‘Capire il confine’ di Giustina Selvelli. Tra biografia personale e storia della frontiera

Dal 17 aprile  la collana “le metamorfosi”, curata da Martina Napolitano, si arricchisce del nuovo libro di Giustina Selvelli Capire il confine. Gorizia e Nova Gorica: lo sguardo di un’antropologa indaga la frontiera, un’indagine sulla frontiera, su un confine, su un margine sempre in movimento, contraddittorio, instabile, vivo.

In Capire il confine, l’antropologa Giustina Selvelli sovrappone la sua biografia personale, intima e soggettiva,alla storia della frontiera, delle genti che la abitano, delle politiche che la fanno sparire e poi riemergere a seconda dei casi.
Uno sguardo su Gorizia e Nova Gorica che tocca diversi periodi: dalla cortina di ferro all’eliminazione delle dogane, dalla rete divisoria durante la pandemia di Covid-19 alla sospensiоne dei trattati di Schengen sulla libera circolazione di persone e merci, dalla rotta balcanica alla vittoria della Capitale europea della Cultura 2025.

Un resoconto appassionante e documentato che getta luce su aspetti socio-antropologici emblematici per comprendere che cosa significa abitare una terra di frontiera.

Capire il confine è dedicato a studiosi, curiosi, turisti e appassionati della frontiera orientale, e di tutte le frontiere in generale.
Corredato da capitoli di approfondimento, mappe, cronologie, per consentire di navigare dentro la complessità delle terre del Goriziano italiano e sloveno nella loro affascinante attualità.

La mia frontiera, quella che ho abitato e percorso sin dalla primissima infanzia, e di cui ho preso coscienza soltanto con il passare degli anni: è da qui che si parte per indagare i margini, non più solo solchi di divisione, ma territori di identità molteplici, esempi della migliore Europa.

L’autrice

Giustina Selvelli è ricercatrice post-doc all’università di Ljubljana. Antropologa e sociolinguista, si occupa di minoranze etniche, ecologia e nazionalismo nello spazio del Sudest europeo. È autrice di una trentina di articoli accademici e delle monografie The Alphabet of Discord (Ibidem, 2021) sui sistemi di scrittura balcanici e Language Attitudes, Collective Memory and (Trans)National Identity Construction Among the Armenian Diaspora in Bulgaria (Peter Lang, 2024) sulla diaspora armena in Bulgaria. È una delle autrici del volume Capire i Balcani occidentali (Bottega Errante, 2021). Collabora attivamente con l’Associazione Meridiano 13 scrivendo articoli di divulgazione.

‘Homo prospectus. Verso una nuova antropologia’, il saggio interdisciplinare di Seligman, Railton, Baumeister e Sripada

“Homo prospectus. Verso una nuova antropologia” di Martin E.P. Seligman, Peter Railton, Roy F. Baumeister e Chandra Sripada è un saggio interdisciplinare in cui si riflette sulla possibilità che la coscienza possa consistere in gran parte nella produzione di stimoli connessi ai futuri possibili. Seligman, esperto di psicologia generale con una solida preparazione nel campo della psicologia sperimentale e clinica, ha messo insieme un incredibile gruppo di lavoro che in anni di studi e ricerche ha elaborato questo innovativo e interessante testo. Gli undici capitoli del saggio sono organizzati in modo che sia solo uno dei quattro autori a prendere la parola, fermo restando la presenza dei commenti degli altri tre studiosi; Seligman si è poi assunto il compito di limare le differenze di stile e di prospettiva.

«Che cosa succede nel momento in cui l’essere umano canonico diventa Homo prospectus e la capacità di pensare ai nostri futuri diventa la facoltà che ci contraddistingue?»

Gli autori partono dal presupposto che la definizione Homo sapiens non si addica alla nostra condizione di esseri umani: «Noi crediamo che quello che caratterizza in modo specifico l’Homo sapiens è l’ineguagliabile capacità umana di orientare le proprie azioni immaginando varie possibilità che si articolano nel futuro – cioè la “prospezione”. La prospezione è la capacità che, nella sua espressione più elevata, realizza l’ambizione della sapienza. Perciò faremmo meglio a chiamarci Homo prospectus». Individuando e definendo i processi cognitivi attraverso i quali opera la prospezione, gli autori ne esplorano il ruolo in riferimento ad alcuni aspetti esistenziali come il libero arbitrio, l’etica, l’invecchiamento, ma anche rispetto ad elementi più propriamente psicologici, come il razionale di alcuni approcci terapeutici. Ne risulta un volume articolato, che guida il lettore in un processo di ragionamento trasversale sul funzionamento della mente che, attraverso un approccio interdisciplinare, tocca psicologia, filosofia, antropologia e neuroscienze, ma che non manca di riferimenti alla quotidianità e alle domande più comuni che l’essere umano si pone.

È il momento quindi di superare il vecchio schema passato-presente; il nuovo modello della prospezione consente inoltre di ripensare a importanti argomenti come l’apprendimento, la memoria, la percezione, l’emozione, l’intuito, la scelta, la coscienza, la moralità, il carattere, la creatività e la malattia mentale, e di offrire quindi nuove prospettive da cui osservarli e studiarli.

In seguito alla pubblicazione in inglese di questo saggio da parte della Oxford University Press, diverse borse di studio sono state stanziate dalla Templeton Foundation per la scienza della prospezione: gli autori hanno quindi creato un sito web – www.prospectivepsych.org – in modo che si possano seguire gli sviluppi di questi lavori.

 

SINOSSI DELL’OPERA. E se ciò che caratterizza in modo specifico Homo sapiens fosse la capacità di orientare le proprie azioni immaginando varie possibilità che si articolano nel futuro – cioè la “prospezione”? Da questa idea si sono mossi gli autori per ipotizzare la figura dell’Homo prospectus e concettualizzare l’idea che l’azione umana è attratta dal futuro, oltre che essere influenzata dal passato – senza tuttavia esserne determinata. La storia della psicologia è stata fino ad oggi dominata dall’idea che il comportamento sia guidato dalla memoria e dalle proprie esperienze passate, o centrato sul presente e orientato dalla percezione e dalla motivazione. Homo prospectus ribalta completamente questa prospettiva, ponendo un nuovo modello per il futuro.

 

BIOGRAFIE DEGLI AUTORI.

Martin E.P. Seligman è direttore del Penn Positive Psychology Center ed è Zellerbach Family Professor di Psicologia presso il Dipartimento di Psicologia dell’Università della Pennsylvania, dove dirige il Master of Applied Positive Psychology (MAPP). Autore di quasi trecento pubblicazioni scientifiche e di venticinque libri fra cui, tradotti in italiano, “Il circuito della speranza. Il percorso dell’uomo che ha aperto la psicologia all’ottimismo” (Giunti Psychometrics, 2019), “Per una felicità autentica. Realizza il tuo potenziale con la psicologia positiva” (Anteprima Edizioni, 2018) e “Fai fiorire la tua vita. Una nuova, rivoluzionaria visione della felicità e del benessere” (Anteprima Edizioni, 2017), Seligman è un’autorità mondiale nei campi della psicologia positiva, della resilienza, della learned helplessness, dell’ottimismo e del pessimismo.

Peter Railton è Gregory S. Kavka Distinguished University Professor presso l’Università del Michigan, Ann Arbor. Si è occupato di filosofia della scienza, etica, metaetica, filosofia politica ed estetica. Ha insegnato a Berkley e Princeton ed è stato membro di vari centri di ricerca negli Stati Uniti e in Europa.

Roy F. Baumeister è Frances Eppes Eminent Scholar and Professor di Psicologia presso la Florida State University; le sue ricerche riguardano temi quali sé e identità, l’autoregolazione, rifiuto interpersonale e bisogno di appartenenza, sessualità e genere, l’autostima, il significato e la presentazione di sé. È autore di oltre cinquecento pubblicazioni e di trentuno libri fra cui, tradotto in italiano, “La forza di volontà” (con John Tierney, TEA, 2015).

Chandra Sripada è professore associato di Filosofia e psichiatria presso l’Università del Michigan, Ann Arbor. Studia i meccanismi cerebrali coinvolti nella presa di decisione, nella prospezione e nell’autocontrollo e cerca di capire come le acquisizioni della ricerca scientifica impattino sull’immagine che abbiamo di noi stessi in quanto agenti liberi e razionali.

 

 

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In ricordo di Mircea Eliade, archeologo simbolico e ricercatore delle radici europee

Il 13 marzo 1907, a Bucarest, nasceva Mircea Eliade. Ad onta delle varie critiche – spesso scientifiche, spesso no – mosse a questo straordinario pensatore, filosofo, antropologo, storico delle religioni, mitografo, a 110 anni dalla sua nascita il suo pensiero è più vivo che mai: stanno a dimostrarlo le continue ristampe dei suoi testi, ma anche le nuove opere edite in italiano, che coprono tutto l’arco della sua produzione, dalla narrativa alla saggistica, dalla diaristica al teatro. Il pensiero di Eliade è un’autentica oasi in quel deserto di strutturalismi, decostruzionismi e pensieri deboli, post, neo e via discorrendo, che imperversa oggi. Forse il merito più grande dello storico delle religioni romeno è stato di avere preso il sacro sul serio. Questa la sua eredità, che è compito degli studiosi approfondire e meditare.

Eliade: il sacro come categoria fondamentale delle civiltà

Secondo Eliade il sacro è la categoria fondamentale delle civiltà: non è una sovrastruttura, come vorrebbe un certo materialismo dialettico, non nasconde un sostrato economico o sociale, ma al contrario, li fonda. Tutto il reale è leggibile come ierofania, manifestazione del sacro, della sua potenza: cratofania. Non c’è ambito che non lo sia, nelle civiltà arcaiche. E il sacro è anzitutto collegato al problema del tempo (autentico suo chiodo fisso, che compare anche in molta sua narrativa, da Un’altra giovinezza al recentemente pubblicato Dayan). Attraverso il rito, scrive in quel capolavoro che è il Trattato di storia delle religioni, l’uomo viene reintegrato nell’illud tempus, nel tempo senza tempo precedente la caduta nella storia. Un tempo che però non è confinato in un lontanissimo passato ma che è contemporaneo a tutte le epoche, e che spetta al rito riattualizzare. Solo così l’uomo può incontrare la propria essenza più profonda.

Il rito, il mito, il simbolo: ecco le chiavi che schiudono l’accesso ai tesori dell’antichità e delle culture “altre”. Altro che Lévi-Strauss… Nelle civiltà arcaiche tutto è rituale, tutto è eseguito a regola d’arte, in conformità con l’ordine cosmico (dove i concetti vacillano, le etimologie sono inequivocabili): la costruzione delle città come l’edificazione delle case, le nascite come le morti, le unioni come le separazioni. Ogni cosa, ogni azione è sacrificio, restituzione agli dèi di ciò che l’uomo ha profanato. Tutto è rituale, ogni azione umana: ogni esistenza si rinnova continuamente, reintegrandosi nella ciclicità del cosmo, ripetendone la genesi. Ogni vita, scrive Eliade, è infatti una lunga e ininterrotta catena di morti e resurrezioni iniziatiche. Con l’uomo, ogni volta, muore e risorge l’universo intero. Da qui anche la funzione fondamentale del mito, modello esemplare (su cui ha scritto pagine indimenticabili Gian Franco Lami), precedente autorevole che garantisce la continuità nell’avvicendarsi delle generazioni e delle ere.

L’archeologia simbolica di Eliade non manca tuttavia di considerare il presente, il nostro mondo. Lo storico delle religioni si cimenta in una lunga analisi comparata (che proseguirà anche il suo allievo, Ioan Petru Culianu, autore di un pioneristico studio su di lui, assassinato in circostanze assai misteriose a Chicago, all’inizio degli anni Novanta). Nel mondo moderno, il sacro non scompare affatto. Al massimo può mutare forma, nascondersi: nella creatività, ad esempio. Viene da sorridere, addirittura, sentendolo parlare di modernissime correnti che trarrebbero energia da componenti mitiche pre-moderne, come la psicanalisi freudiana, anticipata dalla psicologia dello yoga. Il sacro risorge nella scrittura, nelle produzioni dello spirito: addirittura, le ultime pagine di Mito e realtà designano la letteratura fantastica come erede degli antichi miti. Ogni scrittura è mitopoietica, anche quando risolutamente lo nega. Ogni letteratura è fantastica, aveva confessato Jorge Luis Borges negli anni Quaranta, persino quella iperrealista, che vorrebbe sezionare la realtà con il bisturi dello scienziato.

Alla saggistica Eliade accosta un’intensa produzione narrativa. Li chiama i due lati, diurno e notturno, della sua attività. Ciò che non riesce a comunicare con la prima emerge nella seconda. Da questo scambio nascono capolavori come Notti di Serampore o Il segreto del dottor Honigberger, autentiche sospensioni del principio di realtà, magnifiche celebrazioni dell’immaginazione creatrice. A proposito dei quali dirà: «Io credo alla realtà delle esperienze che ci fanno uscire dal tempo e dallo spazio». Lo faceva uscire dal tempo anche la musica, specie quella di Bach. Mettendosi a scrivere, nell’avvicendarsi di trame e personaggi Eliade cerca lo straordinario nell’ordinario, il metastorico nello storico. Cerca il Grande Incontro, come l’aveva definito Jünger nei suoi Avvicinamenti, rassegna di esperienze estatiche legate agli stupefacenti (la prima parte della quale è dedicata, non a caso, proprio a Eliade, con cui aveva diretto per più di un decennio la rivista «Antaios»).

La storia e il tempo

Un occhio rivolto al passato, uno fisso sulla modernità, rea di aver distrutto l’immaginazione, decimato la fantasia, relegandola a una specie di costruzione al di là del mondo, buona solo per chi non sa stare con i piedi per terra. L’opera di Eliade ci ricorda che il tempo storico non esaurisce affatto ciò che siamo, ma che è sempre possibile nelle nostre vite l’irruzione dell’Altra Realtà. Guai a chi afferma che la storia non ha altra dimensione che quella materiale. Guai a chi vede il tempo come lineare. Eliade ha coniato una splendida definizione per descrivere il nostro tempo: è il «terrore della storia», la condizione di chi rinuncia a leggere passato, presente e futuro con un occhio metastorico. Senza un riferimento superiore, allora, le crisi non sono più viste come delle prove ma come dei drammi fini a sé stessi. Laddove cessa un’indagine simbolica sulla storia, essa diviene una collazione di tragedie. Da qui la sua esplorazione del passato dell’Europa: un abisso scompagina la storiografia che noi tutti conosciamo. Mettendosi alla ricerca delle radici europee, scopre che sono molto più profonde di quel che ci hanno raccontato, più antiche della cultura greca e di quella romana, radici che, come racconterà a Claude-Henri Rocquet, «ci rivelano l’unità fondamentale non soltanto dell’Europa, ma anche di tutto l’ecumene che si stende dal Portogallo alla Cina, dalla Scandinavia a Ceylon». Un metodo analogo a quello di René Guénon, che lesse e non mancò di criticare, ma soprattutto di Julius Evola, con il quale mantenne una fitta corrispondenza.

Dalle radici al futuro: Eliade fa un sogno terribile, che racconta nei suoi diari. Due vecchi muoiono, in silenzio, l’uno accanto all’altro. Con loro scompare un mondo, in un silenzio colpevole. Ne è terrorizzato: si ritira in una stanzetta, inizia a pregare. Gli rimbomba nelle orecchie una sentenza terribile, l’oscuro mantra del XX secolo: «Se Dio non esiste, tutto è finito, tutto è assurdo». Se l’esistenza non è più legata a qualcosa che la trascende, non rimane che il nulla, il nichilismo compiuto. Ma Eliade ci vede anche qualcos’altro: la scomparsa di un’eredità. Quel che è accaduto ai due vecchi potrebbe un giorno avvenire anche all’Europa. Una perdita terrificante. Le bombe atomiche a distruggere le biblioteche, la tecnica al servizio della barbarie denunciata da Jünger nei suoi libri La pace e Le scogliere di marmo«Il grande delitto contro lo spirito» confida sempre a Rocquet. Se la Terra cessa di essere tempio, diviene un macello.

Dopo la Seconda Guerra Mondiale Eliade sceglie l’esilio. Dopo anni di servizio diplomatico a Londra e Lisbona, il suo daimon lo conduce altrove. Francia, Stati Uniti. La sua patria? La lingua romena: «Per ogni esiliato, la patria è la lingua materna che continua a parlare». La prolificità della migrazione romena nella prima metà del XX secolo è ancora tutta da raccontare: Eliade, Cioran, Eugen Ionescu, Vintila Horia. Per lo storico delle religioni – lo scriverà in uno dei suoi ultimi racconti, All’ombra di un giglio – l’esilio non è una condizione semplicemente politica, ma molto di più. Un viaggio verso l’ignoto, che però perde le sue fattezze misteriose se analizzato da un punto di vista diverso, al riparo dal terrore della storia di cui abbiamo già detto: «In qualsiasi posto c’è un centro del mondo. Una volta in questo centro, siete a casa vostra, siete davvero nel vero sé e al centro del cosmo». Lo stesso esilio ci aiuta a capire che il vero centro non si esaurisce nella geografia ma risiede in una dimensione più che materiale. Il simbolismo del centro di cui ha parlato nel Trattato l’ha vissuto personalmente, lui.

Quel simbolismo che potrebbe aiutare anche noi, uomini d’inizio millennio, a porci al riparo dai brutti scherzi della storia. Questo il messaggio di Eliade, ciò che di lui è vivo dopo un secolo.

 

Fonte:

http://www.lintellettualedissidente.it/homines/mircea-eliade/

Edgar Morin: L’Uomo e la Morte

“Sono consapevole che l’umanità non possa avere accesso all’immortalità, ma credo che si possa conquistare una amortalità, vale a dire la privazione della mortalità per un tempo indefinito”, (Edgar Morin , L’uomo e la Morte) .

Come si è evoluto il rapporto dell’umanità nei confronti della morte nell’arco dei secoli? Come ha gestito l’uomo, lo sgomento che deriva dall’annullamento della propria esistenza, quel baratro percettivo che cancella  e ridefinisce i contorni dello scorrere del tempo con l’assenza dello stesso? La morte, di certo, non cambia, muta la concezione che gli esseri umani hanno verso di essa, e le condizioni in cui la stessa si verifica. Edgar Morin affronta la sfida di confrontarsi con un tema vasto e dai confini fugaci, perché far fronte alla morte vuol dire considerare l’uomo in tutta la sua disarmante totalità.

L’Uomo e la Morte, il saggio di Morin pubblicato per la prima volta nel 1951, non ha la pretesa di fornire risposte ma rappresenta, al contempo, un testo decisivo per comprendere la sostanza del pensiero moriniano, e per intendere, a distanza di oltre mezzo secolo dalla prima edizione, i drammi e le speranze del nostro presente.

Edgar Morin (Parigi 8 luglio 1921) sociologo e filosofo francese, ha dedicato gran parte delle sue opere alla  riforma dell’educazione, incentivando il sistema sociale a considerare la cultura come un  unico amalgama, “un pensiero della complessità” e aborrendo la separazione del sapere, tipico dei nostri tempi, in sterili compartimenti stagno. Fortemente critico nei confronti della divisione dell’erudizione in due blocchi separati, umanistico e scientifico, effetto collaterale causato dalla civiltà occidentale ormai globalizzata, egli è adorato alla stregua di un maestro spirituale in Messico e in America del Sud. In patria gode  di seguito solo tra il grande pubblico, infatti l’ambiente accademico gli è ostile. La sua produzione letteraria è immensa, in quanto lo studioso  ha esaminato i temi più disparati, dall’industria culturale, all’unità complessa dei saperi, e così via. Classificare Morin come un filosofo oppure un sociologo, è quindi, errato, lo si potrebbe definire un acuto  osservatore dello Spirito del tempo (dal libro omonimo edito nel 1960,  scritto dopo aver viaggiato per l’America Latina).

L’Uomo e la Morte parte da un assunto molto semplice: la paura dell’umanità verso la fine della propria esistenza biologica. Tale angoscia è l’esperienza “originaria” che accomuna il sentire di ciascun individuo, fin da bambino. In tal senso Morin cita alcuni studi pedagogici, asserendo che dai sette anni si percepisce la morte come un evento universale, mentre dai dieci se ne comprende l’ineluttabilità e l’irreversibilità a essa  congenita. Il bambino fin da piccolo, anche se non ha ancora sviluppato l’idea di morte ne avverte l’inquietudine. Perché siamo spaventati da un evento naturale? D’altronde come dichiara lo stesso autore : “L’uomo ancora innocente, non è riuscito a capire che questa morte a cui ha indirizzato tante grida e tante preghiere non era altro che la sua stessa immagine, il suo stesso mito, e che credendo di guardarla fissava se stesso”.

Il terrore ha avuto origine e si è amplificato, dal momento in cui l’uomo/animale si è trasformato in uomo/ individuo. La creazione dell’uno e  del solo, ha cagionato il rifiuto e l’orrore verso la morte.

Secondo il celeberrimo pensatore, l’uomo è l’essere despecializzato per eccellenza ed “è capace di tutto e di niente, partecipa a tutte le forze dell’universo, è un microcosmo dotato di tutte le possibilità, di tutte le plasticità”. Tale tasso di generalità quasi simile a quello dell’ameba dei primi esseri viventi indifferenziati, è  stato rafforzato e sviluppato grazie  alle  potenzialità straordinarie insite nella mano e nel cervello. Questa è la chiave di volta individuata da Morin: la prodigiosa dialettica  mano-cervello-parola, ha fatto si che l’uomo esplicasse le sue determinazioni sul mondo esterno, plasmando l’ambiente per impossessarsene. Il genere umano è permeato dalla propria soggettività. Tale modo di essere è talmente urgente e stentoreo che fin dall’inizio dei tempi l’individuo ha sentito il bisogno di rimarcarlo. Come? Attraverso l’omicidio, che secondo Freud testimonia l’atto di origine dell’umanità, ovvero il desiderio di affermare il proprio io attraverso la distruzione di altre individualità. Appare evidente che un evento come la morte che porta all’annientamento della persona, sia percepita come annichilente.

Per superare questa afflizione sussistono diversi metodi: la negazione, “non si può guardare in faccia né il sole né la morte”, si può tentare cioè di metterla tra parentesi, di dimenticarsene, ma quando si è costretti ad affrontarla, si possono creare gli alibi più confortevoli, come la religione o la credenza nell’immortalità, ovvero l’eidolon, il doppio. E non è proprio l’ombra la prima acquisizione di se stessi? L’ombra è il doppio, un essere che si dissocia dall’uomo mentre quest’ultimo dorme, e continua e vegliare sui suoi  sogni. L’ombra altro non è che l’individualità che trionfa sulla vita e sulla morte.

Se ci si avvicina a questo saggio per ottenere delle risposte, si commette un errore grossolano. Sostanzialmente L’Uomo e la Morte è un attento studio clinico sulla sintomatologia della razza umana, innanzi alle proprie paure ed aporie.

 

Lévi-Strauss e l’antropologia strutturale

Claude Lévi-Strauss (Bruxelles 1908 – Parigi 2009) è stato un antropologo, psicologo e filosofo francese. Studia legge e filosofia alla Sorbona di Parigi ma nel 1931 si laurea in Filosofia. Le sue posizioni filosofiche si dimostrano da subito estremamente critiche nei confronti delle tendenze idealiste e spiritualistiche della filosofia francese di quel periodo; egli riconosce in se stesso un’esigenza di concretezza che lo porta verso direzioni completamente nuove. Ben presto infatti scopre presto nelle scienze umane, in particolare nella sociologia e nell’etnologia, la possibilità di costruire un discorso innovatore sull’uomo. Decisivo è  l’incontro con Paul Rivet e con Marcel Mauss del quale è allievo.

La fascinazione per i riti e i miti primitivi comincia proprio dall’insegnamento di Mauss. Lévi-Strauss è professore all’università di San Paolo in Brasile dal 1935 al 1938, poi alla New school for social research di New York (1942-45), all’ École pratique des hautes études di Parigi (dal 1950), infine al Collège de France dove (dal 1959 al 1982) insegna antropologia sociale. Dal 1973 è accademico di Francia. Durante la seconda guerra mondiale soggiorna negli U.S.A. dove entra in contatto con la tradizione etnografica di F. Boas e con le più generali prospettive teoriche dell’antropologia culturale. Di estrema importanza in questo periodo è l’incontro con la linguistica strutturale, e in particolare con R. Jakobson. Primi segni della fecondità dell’incontro si ritrovano in alcuni saggi nei quali si applicano i metodi dell’analisi strutturale in linguistica allo studio di fenomeni, come la parentela o il mito. La prima grande opera di L.-S. è Les structures élémentaires de la parenté. In questo studio L.-S. elabora una nuova teoria della parentela: partendo dall’analisi di aspetti fino ad allora poco comprensibili delle relazioni di parentela (il matrimonio preferenziale tra cugini incrociati – figli di germani di sesso differente; l’esclusione del matrimonio tra cugini paralleli – figli di germani dello stesso sesso; le organizzazioni dualiste), riesce a mostrare come tutti questi comportamenti siano espressione di un unico modello strutturale elaborato a partire da alcuni principi elementari.

L’elemento centrale nella costituzione dell’unità e dei gruppi di parentela è l’unione matrimoniale. Tutte le società umane a partire da questo si danno regole per definire un’area, più o meno ampia, di evitazione dell’unione matrimoniale. Il divieto dell’incesto rappresenta il principio che consente ai gruppi umani di passare da una condizione puramente naturale, pre-sociale, a una condizione culturale, di uscire dalla natura per collocarsi nella cultura. L’incesto è dunque un’ invarianza transculturale, funzionale e necessaria allo scambio e alla comunicazione tra gruppi umani secondo le modalità della reciprocità; tutte le culture pongono un divieto al desiderio incestuoso e pertanto il tabù dell’incesto si configura come una legge universale. Il tabù dell’incesto consente alla famiglia di stabilire relazioni esterne che rafforzano la solidarietà sociale. La proibizione dell’incesto è la costante universale che segna il passaggio dal puro stato di natura a una società umana seppure minimamente organizzata. In talune società antiche l’incesto era comunque spesso consuetudine nelle famiglie che detenevano il potere, con l’evidente finalità dell’autoconservazione dello stesso.

Il problema del rapporto tra natura e cultura e quello del rapporto tra aspetti strutturali, universali del funzionamento della mente umana e della società e aspetti storici, torna in alcuni scritti degli anni Cinquanta e Sessanta in testi quali Race et histoire del 1952 e Tristes tropiques del 1955. Di particolare importanza è la critica alla visione evoluzionistica delle società umane che per L.-S. sono connotate invece da una ritmicità storica peculiare. Alla contrapposizione etnocentrica e ottocentesca di “primitivo” e “civilizzato”oppone infatti la famosa dicotomia tra “società calde” e “società fredde”, ovvero tra società caratterizzate da un elevato grado di accettazione della dinamicità, dell’evento, del mutamento, e società tese invece a congelare il fluire degli eventi, della storia. Alcune rivoluzioni tecnologiche e culturali insieme a particolari condizioni sociali hanno rappresentato gli eventi che hanno favorito la creazione di aree storiche particolarmente “calde”. Nel vasto corpus di miti amerindiani, lo studioso ha individuato il luogo potente di una logica che informa il complesso sistema di relazioni tra individuo, struttura sociale ed ecosistema, affrontando tale studio in due lavori dedicati alle forme di pensiero che più sembrano caratterizzare le società non occidentali: Le totémisme aujourd’hui e La pensée sauvage, entrambi del 1962.

L.-S. elabora una prospettiva che, rispettando e meglio comprendendo le forme di vita non occidentali, le connette profondamente a quelle che ci sono più familiari. Il “pensiero selvaggio” è una modalità del pensare umano che, comune agli uomini di tutte le culture, caratterizza alcuni settori della nostra società e, soprattutto, le culture non occidentali. Si tratta di una forma logica di pensiero che non agisce per astrazione, per classificazione e sublimazione di qualità, o per gerarchizzazione logica, ma opera partendo da una particolare attenzione alle qualità sensibili del reale considerate nella loro capacità di fungere da segni, per produrre una continua rete di simboli e di significati. In questa ottica i fenomeni di identificazione tra animali o altri esseri e fenomeni naturali e individui e o gruppi, il totemismo, divengono particolari espressioni di questa esigenza concreta e classificatoria, logica e simbolica, del “pensiero selvaggio”.

Per Lévi-Strauss quindi i cosiddetti selvaggi sono più vicini a noi di quanto si possa pensare. Nel segno del distacco dall’etnologia tradizionale, le ricerche  dell’antropologo scelgono come tema un attributo universale dello spirito umano: il pensiero allo stato selvaggio presente in tutti gli uomini, antichi e contemporanei. Il pensiero selvaggio ha esercitato un’influenza decisiva sulle discipline che formano il campo delle scienze sociali ed è oggi considerato un classico dell’etnologia.

La logica del “pensiero selvaggio” è colta nel mito, fenomeno a Lévi-Strauss dedica il suo studio tra il 1960 e il 1970 con quattro volumi Mythologiques: Le cru et le cuit del 1964, Du miel aux cendres del 1966, L’origine des manières de table del 1968 e L’homme nu del 1971. Analizzato da una prospettiva strutturale, il corpus dei miti indigeni amerindiani si rivela organizzato da una logica coerente, pienamente comprensibile quando si assumono le procedure cognitive del “pensiero selvaggio”. Logica che tra l’altro rende comprensibili le trasformazioni cui i miti sono sottoposti nel loro propagarsi da società a società. Terminata l’impresa delle Mythologiques, Lévi-Strauss affrontata problemi di natura estetica già analizzati negli anni Cinquanta con il volume La voie des pasque uscito nel 1975; torna poi sulla parentela con Le regard éloigné e con Histoire et etnologie del 1983 e sul mito con La potière jalouse del 1985 e con Histoire de Lynx del 1991.

In Antropologia strutturale, il più importante testo dell’etnologia moderna, Lévi-Strauss. parte dalla teoria del linguista Jakobson e ne formula una possibile applicazione alle culture: anche tra gli uomini esistono costanti universali, individuabili nel carattere sistematico delle differenze tra i singoli. L’antropologo  quindi è colui che ricerca la struttura, il sistema di regole inconsce che condizionano il comportamento umano. A partire da questa teoria, ogni società viene considerata come insieme di persone che comunicano mediante linguaggi verbali e non verbali e che vive nella storia, cambiando. L’antropologia strutturale si propone come ricerca rigorosa del senso degli insiemi. Ma storia è  davvero solo una delle scelte possibili che gli uomini possono compiere?

Lévi-Strauss riprende l’idea della natura psichica dei fatti sociali: questi sono sistemi di idee oggettive, ma questi sistemi non sono elaborazioni consce, bensì inconsce. Il fondamento ultimo è dato dallo spirito umano inconscio, che si rivela attraverso i modelli strutturali della realtà.

Nel 1973 Lévi-Strauss riceve l’Erasmus Prize e nel 2003 il Meister Eckhart Prize per la Filosofia. Dalle Università di Oxford, Harvard e dalla Columbia University riceve la laurea ad honorem. È stato onorato anche della Grand-croix de la Légion d’honneur e gli è stato attribuito il merito di “Commandeur de l’ordre national du Mérite” e di “Commandeur des Arts et des Lettres”.

 

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