascherando molti dei pregiudizi (e questo è il punto di forza dell’autore Lakhous) che anche gli stranieri nutrono verso gli italiani.

Divorzio all’islamica vs divorzio all’italiana

La narrazione di Divorzio all’islamica è divisa fra due punti di vista (a differenza di Scontro di civiltà, in cui ogni capitolo era dedicato a un personaggio diverso, ma tutti riguardavano comunque l’affare dell’ascensore e l’omicidio del Gladiatore), quello di Christian/Issa e quello di Safia/Sofia.

Christian è un poliziotto siciliano che viene reclutato dai servizi segreti italiani per smascherare una cellula terroristica legata ad Al-Qaeda e che opererebbe, secondo le informazioni, attorno a Little Cairo, una delle tante attività gestite da immigrati per immigrati in cui è possibile telefonare all’estero, fare fotocopie e seguire programmi locali come Al-Jazeera. Christian dunque deve fingersi Issa, un immigrato tunisino, e infiltrarsi nella comunità islamica di viale Marconi. Questo almeno ufficialmente: nella realtà si scopre che il capitano Giuda (nome in codice del comandante dell’operazione) ha messo in scena una grande farsa per “testare” le abilità d’infiltrazione di Christian e di altri agenti, così da poter creare una vera e propria task force per future operazioni.

L’altra scena è dedicata alla situazione familiare/esistenziale di Safia (che tutti chiamano Sofia), un’immigrata egiziana che ha sposato, suo malgrado, un uomo molto osservante della religione musulmana (sebbene poi quest’uomo si faccia chiamare Felice e lavori come pizzaiolo in un ristorante gestito da italiani). Il divorzio all’islamica è proprio quello fra Sofia e Felice. La donna, ripudiata già due volte per motivi futili, viene verso la fine del libro ripudiata una terza volta durante una discussione altrettanto futile: Sofia, di nascosto dal marito, persegue infatti il suo sogno di lavorare come parrucchiera ma, quando il marito scopre i soldi che lei conserva per dare una mano alla famiglia rimasta in Egitto, la ripudia. Secondo le leggi islamiche, dopo il terzo ripudio il divorzio è ufficiale. Per far sì che la coppia si ricongiunga, la donna deve sposare un altro uomo musulmano e consumare il matrimonio; solo a quel punto potrà tornare dal marito.

Le due storie si intrecciano quando Issa, nel suo tentativo d’infiltrazione, entra separatamente in contatto con Felice, col quale stringe una sorta di amicizia, e con Sofia, della quale si innamora. E dopo il divorzio è proprio Felice a proporre Sofia in sposa a Issa, generando problematiche relative alla situazione familiare di Christian/Issa (che ha moglie e figli a Mazara del Vallo).

E poi? Ecco, qui la narrazione finisce, e questo è proprio il momento adatto per trattare il punto debole (debolissimo) di questo romanzo: sembra che manchi il finale, o meglio sembra che ci sia un buco nella trama relativo al finale. L’ultimo capitolo, dedicato a Issa, vede infatti l’emersione della farsa relativa all’indagine. Il libro si conclude in questo modo:

«Giuda, mi pare di avertelo già detto: sei un vero bastardo!».
«Lo so. Per questo mi faccio chiamare Giuda e non Issa come te! Insomma, che mi dici? Vuoi lavorare con me?».
«Ci devo pensare».
«Dicono tutti così prima di accettare! Però devi far presto, tunisino. Siamo in piena guerra al terrore».
«War on Terror? Ma non diciamo minchiate!».

“E allora? Allora niente” (citando la frase ricorrente di Sofia). Il testo non ci dice niente di più sulla vita di Sofia e Felice (si riconcilieranno, o lei tornerà donna libera in una comunità italiana?); non ci dice niente su come si comporterà in futuro Christian/Issa (che, per questo lavoro, ha tradito la moglie e commesso più di un reato); non ci dice niente sugli altri personaggi, che più che personaggi veri e propri sembrano caricature stereotipate (ma questo, almeno, rientra forse nelle intenzioni dell’autore).

Se quello che sembra un enorme buco di trama (o una grande fretta di concludere la narrazione, nonostante i cinque anni di progettazione del libro, come si legge dopo l’ultima battuta: 2006-2010) è un elemento decisamente negativo del romanzo (e non si riesce a pensare a qualche altro elemento metanarrativo, come ad esempio il voler mostrare l’incertezza del periodo storico, o il voler lasciare il finale aperto), tanti sono quelli positivi. Come già in Scontro di civiltà (e il paragone è inevitabile), Lakhous snocciola, fra una narrazione e l’altra, descrizioni interessanti di due tipi: 1) sociale; 2) culturale.

Il primo riguarda lo spaccato sociale che investe gli immigrati italiani. Lakhous ci porta nei luoghi della mancata integrazione, come la pizzeria dove i camerieri sono italiani ma i pizzaioli e i lavapiatti sono immigrati (così che i clienti non possano entrare in contatto con i secondi); ci porta nei luoghi dello sfruttamento dell’immigrato, come la casa dove vivono, in nero, una decina di persone in condizioni igieniche pessime (e qui l’autore fa il paragone azzeccatissimo con gli studenti universitari); ci porta nei capannoni industriali riciclati a moschee, fra le strade di una Roma che ancora non accetta il diverso. E lo fa con estremo disincanto, come se il sogno di una società multietnica fosse svanito prima di realizzarsi.

Il secondo tipo di narrazione viene messa in bocca a Sofia, la quale racconta, da immigrata, le differenze religiose e culturali fra il mondo musulmano e quello cristiano, fra il Medio Oriente e l’Occidente più vicino. E Sofia racconta delle tradizioni e delle contraddizioni di un Islam spesso male interpretato e che, perciò, crea attriti e frizioni con un cristianesimo a sua volta molto “personalizzato”. Racconta degli episodi di razzismo e xenofobia in cui s’imbattono molti immigrati quotidianamente, racconta dei dubbi che l’apertura alla modernità necessariamente porta (perché la poligamia è solo maschile? Perché le donne devono portare il velo? Perché la circoncisione maschile è accompagnata da festeggiamenti mentre quella femminile è turpe e vergognosa?). Sofia, reietta nella società musulmana, trova in quella occidentale (più tollerante, almeno in superficie, nei confronti delle donne) una sorta di via di fuga.

Ed è nelle parole di Sofia che si trova il compimento di questo (pur dimidiato) bel testo:

In Italia non c’è futuro! Queste parole mi preoccupano molto. Penso automaticamente a mia figlia Aida, al suo futuro. Gli italiani lasciano l’Italia per cercare fortuna altrove! Ma noi immigrati veniamo qui per lo stesso identico motivo! E allora? Allora niente. C’è qualcosa che non funziona. Un paese per turisti, non per lavoratori. Giulia ha detto: L’Italia è come Montecarlo!. Mi incuriosisce molto questo paragone. A Montecarlo ci sono i casinò, dove si gioca d’azzardo. Mi viene spontaneo chiedere: l’immigrazione non è in fin dei conti una forma di gioco d’azzardo? Vincere tutto o perdere tutto?

Exit mobile version