“All Things Must Pass”: Il volo di G. Harrison

Non deve essere stato facile essere un Beatle e soprattutto il “terzo” Beatle. Schiacciato dalle imponenti personalità dei colleghi John Lennon e Paul McCartney, George Harrison ha faticato non poco prima di trovare una propria dimensione artistica. Relegato per anni al semplice ruolo di chitarrista e costantemente sottovalutato dal punto di vista artistico, dal 1965 in poi, Harrison è stato protagonista di una crescita musicale continua che lo ha portato a diventare, forse, il miglior compositore dei Fab Four durante la loro tormentata fase finale. Il suo talento si manifesta in Revolver, in cui firma la caustica Taxman, matura in Sgt. Pepper, sua l’orientaleggiante Within You Without You, si rafforza nel White Album, cui fornisce le meravigliose While My Guitar Gently Weeps, Piggies, Long Long Long ed esplode in Abbey Road a cui regala i capolavori assoluti Something e  Here Comes The Sun. Una lenta maturazione, dunque, un cammino interiore che gli ha permesso di trovare uno stile ed una poetica, molto in linea col suo carattere meditabondo e misticheggiante. Ma di benzina nel serbatoio, Harrison ne aveva ancora parecchia nel 1970, senza contare le numerosissime canzoni scartate in fase di registrazione dagli ex compagni e quindi non incluse nel canone beatlesiano.

 «A volte era frustrante dover far passare milioni di “Maxwell’s Silver Hammer” prima di usarne una delle mie; a pensarci adesso, ce n’erano un paio, delle mie, che erano migliori di quelle che John e Paul scrivevano con la mano sinistra. Ma le cose andavano così, sapete, e non mi dispiace particolarmente: ho solo dovuto aspettare un po’» (George Harrison)

Una volta finita l’esperienza con i Beatles, George decide di rompere gli indugi e di pubblicare tutti quei brani che erano rimasti nell’ombra per tanto, troppo, tempo. Il risultato è un monumentale triplo album intitolato, guarda caso, All Things Must Pass, pieno di ispirazione, splendore e redenzione. Pubblicato nel novembre del 1970, quest’album, a differenza dei progetti solisti degli ex compagni, riscuote immediatamente un clamoroso successo sia di pubblico che di critica, rappresentando la definitiva affermazione dell’autore come musicista eccellente e compositore raffinato. Il materiale in esso contenuto è di altissima qualità. Si va da I’d Have You Anytime (scritta a quattro mani con Bob Dylan) a l’arcinota My Sweet Lord, dalla tiratissima Wha-Wha alla sognante Isn’t It A Pity, fino a What Is Life, It’s Not For You, Apple Scruffs, Beware Of Darkness, All Thing Must Pass, tutte tessere che vanno a comporre il caleidoscopico mosaico musicale del “chitarrista gentile”. Le liriche trasudano amore universale, suggestioni religiose e serenità interiore a differenza dei tormentati versi lennoniani o delle semplici rime di stampo mccartneyano.

 All things must pass è il disco del definitivo affrancamento di Harrison dall’ombra dei Beatles e del superamento del trauma dovuto alla tormentata separazione. Il tutto non senza polemiche, ovviamente. Nella copertina Goerge è seduto in un prato in mezzo a quattro nani da giardino. Le interpretazioni negli anni sono state molteplici, ma aldilà dei dibattiti dovuti ai presunti messaggi cifrati presenti nella cover (McCartney ha fatto la stessa cosa in Ram e Lennon in Imagine), l’opera in questione è di innegabile bellezza. La spiritualità tipica dell’autore si riflette in suoni pacati ed in cantato soffice e rilassante; c’è anche spazio per del rock sanguigno senza sconfinare mai nel rumore e nella rabbia. L’ispirazione è grande (anche se tende un po’ a scemare nella jam session che occupa tutto il terzo LP) anche nei brani risalenti al 1966 o al 1969, a riprova che Harrison era già un ottimo compositore ai tempi della beatlemania. Ma si sa, nessuno avrebbe mai osato mettere in discussione la diarchia più prolifica del rock in grado di zittire qualsiasi altra voce si avvicinasse nei paraggi. Il buon George ha dovuto fare tutto da solo armandosi di pazienza, tenacia e quintali di autostima fino a trovare la sua personale strada per l’Olimpo. Non deve essere stato ne semplice ne indolore ma alla fine il risultato ripaga in pieno la fatica fatta. Chissà quali altre meraviglie avrebbero fatto i Beatles con George Harrison a pieno regime!

“John Lennon/Plastic Ono Band”: L’Inferno di un Beatle

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John Lennon/Plastic Ono Band è un album scarno, spoglio, drammatico e profondamente intimista. Quando, l’11 dicembre del 1970, questo misterioso oggetto fa la sua comparsa nei negozi John Lennon ha un bel po’ di demoni da esorcizzare ed un bel po’ di rospi da sputare fuori. L’infanzia difficile, i genitori  inesistenti, il successo vorticoso, il divorzio da Cynthia, il distacco da Julian, l’eroina, Yoko Ono, il recentissimo e traumatico scioglimento dei Beatles: tutte tematiche profonde ed importanti che necessitavano obbligatoriamente di una valvola di sfogo.

John Lennon/Plastic Ono Band- Apple Records-1970

Dietro una cover assolutamente tranquilla e rasserenante, in cui si vede la coppia distesa all’ombra di un albero sullo sfondo di un pacifico pomeriggio autunnale, si nasconde uno dei dischi più scioccanti e controversi della storia del rock. Complici le sedute di psichiatria con Arthur Janov, il teorico del primal scream (l’urlo primario), Lennon riesce ad affrontare tutti i suoi traumi esistenziali ed a imprigionarli su nastro in una esperienza catartica e liberatoria.

Le canzoni di John uscivano dall’intimo della sua persona. Riguardavano ciò che imparavamo nella terapia primaria. Questo rinnovò la nostra vitalità: dopo John fu una persona diversa. Iniziò ad aprirsi” (Yoko Ono)

Una vera e propria terapia dunque. Ma anche una grandissima prova d’autore. Uno sfoggio di genialità senza precedenti. Solo uno come Lennon poteva trasformare temi così “pesanti” e complessi in tanto splendore musicale. Nel contempo quest’opera rappresenta anche un drastico rifiuto di tutto quello che c’era stato fino a qualche mese prima. Contrariamente allo sfarzo degli ultimi lavori beatlesiani (Sgt. Peppers, Magical Mistery Tour, The White Album, Abbey Road), Plastic Ono Band si presenta volutamente grezzo, deliberatamente semplice e privo di ogni ricercatezza musicale (più o meno la stessa cosa ha fatto Paul McCartney nel suo omonimo e coevo album solista). Inciso ad organico ridotto, “con un piccolo aiuto dei suoi amici”, Klaus Voorman al basso, il fidato Ringo Starr alla batteria, Billy Preston al piano e l’evanescente Phil Spector alla produzione, è un album praticamente unplugged, le cui sonorità si adattano perfettamente all’importanza dei contenuti. Un’angosciante “campana a morto” introduce la disperata Mother, caratterizzata da un testo semplicissimo e dalle urla lancinanti dell’autore in chiusura di brano. L’ipnotica Hold On, la tiratissima I Found Out, la rabbiosa Working Class Hero (con il celebre verso “siete ancora fottuti zotici, a quanto vedo”), la meravigliosa Isolation, la tenerissima Love, fino all’epica ed iconoclasta God ed alla terribile My Mummy’s Dead, questi brani rappresentano un viaggio attraverso le angosce ed i tormenti di uno dei più grandi artisti del novecento, nascosti dietro la facciata dell’imponente rock star; è il disco più autorivelatorio del rock. Mai nessuno, sia prima che dopo, è riuscito, né tantomeno ha osato, mettersi a nudo in maniera così totale, viscerale. E’ stato uno shock, un vero trauma vedere e sentire una delle icone del XX secolo, così squassata e dilaniata da conflitti interiori, traumi infantili e crisi personali come un essere umano qualunque.

John Lennon e Yoko Ono-Amsterdam- 1969

Anche i geni soffrono e piangono a quanto pare, ma mai si sarebbe potuto immaginare cosa realmente si nascondesse dietro l’immagine perfetta di una delle personalità musicali più idolatrate della storia. Tanta sincerità va premiata. Nonostante la sua complessità e durezza, l’album viene immediatamente incensato dalla critica al momento della sua uscita ed immediatamente classificato come un capolavoro assoluto.

«Il cantato di John nell’ultimo verso di “God” può considerarsi il migliore in tutto il rock» (Greil Marcus-critico musicale)

Le vendite ottimali ne certificano il successo presso il grande pubblico nonostante contenga tematiche e sonorità assolutamente contrastanti con quelle adottate da Lennon solo qualche mese prima. Le sedute col dott. Janov e le successive session d’incisione fruttano, per dovere di cronaca, il parallelo Yoko Ono/Plastic Ono Band (dalla grafica di copertina pressoché uguale) che, ovviamente, non possiede né la forza concettuale né l’ispirazione musicale del più celebre gemello. Rabbia, rancore, dolore, disillusione, ma anche liberazione, sollievo, redenzione; in questo lavoro l’ex Beatle si getta alle spalle il passato ed assurge a nuova vita. E con lui milioni di fans ancora storditi dall’improvvisa dissoluzione dei Fab Four.

Pet Sounds dei Beach Boys: il fantastico mondo di Mr. Wilson

Pet Sounds-Capitol Records (1966)

Può un disco rasentare la perfezione? Dopo aver ascoltato Pet Sounds, la risposta non può che essere si. Eppure la sua genesi, la sua lavorazione e la sua accoglienza furono tutt’altro che semplici. Alla metà degli anni ’60 i Beach Boys erano i paladini della surf music, corrente musical/esistenziale tipicamente californiana la cui filosofia era incentrata su tre capisaldi: belle ragazze, macchine veloci e, ovviamente, il surf. L’estate senza fine, il calore del sole, amori folgoranti, tutti ingredienti imprescindibili che fecero di questi cinque ragazzi di spiaggia un’ incredibile macchina da singoli capace di sfornare, nel giro di pochi anni, brani di enorme successo quali: Surfin’ Usa, I Get Around, Surfin’ Safari, Fun Fun Fun. Ma nel 1966 le cose cambiarono improvvisamente. Una nuova consapevolezza sembrò pervadere il gruppo. La fine dell’adolescenza, l’avanzare di una nuova stagione, la cognizione che tutto ha una fine, portarono i Beach Boys ad un punto di svolta. Dopotutto all’estate segue sempre l’autunno, dopo il giorno arriva sempre la sera. In ambito musicale, l’uscita, nel dicembre del 1965, di Rubber Soul dei Beatles, spinse Brian Wilson, leader riconosciuto del gruppo, ad alzare notevolmente il tiro della sua ambizione musicale.

« Non ero preparato per quell’unità. Sembrava che tutto stesse bene insieme. Rubber Soul era un insieme di canzoni… che in qualche modo andavano insieme come in nessun album mai prodotto, e io ero molto sorpreso. Dissi: “Ecco. Ora sono davvero stato spinto a fare un grande album.” » (B. Wilson)

Quasi ricalcando le orme dei Fab Four, Brian Wilson smise di andare in tournèe (anche per crescenti problemi mentali), si chiuse in studio ed, insieme al paroliere Tony Asher, cominciò a lavorare a quello che sarebbe stato il suo capolavoro. Una tecnica di registrazione stupefacente (lo studio usato come uno strumento), testi crepuscolari venati di malinconia, strumenti insoliti, suoni inediti, primi accenni di elettronica fecero di Pet Sounds un caleidoscopio di colori e sensazioni assolutamente all’avanguardia. Dai mandolini di Wouldn’t It Be Nice, alle ondeggianti armonie di You Still Believe In Me, dai corni francesi di God Only Knows, alla leggendaria rilettura dello standard country Sloop John B., fino al theremin di I Just Wasn’t Made For These Times ed al latrato dei cani in Caroline No, tutto in quest’album segue un preciso filo logico, un chiaro disegno musicale scaturito unicamente dalla mente e dal genio di Brian Wilson. Gli altri membri del gruppo furono usati solo come meri esecutori delle parti vocali e le partiture musicali, data la loro difficoltà, furono eseguite da capaci turnisti. Di fronte a tanta complessità (e poca commercialità), molti storsero il naso. Primi tra tutti gli stessi componenti dei Beach Boys. Mike Love, voce principale e frontman del gruppo, una volta ascoltato il materiale di Pet Sounds ebbe a dire: “Chi ascolterà questa merda? Le orecchie di un cane?” .

Brian Wilson- Pet Sound Photo Session (1966)

Ironicamente fu proprio questo sarcastico commento ad ispirare il titolo dell’album. Ancor più duro fu il giudizio dei dirigenti della Capitol Records che, in un primo momento, vietarono la pubblicazione del disco. Di fronte all’insistenza feroce di Brian Wilson, decisero comunque di pubblicarlo senza però dargli un’adeguata copertura pubblicitaria. Le vendite iniziali furono prevedibilmente basse (con nefasti effetti sulla salute mentale dell’autore) ma la sua considerazione da parte del mondo musicale fu immediatamente enorme. Gli stessi Beatles rimasero stupefatti di fronte alla magnificenza dell’album e lo annoverarono tra le fonti d’ispirazione per la realizzazione di Sgt. Pepper. Ovviamente negli anni l’influenza e l’importanza di quest’opera sono cresciute a dismisura fino a diventare unanimemente riconosciute. Nel 2004 è stato inserito tra i cinquanta album da preservare nel National Recording Registry dalla Biblioteca Nazionale del Congresso a dimostrazione della sua longevità e universalità. Negli anni successivi i Beach Boys non riuscirono più a raggiungere simili vette artistiche limitandosi a pubblicare onesti album di pop/rock con alterne fortune commerciali. Brian Wilson fu costretto a lunghi periodi di completa inattività a causa della sua instabilità psichica, ma poco importa. Tutta la forza del suo genio è ormai impressa nella storia della musica e riemerge prepotentemente ogni volta che risuonano le note di Pet Sounds.

 

di Gabriele Gambardella

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