Pensieri sparsi su Borges, di Davide Morelli

Borges è stato senza dubbio uno dei più grandi scrittori del Novecento. La sua cultura è stata enciclopedica. La sua memoria è stata prodigiosa. Forse talvolta Borges ha avuto paura di essere come il suo Funes. Ricordo che per il Funes la memoria sprovvista di filtro ed incapace di oblio era diventata “un deposito di rifiuti” e aveva reso il personaggio sovraccarico di letture e di sensazioni al punto da non riuscire più a pensare. Forse questa era una sua ossessione.

Di sicuro sappiamo di altre sue ossessioni. Ad esempio odiava il calcio perché aveva paura delle folle. Aveva l’ossessione degli specchi perché moltiplicavano l’uomo e la copula. A qualcuno talvolta Borges potrebbe apparire come un reazionario. Ma se è vero che non si impegnò mai in politica, è altrettanto vero che fu cieco per buona parte della sua vita. Infatti perse la vista sia perché affetto da una grave forma di miopia, sia perché leggeva forsennatamente. Va ricordato anche che per Borges il miglior assetto politico e sociale era quello che conciliava il massimo della libertà individuale con un minimo di governo. Non un reazionario quindi, ma un intellettuale disincantato.

I suoi scritti sono colmi di miti, metafore, paradossi. La sua è una letteratura fantastica. D’altronde la letteratura nell’antichità era sempre fantastica: era innanzitutto cosmogonia e mitologia. I maestri di Borges sono stati Dante, Kafka, Pascal, Whitman, Cervantes, Keats, Valery.

Borges è stato anche un profondo conoscitore della letteratura orientale, tanto è vero che nei suoi saggi fa più volte riferimento alle “Mille e una notte”. È grazie alla vastità delle sue letture che creerà il racconto “La ricerca di Averroè”, in cui narra di questo medico arabo che chiuso nell’ambito dell’Islam cerca di tradurre le parole “commedia” e “tragedia” da uno scritto di Aristotele.

Lo scrittore argentino in poche pagine mette in evidenza magistralmente i limiti gnoseologici della traduzione perché Averroè lavora vanamente e non conosce minimamente il contesto storico e culturale dell’antica Grecia. Lo scrittore sudamericano non disdegna neanche la filosofia. Infatti da Berkeley prenderà a prestito l’idea di un Dio che sogna il mondo, mentre da Platone riprenderà la concezione del tempo come “immagine mobile dell’eternità”.

Inoltre nella sua raccolta di saggi “Discussioni” illustrerà in modo illuminante uno dei cardini della filosofia di Nietzsche: l’eterno ritorno. Si veda a questo proposito il tempo circolare, secondo il quale l’universo sarebbe composto da quanti d’energia illimitati per la mente umana ma non infiniti. Una volta esauritesi tutte le combinazioni tra i quanti di energia si ripeterebbero gli eventi. Questa idea è alla base dell’arte combinatoria di Borges. Una delle sue tematiche di fondo infatti è che la casistica del mondo è vasta ma limitata. Ecco spiegato perché nei suoi racconti fantastici esistono personaggi che a distanza di secoli commettono le stesse azioni o creano le stesse opere. Da qui deriva la concezione borgesiana secondo cui “nessuno è qualcuno e ciascuno è tutti”, espressa nel suo racconto “L’immortale” nell’ “Aleph”. Partendo quindi dal presupposto che siamo sempre gli stessi e viviamo svariate vite possiamo essere in tempi diversi santi e assassini, scrittori e analfabeti, guerrieri o codardi. Perderemmo quindi la nostra individualità. Perderemmo i meriti e i demeriti della singola esistenza.

La biblioteca, la sfera e il labirinto sono i simboli più importanti dell’opera narrativa di Borges.

Per quanto riguarda la produzione poetica i simboli che spiccano sono la rosa e la tigre. In “Finzioni” la biblioteca di Babele è “una sfera il cui centro esatto è qualsiasi esagono e la cui circonferenza è inaccessibile”. I bibliotecari che vivono tutta la vita in un angolo della biblioteca sono alla perenne ricerca del “libro totale”, ovvero dell’opera che può racchiudere il significato ultimo. Borges ci dice che i bibliotecari alla fine si scoraggiano perché nessuno riesce a trovarlo.

Trovare quel libro significherebbe carpire il segreto dell’esistenza. Ma lo scrittore ci fa sapere che probabilmente la razza umana si estinguerà e la biblioteca sopravviverà ai suoi lettori. La biblioteca è quindi il simbolo della conoscenza universale. Veniamo invece alla sfera, ovvero all’Aleph. Questo ultimo è “il luogo dove si trovano, senza confondersi, tutti i luoghi della terra, visti da tutti gli angoli”. La sfera quindi è per Borges il luogo che permette all’uomo di travalicare gli angusti limiti della propria percezione visiva e della propria corporeità.

Se la biblioteca è simbolo della conoscenza, invece la sfera è simbolo dell’esperienza, a mio modesto avviso. Per Borges il libro è sempre stato un labirinto di simboli: un’opera aperta in cui il lettore può scegliere tra diverse alternative. Se il labirinto però sembra descrivere il groviglio inestricabile dell’esistenza umana dobbiamo riferire che è per Borges un simbolo di vita e non di morte. Infatti nell’ “Aleph”, più esattamente nel racconto “I due re e i due labirinti”, due sovrani si sfidano tra loro.

Il primo rinchiude il secondo nel labirinto, ma questo ultimo riesce a uscirvi. Il re fuggito dal labirinto invece fa prigioniero l’altro e lo mette nel deserto in cui morirà di fame. Borges in definitiva ci insegna che l’uomo senza l’attività simbolica sarebbe niente. In fondo per gli antropologi l’uomo è giunto alla civiltà quando è iniziato il culto dei morti: riti e pratiche che senza capacità simboliche non sarebbero esistite. Borges ci ricorda anche che la vita umana è una vita in profondità.

 

Di Davide Morelli

‘L’uomo che uccise Don Chisciotte’, di Terry Gilliam: l’atteso film in uscita il 27 settembre

L’uomo che uccise Don Chisciotte è uno dei film più attesi dell’anno. Il film, diretto da Terry Gilliam, è una storia di fantasia e avventura, ispirata al leggendario protagonista di un classico della letteratura mondiale: il Don Chisciotte di Miguel de Cervantes, pubblicato in due volumi nel 1605 e nel 1615. Terry Gilliam, ex Monty Python e celebre regista di La leggenda del re pescatore, L’esercito delle 12 scimmie, Brazil, Parnassus L’uomo che voleva ingannare il diavolo e Paura e delirio a Las Vegas, ha lavorato al progetto per quasi 25 anni dopo che vari tentativi di realizzarlo sono stati funestati e interrotti da ogni possibile disavventura produttiva, facendogli guadagnare la fama di film maledetto.

Nel cast figurano Adam Driver (Star Wars: Il risveglio della Forza, Paterson, Silence), Jonathan Pryce, che aveva già lavorato con Gilliam (la saga di Pirati dei Caraibi, I fratelli Grimm e l’incantevole strega, Brazil, Il domani non muore mai) nel ruolo di Don Chisciotte, Stellan Skarsgård (Le onde del destino, Mamma Mia!, Will Hunting – Genio ribelle), Olga Kurylenko (Quantum of Solace, Oblivion, To the Wonder), Joana Ribeiro (Portugal Não Está à Venda, A Uma Hora Incerta), Óscar Jaenada (Pirati dei Caraibi – Oltre i confini del mare, Cantinflas), Jason Watkins (premio BAFTA per The Lost Honour of Christopher Jefferies, Trollied, W1A), Sergi López (Il labirinto del fauno, Piccoli affari sporchi, With a Friend Like Harry), Rossy de Palma (Julieta, Donne sull’orlo di una crisi di nervi, Three Many Weddings), Hovik Keuchkerian (Assassin’s Creed, The Night Manager) e Jordi Mollá (Criminal, Heart of the Sea – Le origini di Moby Dick, Blow).

L’anteprima per i giornalisti è prevista a Roma, mentre per gli spettatori il film uscirà il 27 settembrem e i fans di Gilliam sono curiosi nel vedere se il regista è stato abile nel trasferire sul grande schermo il genio di Cervantes, il suo sarcasmo, il suo acume, unendo dramma e tragedia, riflettendo sull’universo cavalleresco medievale e i suoi rituali.

‘L’uomo che uccise Don Chisciotte’ di Terry Gilliam, in uscita nel 2017

Cosa potrebbe succedere quando il più visionario dei registi incontra la nobile follia di un capolavoro letterario quale il Don Chisciotte? Lo sapremo nel 2017 quando finalmente uscirà nelle sale di tutto il mondo, l’ultima fatica, dopo The zero theorem del 2013, dello psichedelico Terry Gilliam (Monty Python, I banditi del tempo, Brazil, Le avventure del Barone di Münchausen, La leggenda del re pescatore, Paura e delirio a Las Vegas) che da più di vent’anni ha in testa questo ambizioso progetto cinematografico che conterà su un cast internazionale: L’uomo che uccise Don Chisciotte.

Le riprese inizieranno nel prossimo ottobre e precisamene il giorno 3 scatterà il primo ciak in terra di Spagna; ciak che, come ha accennato lo stesso cineasta durante un’intervista, riguarderà una scena che riprende le cascate, l’acqua che scorre, un uomo che cade. Un’immagine bizzarra; per proseguire con scene di massa, con molti cavalli. La sinossi ufficiale ci consegna un Don Chisciotte dei giorni nostri, interpretato dal Monty Python Michael Palin, mentre ad Adam Driver spetta il ruolo che nel romanzo è quello del fedele scudiero del protagonista, Sancho Panza, un pubblicitario travolto dal suo capo, la cui moglie ha il bellissimo volto della modella e attrice Olga Kurylenko, una moderna Dulcinea, l’amata immaginaria di Don Chisciotte.

Il Don Chisciotte di Gilliam: trama e tematiche

Protagonista della pellicola di Gilliam è Toby, un regista di spot che sta attraversando la Spagna per delle riprese. Durante il viaggio s’imbatte in uno studente che gli consegna una copia del primo film che Toby realizzò quando era ancora uno studente: una versione della storia di Don Chisciotte ambientata in un antico e caratteristico villaggio spagnolo. Emozionato, Toby parte per un bizzarro viaggio alla ricerca del piccolo villaggio dove aveva girato il film; ma si troverà coinvolto in una serie di vicissitudini.

Come si sa, il Don Chisciotte è un’ ironica e divertente opera sugli usi della cavalleria medievale e senza dubbio nel cinema italiano lo spirito donchisciottesco è presente nell’esilarante L’Armata Brancaleone di Mario Monicelli che però non prende in considerazione dell’unione fondante, tra dramma e commedia, del capolavoro di Cervantes. C’è molta curiosità e aspettative intorno al film di Gilliam e ci si chiede se sarà capace di rendere al meglio e attualizzare, sul piano della narrazione, la metafora della lotta contro i mulini a vento, lo smarrimento dell’uomo nella pazzia, il vedere ciò che non esiste, il primato della fantasia sulla realtà. Don Chisciotte è un uomo che non accetta di avere limiti, un sognatore, un Ulisse in perenne viaggio, proprio come Terry Gilliam che grazie a questo immortale capolavoro, vorrà sottoporci l’interrogativo: “la realtà esiste solo in quanto connotazione della mente e dell’anima umana?”. Ed in effetti Don Chisciotte non è altro che un iconoclasta rispetto all’evidenza tanto vantata e caduca del mondo.

‘Finzioni’, l’opera capitale e ricca di simbolismo di Borges

Stimato come uno dei classici più interessanti  del novecento, Finzioni è l’opera capitale di Jorge Luis Borges. Tale raccolta di racconti è divisa in due parti: Il giardino dei sentieri che si biforcano (1941) ed Artifici (1944). L’opera annovera al suo interno racconti che sono diventati capisaldi essenziali per l’analisi del pensiero borgesiano. Sono infatti inclusi nella raccolta racconti quali: la Biblioteca di Babele, Tlon, Uqbar e Orbis Tertius, Il giardino dei sentieri che si biforcano.

Attraverso un uso spropositato di un simbolismo accattivante e a volte ferocemente distante, l’autore argentino ci guida nel viaggio personale attraverso un’interpretazione critica e molto spesso anche intuitiva  della realtà circostante. Borges crea un linguaggio universale, capace di parlare al di là delle parole e dei simboli, di arrivare al lettore e di riuscire ad instaurare con lui un dialogo, e tutto ciò nonostante esso risenta di uno smodato enciclopedismo. L’opera, attraverso la mano sapiente dell’autore, mostra un modo di percepire la vita totalmente innovativo e sicuramente interessante, invitandoci a riflettere sulla reale entità delle cose.

Finzioni, al contrario di quanto dice il titolo, diventa una straordinaria, simbolica e labirintica ricerca della verità. Borges affida al termine finzioni quelle realtà materiali che risultano espressioni congetturali di un senso comune troppo legato al materialismo esistenziale e vi contrappone una visione dellea realtà che va ad abbracciare punti di vista fantastici e metafisici, diversi tra loro.

Lo scrittore ci fa scoprire una realtà nascosta dentro la realtà stessa, una realtà che è celata dal tempo, dagli uomini e dal mondo. La stessa realtà che Funes abbraccia con la sua mente e che non lascia mai, la stessa che Pierre Menard cerca di riprodurre e contemplare nel suo plagio idealistico. Nell’universo di Finzioni, la realtà è mutevole ed osservata dai suoi differenti punti di vista non è mai componibile e pensabile come un unica realtà oggettiva, bensì essa è rappresentata come una realtà che si ramifica in più realtà, soggette alle arbitrarie interpretazioni dell’uomo.
Queste realtà vanno a comporre quel dedalo inestricabile di incomprensioni e rivalutazioni degli eventi che matura in una visione innovativa e soggettiva delle cose, una visione per cui una riproduzione perfetta e simmetrica del don Chisciotte, redatta agli inizi del XX secolo dalle mani di Pierre Menard, diviene un opera completamente diversa da quella originale del XVII secolo di Cervantes, una visione per cui la parola cane, che identifica un cane alle tre e un quarto visto di fronte, non identifica un cane alle tre e un quarto visto di profilo (esempi tratti dall’opera).
Questo tipo di realtà è appunto soggetta a parametri esterni di valutazione quali il progresso o il regresso della memoria e della storia, ovvero della realtà sensibile e percepibile.

Al di là della matrice materiale del mondo, Borges identifica una matrice iper-materiale,che è quella delle idee (tale concezione è presente nei racconti Tlon, Uqbar e Orbis Tertius, Le rovine circolari, Il giardino dei sentieri che si biforcano, La lotteria a Babilonia). Le idee infatti possono toccare la realtà e renderla effettiva. Non è dunque solo la realtà materiale ad influenzare le componenti più “astratte”dell’esistenza, bensì è vero anche il contrario: le idee creano la realtà, o meglio le realtà. Infatti di pari passo allo sviluppo dell’idea dell’origine metafisica della realtà vi è lo sviluppo dell’idea di infinità molteplicità della realtà stessa. La realtà caratterizzata come “nostra” è solo una delle infinite possibilità che aleggiano nell’esistenza. Vengono perciò a crearsi infinite realtà che si muovono parallelamente l’una all’altra. Queste realtà molteplici ed infinitamente diverse vengono a distinguersi a partire dagli eventi,che possono risolversi in esiti diversi,ma addirittura possono ripetersi, come ci ricordano Il giardino dei sentieri che si biforcano, La Biblioteca di Babele e La lotteria a Babilonia. 

Determinante a questo punto diviene un altro filone che si viene a creare nell’opera: il filone della verità. Tale filone interessa quasi tutti i racconti; in ognuno di essi c’è una rivelazione, un paradigma prima sconosciuto che ora diviene la componente più veritiera e importante della realtà. Uno degli elementi più interessanti circa questo filone appare ne L’Accostamento ad Almotasim, dove la ricerca della verità viene condotta per canali molteplici e soggettivi, infatti ogni cercatore di Almotasim lo immagina e conosce in maniera differente.
La ricerca della verità diventa unico significato da ricercare nella realtà, così per alcuni dei personaggi dei racconti, come gli uomini nel racconto La Biblioteca di Babele, o per Le rovine circolari. La verità celata ne La Biblioteca di Babele, quella che tutti gli uomini cercano in un mondo in cui la realtà è composta da realtà eternamente infinite, mutuando elementi dalla teoria dell’eterno ritorno di Nietzsche, diventa a sua volta una finzione e per questo non costituisce la vera chiave per definire la realtà, bensì un altra interpretazione arbitraria di quest’ultima e un incompleta visione delle cose.

In questo labirinto di realtà arbitrarie, misteriose,indefinite, nascoste, impercepibili e sfuggenti, in maniera indiretta viene a delinearsi un filo conduttore a cui aggrapparsi. L’opera apparentemente sembra una critica che non si accontenta di esserlo. L’opera di Borges infatti riesce ad evitare uno dei maggiori rischi di un opera critica, quella di restare fine a se stessa nel ruolo di critica sterile, ovvero di evidenziare i problemi e non offrire soluzioni. Anche se Borges sembra muoversi in questo senso, infatti il più delle volte non fornisce un modo giusto di interpretare l’esistenza, ma preferisce una pacifica e tranquilla presa di posizione indipendente e personale, come nel caso del finale di Tlon, Uqbar e Orbis Tertius o ancora in Le tre versioni di Giuda, ma indirettamente sembra gridare ed auspicare una presa di coscienza della realtà.

Le finzioni di cui Borges ci parla in tutta l’opera appaiono come comuni e universali, vicine alla quotidianità umana e si delineano come quelle interpretazioni approssimate e fittizie della realtà da parte dell’uomo. L’invito indiretto fatto dall’autore sta nel non considerare tutto come stabilito e definito, ma nell’appropriarsi della materia di cui sono fatte le stesse finzioni, ovvero nella capacità critica e interpretativa dell’uomo. Borges sembra inserire il messaggio più importante della sua vita, un messaggio che diviene automaticamente il retaggio e l’eredità lasciata ad ogni fiero lettore dell’autore e dell’opera, l’autore argentino sembra pronunciare in quest’opera un’esortazione, che diventa un imperativo per raggiungere la verità indefinita dell’esistenza: siate critici e non credete alle finzioni.

 

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