‘Romanzo criminale’, di Giancarlo De Cataldo

<<Il potere non sazia, anzi è come una droga e richiede sempre dosi maggiori>>. Luciano De Crescenzo, Così parlò Bellavista, 1977

Luciano De Crescenzo: poche parole e un legame forse un po’ troppo poetico con un romanzo che porta alla luce una delle bande più spietate e intelligenti che comandarono Roma e su Roma, tra la fine degli anni settanta e gli anni ottanta. Il Libanese, il Freddo, il Dandi, il Secco. Uomini che non vogliono essere comandati, uomini che vogliono tutto e lo vogliono subito.

A scrivere è il giudice Giancarlo De Cataldo, magistrato, giornalista e scrittore italiano che, all’interno dell’omonimo film diretto da Michele Placido, interpreta il giudice che leggerà la sentenza che condanna i membri della banda. Il giudice De Cataldo nasce a Taranto, pubblica vari libri nel corso degli anni per poi raggiungere la notorietà con quest’opera che mostra un passato fatto di accordi tra criminalità organizzata e Stato. Quello che dovrebbe proteggerci, quello che avrebbe dovuto salvarci, quello che ancora oggi, spesso, ci lascia a noi stessi.

Siamo a Roma, inizi degli anni ’70. Il Libanese e il Dandi si conoscono si dall’infanzia. Hanno messo su una piccola banda che si occupa soprattutto di furti. Il Libanese, dopo l’ennesimo furto incontra il Freddo dopo che la sua auto è stata rubata da un drogato, il Sorcio, che decide di venderla al Freddo, appunto. Ed eccoli lì. Due uomini che dalla vita non hanno avuto nulla, due uomini pronti a “prenderse’ Roma.” Due uomini che non sono pronti a timbrare il cartellino tutta la vita, non lo saranno mai. E allora nasce quella prima piccola domanda. E noi? Noi che quel maledetto cartellino lo timbriamo tutti i giorni, ogni mattina e ogni istante della giornata, cosa siamo? Non abbiamo impugnato una pistola, non abbiamo ucciso, rapito, rapinato, non ci siamo venduti ad un soldo facile. Forse siamo stupidi perchè crediamo ancora in un mondo migliore. Forse vogliamo ancora credere che qualcosa di giusto esiste ancora.

Ma De Cataldo ce lo racconta. Quel che c’era di buono, se mai c’è stato, qui non esiste. Il progetto del Libanese e del Freddo prende corpo. Vogliono il potere, i soldi, il controllo di tutti i traffici esistenti a Roma. Dalla droga alla prostituzione creando un’associazione simile alla mafia siciliana.

Il primo colpo è il rapimento del barone Rossellini. Vi è una piccola particolarità su questo sequestro. All’interno della pellicola cinematografica, il cadavere del barone verrà ritrovato privo di vita. Nella vita reale, quel corpo, non vedrà mai più la luce del giorno.

Il barone, ancora in vita, viene affidato ad un’altra banda. Uno dei sequestratori mostrerà il proprio volto al barone. La scelta una. No, non c’è una scelta. Il barone dovrà morire. Ma il riscatto verrà ugualmente pagato. Così tutto ha inizio. Il Libanese e il Freddo sono pronti. Quel denaro servirà per una progetto più grande, per quel progetto che vedrà Roma in ginocchio con uno Stato pronto ad appoggiare quei criminali per mantenere vivi i propri interessi, il proprio potere.

Eccoli. La banda della Magliana. Stringeranno rapporti con la camorra di Raffaele Cutolo, fondatore della Nuova Camorra Organizzata, per il traffico della droga. Saranno interpellati per il rapimento dell’onorevole Aldo Moro. In un primo momento sarà chiesto loro  un aiuto per riuscire a ritrovare l’onorevole ancora vivo. Ben presto sarà chiaro alla banda che a nessuno interessa ritrovare il politico democristiano. Aldo Moro sarà giustiziato dai brigatisti un mese e mezzo dopo il rapimento.

Il romanzo prosegue. Droga, alcool, morti ammazzati che sono parte di quel mondo. Il potere, il controllo su Roma, il controllo sul mondo. Un mondo che sembra non volere padroni. Un mondo che sembra non accettare ordini. Ma un padrone c’è. In quegli anni un padrone esiste ed è lì, più chiaro e vivo che mai. La banda della Magliana.

Grazie anche alla gestione di Night Club e di un giro di prostituzione gestito da Patrizia, ex prostituta di cui si innamora il Dandi che la mette a capo di un bordello di alto borgo gestito anche per ricattare personaggi illustri che lo frequentano, la banda diventa padrona di Roma.

E ancora altri accordi. Quelli stretti con la chiesa. Tant’è che il Dandi deciderà di farsi seppellire nella Basilica di Sant’ Apollinare, dopo aver contribuito al suo restauro. Ancora una machia, ingente, forte, in ciò che dovrebbe essere onesto, puro.

 Ma i rapporti ben presto si guastano tra il Freddo e il Libanese. Accordi con i servizi segreti stretti da Libano e che non sono approvati dal Freddo. Quella banda era nata per non avere padroni, quella banda era nata per essere padrone di stessa, del resto del mondo. E ora? Ora vedeva le sue forze sgretolarsi per obbedire alla giustiziaUna giustizia propria, corrotta, malata. Una giustizia che di onesto e saldo non ha più nulla. Forse, non l’ha mai avuto.

Il romanzo ripercorre così la storia della banda della Magliana. Dei suoi due decenni di controllo, comando, potere sulla città eterna. E ancora oggi questi criminali fanno parlare di se. La scomparsa di Emanuela Orlandi lascia ancora molti dubbi sul ruolo che avrebbe potuto avere la banda e sui suoi rapporti con il Vaticano in quel periodo.

Attraverso l’uso di un linguaggio forte ma discorsivo, De Cataldo ci porta nel mondo della banda che, come già detto, si fonda sulle orme della mafia siciliana, senza però copiarla. In un periodo in cui la mafia, le organizzazioni criminali venivano ritenute un problema di cui solo la Sicilia o Napoli, con la Nuova Camorra Organizzata, doveva preoccuparsi. La banda cresce grazie anche al periodo storico-politico in cui nasce. Un periodo in cui le forze dell’ordine, il così detto Stato, sembrava essere troppo impegnato ad occuparsi del terrorismo nero o rosso, per rendersi conto di ciò che accadeva al di fuori di esso. Una consapevolezza che giungerà troppo tardi. Una consapevolezza che sarà usata per i proprio fini. Una consapevolezza che sporcherà ancora una volta quel qualcosa di giusto che sembra aver cessato di esistere.

Ma un antagonista c’è. Ancora un uomo, il commissario Nicola Scialoja affiancato dal sostituto procuratore Fernando Borgia, che dopo il rapimento del barone Rossellini, attraverso alcune banconote segnate riesce a risalire alla banda, ma senza mai avere prove concrete.

Il romanzo mostra e descrive un parte importante della nostra storia. Momenti che restano nella memoria come la strage di Bologna, compiuta la mattina di sabato 2 agosto alla stazione ferroviaria di Bologna.

Dal libro è nato, oltre all’omonimo film, anche una  delle migliori serie televisive mai dirette e girate, a cura di Stefano Sollima. Varie saranno le differenze inserite nella visione cinematografica rispetto a ciò che De Cataldo descrive nel proprio romanzo. Un romanzo a cui la serie televisiva si accosterà molto. Immagini forti, reali, immagini indimenticabili per la loro brutalità. Per la descrizione di quella realtà che ancora ci appartiene. Ancora oggi. Ci apparterrà per sempre.

Romanzo criminale è un libro storico crudo, diretto, cinico, asciutto che va letto, una storia che non va dimenticata. Una storia che, ancora oggi, ad anni di distanza, non può essere cancellata, con la sua forza, la sua crudeltà, la sua realtà.La storia di una banda criminale che credeva di conquistare l’Italia intera e che invece è diventata, inconsapevolmente uno strumento del potere.

Impossibile non trovare un punto d’incontro, un legame, una certa empatia con gli uomini che hanno governato Roma in quegli anni. Forse la  rabbia comune è rivolta maggiormente allo stato, a chi avrebbe dovuto difenderci e non l’ha fatto. il Freddo stesso nelle seguenti e ultime parole, esprime ciò che quella banda voleva rappresentare. Ancora una volta vince una piccola visione romantica. Nulla cancella però, la realtà dei fatti. Erano criminali, lo saranno sempre, è così che saranno ricordati, questo è  ciò che hanno scelto di essere, schiavi e vittime della loro smisurata ambizione e bramosia di soldi e di potere.

” …Chi lo sa, forse quella morte doveva esse ‘n segnale per farce capi’ che dovevamo sta’ boni, dovevamo sta’ al posto nostro pe’ non fa a stessa fine… E invece noi abbiamo pensato che era proprio mejo fa quella fine piuttosto che timbra’ un cartellino pe’ tutta a’ vita.” 

 

 

‘Il quaderno di Maya’, il dolore secondo Isabelle Allende

“C’è gente così, gente convinta che tutti i dolori si assomiglino e che esistano formule e intervalli di tempo per superarli. La filosofia stoica della mia Nini è più adeguata in questi casi: “La sofferenza ci chiama, stringiamo i denti”, diceva. Un dolore così, dolore dell’anima, non si elimina con medicine, terapie o vacanze; un dolore così lo si soffre, semplicemente, fino in fondo, senza attenuanti, come è giusto che sia”.

Isabelle Allende

Il dolore è forse una delle poche certezze che abbiamo nella vita. Arriva all’improvviso, ti travolge e, se non riesci a gestirlo, ti porta via con se. Ciò emerge da “Il quaderno di Maya” della scrittrice cilena Isabelle Allende.

Maya ha 19 anni, quel dolore l’ha travolta portandole via una delle persone più importanti della sua vita. Ed è così che smette di respirare, vivere, sognare, sperare in qualcosa per cui valga la pena continuare a vivere.  La morte del suo adorato nonno, Popo, la trascina, quasi senza lasciarle alcune scelta, in un abisso di dolore, paura, dipendenze. Alcool, droga… Qualsiasi cosa pur di smettere di sentire. Perché quando il dolore diventa troppo grande, quando non siamo in grado di gestirlo, tutto ciò che possiamo fare, tutto ciò che desideriamo fare è fermarlo, spegnerlo, quasi come fosse l’interruttore della luce.

Ed è questo quello che fa Maya. Sotto gli occhi increduli, addolorati, distrutti della sua dolce nonna, la Nini; sotto occhi che ormai non sono più in grado di versare lacrime, si getta in un mondo che sembra concederle quella tregua che il dolore non darà mai.  Qualcuno ha detto che il tempo cancella tutte le ferite. Credo che il tempo ci aiuti solo a far diventare quel dolore parte di noi. Non lo puoi cancellare, sotterrare, non puoi disfartene, è li, e puoi solo imparare a conviverci.

Maya commette un errore dopo l’altro, Maya non è più in grado di fermarsi. Il dolore, le dipendenze, sono un vortice che ti trascina con se. Si ha bisogno di una mano che, con forza, ci tiri su, ci riporti alla vita.

E così la Nini, una nonna forte e fragile, come le parole che arricchiscono questo splendido romanzo, è lì, pronta a salvare la sua piccolina, pronta a essere il capro espiatorio per un dolore di cui non ha colpa. Maya viene portata lontano. Contro la sua volontà, o quello che ne rimane, viene condotta nella piccola isola di Chiloè, sotto il controllo e le cure di un vecchio amico della nonna.

Pagine e pagine di racconti, ricordi, momenti che nessuno dovrebbe mai vivere, portano il lettore accanto alla nostra protagonista. Sembra quasi di essere li con lei, tra un goccio di vodka e l’altro, tra un respiro che manca e una lacrima che ormai fa fatica ad uscire. Forse, per ogni dolore, abbiamo solo un numero di lacrime da poter versare. Tutto il resto, è una maledetta consapevolezza. Perché lei lo sa. Sa del dolore, lo capisce, lo comprende. Il dolore a lei inflitto e quello che continua ad infliggere a chi la ama. Ma non può fermarsi. Quelle maledette sostanze sono, ormai, la sola ragione per cui apre gli occhi al mattino.

Un mondo diverso, lontano da quella realtà che fa troppo male per essere vissuta, Maya proverà a salvare se stessa. A ricominciare. Perché, la verità, è che se non siamo noi a decidere di cambiare, nessuno potrà mai salvarci. Non ci si può salvare da se stessi se non con le proprie forze. Ma prima bisogna toccare il fondo. E Maya toccherà quel fondo più di una volta e, grazie a quella che è una delle più grandi scrittrici del mondo contemporaneo, noi saremo con lei.

Isabelle Allende ci racconta così la storia di una piccola grande donna. Una donna in grado di prendere la propria vita nelle proprie mani e cambiare un destino forse già scritto, segnato, che ha una sola fine. La sua fine.

Ho dovuto leggere questo romanzo, le sue parole, quelle immagini che si costruivano nella mia mente, prendendo piccole pause. Ero li, con lei, con Maya. Ero nel suo dolore, ero nei suoi giorni, nelle sue paure, nella sua voglia di scappare, nel desiderio di tornare ad aggrapparsi ancora a quell’unica cosa che le permetteva di non sentire. Alcool, droga. Tutto pur di dimenticare.

E poi quella forza di cui neanche questa giovane donna era consapevole. Una forza che esce piano, lenta, che ti permette di ritrovarlo quello scopo, quel respiro. E allora ti ritrovi a sorridere con lei, in quella piccola isola, un mondo sconosciuto che resterà in te…per sempre.

“Sento la mancanza di un goccetto di vodka in onore dei tempi passati, che sono stati pessimi, ma certo un po’ più movimentati di questi. Ma è solo un capriccio momentaneo, non il panico da astinenza che ho già sperimentato. Sono decisa a mantenere la mia promessa, niente alcol, niente droga né telefono né posta elettronica e la verità è che sto facendo meno fatica di quanto mi aspettassi.

 

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