Riflessione sul concetto di limite, tra Chomsky, Calvino, Leopardi, Watson

Il limite può essere inteso come mancanza, difetto oppure come confine. Ai tempi dell’università pensavo ingenuamente che uno dei modi di superare il nichilismo fosse creare una metafisica dei limiti, che io avevo chiamato limitismo, ovvero riconoscimento dei limiti fisici, ontologici, conoscitivi,  esistenziali della specie umana.

D’accordo ci sono senza ombra di dubbio dei modi più efficaci per sconfiggere il nichilismo, per combattere quello che Junger e Heidegger chiamavano il “Leviatano”: una letteratura mitopoietica, ritornare a Parmenide, credere in Dio. La verità è che allo stato attuale delle conoscenze nessuno può stabilire con esattezza questi limiti.

L’uomo ha dei limiti? Nessuno lo sa con certezza. C’è un limite nell’aspettativa di vita? Non si può campare più di 120 anni? Oppure può essere sconfitto l’invecchiamento e si può diventare immortali? Nessuno sa cosa sarà la vita umana e cosa sarà l’uomo in futuro. La scienza ha dei limiti? Forse oggi si può stabilire con maggiore accuratezza i limiti metodologici di una disciplina, ma anche questa è una conoscenza provvisoria.

Chomsky sostiene che se nessuno ha mai dimostrato in modo semplice l’ultimo teorema di Fermat, come pensava di aver fatto il celebre matematico, vuol dire che forse la mente umana non è fatta per questo ma significa anche che sappiamo risolvere altri problemi. Esiste quindi una sorta di meccanismo di compensazione.

Può benissimo darsi -scrive Chomsky- che un extraterrestre con una struttura mentale diversa dimostri subito l’ultimo teorema di Fermat senza alcuna difficoltà.  Non esiste una stima oggettiva e certa delle capacità intellettive. Kant originariamente aveva chiamato la Critica della Ragion Pura “Limiti della Sensibilità e dell’Intelletto”.

Non per criticare il grande genio di Kant ma nessuno sa stabilire il sostrato noumenico, irraggiungibile per la mente umana. Sappiamo che la nostra mente ha dei limiti empirici nel percepire il nulla e l’infinito, gli “interminati spazi”, i “sovrumani silenzi” leopardiani. Sempre per riprendere “L’infinito” di Leopardi noi miseri esseri umani possiamo percepire l’indefinito e mai cogliere pienamente l’infinito.

La differenza nel celebre capolavoro sta tutta nel pronome dimostrativo: l’infinito è “di là di quella” (siepe), mentre l’indefinito viene nominato con “questo mare”,  “queste piante”. Perfino “quest’immensità” deve intendersi come percepita soggettivamente e non come ciò che è illimitato in modo assoluto, come al di là di un confine oggettivo ad esempio.

Abbiamo quindi dei limiti certi oppure possiamo sempre superarci? Forse la vita umana è come la dialettica hegeliana e consiste tutta in una serie progressiva di auto-superamenti nel migliore dei casi.

Una cosa è certa: nessuno sa definire i limiti propri, mentre è assolutamente certo di identificare quelli altrui. A tutti sembra così facile dire quali sono i limiti mentali altrui. La verità è che nessuno può stabilirlo. Una volta gli psicologi ritenevano che le attitudini fossero stabili per tutta la vita. Ma è una concezione datata.

Non è assolutamente così. Si può perdere dei punti o acquistarli, intellettivamente parlando. Un tempo pensavano che il  Q.I fosse stabile. Nei “Cinque libri del sapere” trovai un grafico in cui per ogni professione c’era il Q.I necessario per esercitarla. Non è così semplice. È una concezione retrograda. È vero che esistono delle professioni cosiddette intellettuali, ma è difficile stabilire il livello intellettivo: si può solo stabilire approssimativamente il livello culturale.

Esistono i falsi positivi e i falsi negativi in ogni test che si rispetti, anche nei test d’intelligenza. Come ne “Il cavaliere inesistente” di Calvino esistono dei Gurdulù che dovrebbero avere tutti i requisiti per essere validi, non essendolo, e degli Agilulfo, che non avrebbero modo di esistere e invece sono validi.

L’intelligenza di una persona può migliorare o peggiorare, ammesso e non concesso  che si riesca a definire in modo univoco che cosa sia l’intelligenza umana. I neurologi e i neuropsicologi hanno scoperto recentemente molte prove della neuro-plasticità umana.

Tutto sta nell’applicarsi con costanza e impegno, nel versarsi in una materia. Stabilire dei limiti così come cercare di rintracciare delle potenzialità inespresse talvolta è cosa soggettiva. Se non capisci una cosa oggi puoi sempre capirla domani, se spiegata o approcciata in modo diverso. Alcune cose non è assolutamente necessario saperle. Se non sei un fisico non è importante sapere come funziona l’interferometro.

Importante è che tu sappia per un minimo di cultura generale che con esso sia stato dimostrato che l’etere non esisteva, che la relatività galileiana non valeva per la luce e che da quell’esperimento fallimentare Einstein capì che la luce aveva velocità costante, uno dei capisaldi della sua teoria della relatività.

A volte basta sapere l’abc. Altre volte però è necessario approfondire. Spesso la mancanza di apprendimento sta nel discente che non capisce ma talvolta anche nel docente che non si sa spiegare bene, che salta dei passaggi, che dà alcune nozioni per scontate. Se uno è genitore non deve credere in modo totale agli insegnanti che dicono che suo figlio è un genio oppure uno duro di comprendonio.

Valutare le capacità cognitive è una cosa molto difficile e probabilmente i test di intelligenza non è detto che misurino l’intelligenza, come pensava alla fine della vita Cattell. Poi il giudizio degli insegnanti può essere errato e basato su delle distorsioni cognitive. Ci possono essere allievi sottostimati e altri sovrastimati.

Tuttavia molti insegnanti spesso in perfetta buona fede credono di poter stabilire con certezza assoluta le capacità dei loro allievi. Sempre in perfetta buona fede alcuni insegnanti decidono in modo negativo il futuro dei loro allievi o almeno li condizionano in modo negativo. Alcuni insegnanti pensano di poter valutare l’intelligenza dei loro alunni in base alle competenze acquisite e in base all’esperienza. Tutto ciò può invece portare a formulare giudizi totalmente errati.

Un insegnante non può stabilire con esattezza le abilità, l’impegno, la motivazione, il grado di sviluppo fisico e cerebrale di un adolescente ad esempio. Basarsi sull’esperienza può essere fallace. I test di intelligenza prima di essere validati ufficialmente vengono prima sottoposti a decine e a volte a centinaia di migliaia di soggetti.

Nonostante questa standardizzazione di massa i test sono ancora criticabili e considerati perfettibili. Immaginiamoci quanto è poco attendibile l’esperienza di un insegnante, basata su un numero limitato di casi! Lo studio delle capacità intellettive è forse ancora agli albori.

Il grande psicologo comportamentista Watson sosteneva che tutto dipendeva dall’ambiente e che se gli avessero dato da educare dei bambini li avrebbe fatti diventare quel che lui volesse: scienziati, scrittori,  impiegati, operai, eccetera eccetera.

Fanno ridere quelli che credono di non avere limiti. Ma fanno ridere soprattutto quelli che fanno la predica a altri, dicendo che devono riconoscere i propri limiti. Se una cosa non ti riesce ora può darsi che ti riesca domani. Nessuno può stabilire con esattezza il motivo per cui non ti riesce: può essere ansia, mancanza di capacità,  mancanza di interesse, mancanza di impegno, inesperienza oppure un insieme di tutti questi fattori.

Non porsi limiti significa proiettarsi all’infinito, avere una fiducia smisurata delle proprie qualità: questo è troppo, bisogna sapersi fermare, bisogna saper circoscrivere la nostra sfera di  competenza, nessuno può diventare onnisciente. Ma è sbagliato anche rinunciare a molto, dire troppi no, non provarci, dire troppe volte “non posso”, “non ci riesco”, “non ce la farò mai”.

Esiste un settore della psicologia chiamato “crescita personale” in cui i  coach propongono ai clienti/pazienti di superare ogni tipo di limite mentale, da loro stessi definito “blocco mentale”. Diffidate di questo tipo di psicologia troppo spicciola e motivazionale: non è tutto così facile, spesso è solo un modo per spillare soldi e fare business.

Ritornando alle abili, se un compito non ci riesce la prima volta che ci viene presentato può diventare più facile le volte dopo perché più familiare. Spesso l’esperienza e l’abitudine giocano un ruolo fondamentale. Tutto sta nel non abbattersi e nel non mollare troppo presto la spugna. A ogni modo nel valutare le capacità proprie e altrui bisogna essere sempre possibilisti.

‘Generazione Erasmus’, l’utile compendio filosofico sulla società del libero mercato di Paolo Borgognone

Il volume a firma di Paolo Borgognone, pubblicato lo scorso anno per i tipi di OAKS, dal titolo Generazione Erasmus, è un vero compendio filosofico attinente la società di “libero mercato” e i suoi avidi fiancheggiatori. Ponendo al centro della trattazione l’esperienza dei giovani universitari che si recano all’estero per un periodo di studio, delinea con ricchezza di particolari quei processi che hanno condotto inesorabilmente alla costruzione della moderna società “liquida”: il totalitarismo nichilista del consumo; il giovanilismo come apologia della mobilità illimitata e accettazione passiva del precariato; il nuovo conflitto di classe post-moderno fra vincitori e vinti della globalizzazione; il genderismo come rinuncia alla propria identità anche nella sfera sessuale; il Sessantotto come controrivoluzione ultra-capitalista. Nella seconda parte, non mancano acute analisi geopolitiche.
Stando ai contenuti strettamente filosofici, osserviamo che il risorgere dell’interesse per il pensiero di Hegel e Marx nell’ultimo decennio ha un’importanza rilevante in relazione ai problemi sorti con l’evoluzione del capitalismo dopo il 1989 e dell’economia post-moderna; in effetti, siamo di fronte ad un’opera pregevole, concepita da un giovane studioso, che si inserisce in un più ampio circuito di ripensamento del ruolo della politica e dello Stato nei confronti dell’economia, della comunità di fronte all’individualismo, delle radici tradizionali contro il mondialismo dell’omologazione planetaria.

Invero, quando la società nel suo complesso tende a divenir preda di scopi “particolari”, frammentandosi in una pletora di confuse mire egoistiche, la missione delle istituzioni statali deve concretizzarsi nell’orientare la collettività verso un destino universale. Una comunità politica è propriamente tale quando è in grado di opporsi agli eccessi della “società civile”; in altre parole, sebbene permetta l’esistenza del “mercato”, lo Stato – nella sua configurazione moderna e “nazionale” – deve costituire un argine alla capacità degli interessi capitalistici di dominare e permeare la vita ordinaria nel suo complesso. Le moderne società a economia di mercato sono caratterizzate proprio da questa patologia: l’attività economica – signoreggiata dai grandi industriali e dalla speculazione finanziaria tramutata in “dittatura dei mercati” – diventa la logica dominante delle relazioni sociali, influenza ogni campo della dimensione pubblica, senza alcun freno; predispone quindi la collettività, con tutti i suoi mezzi, a realizzare gli interessi materiali ed etici di un ristretto segmento di essa.

In un tale quadro, il progetto Erasmus, artefice dell’omonima “generazione”, è lo strumento per addomesticare e catechizzare le moderne plebi, illudendole di poter vivere in una movida permanente, annunciando loro che il mondialismo – piuttosto che servitù morale ed economica – è divertimento sfrenato e consumismo illimitato. Sia chiaro: non si tratta di essere contrari all’idea di un’economia di mercato o della possibilità che giovani studenti dalle brillanti capacità possano perfezionarsi attraverso un’esperienza in un altro Paese europeo; piuttosto, occorre criticare fermamente la tendenza della sfera economica a colonizzare ogni ambito delle relazioni sociali, a degradare ogni più alto e nobile scopo. La libertà civica si deteriora in un ambiente saturo di atomismo competitivo; la società civile e il sistema dei bisogni richiedono l’esistenza dello Stato al fine di prevenire questo tipo di malattia sociale, che gli individui siano guidati dalla ricerca del proprio tornaconto a spese degli interessi più ampi della società nel suo insieme. Il capitalismo moderno – inoltre – si caratterizza non solo dalla logica onnipervasiva dello scambio e dal perseguimento di utilità particolari a spese della generalità, ma dalla circostanza che un piccolo gruppo di interessi privati siano in grado di organizzarsi per sottomettere e indirizzare, nel proprio interesse, il potere politico, la cultura accademica, i mezzi di comunicazione di massa – a discapito degli interessi universali della società.

A favorire questi sviluppi, scorgiamo il sostegno del ceto intellettuale, dentro e fuori le università; quei giornalisti e professori “di sinistra” che hanno il compito di fornire giustificazione nobile, colta e morale allo scempio in atto. Non è semplice conferire una parvenza di scientificità e rispettabilità alle idee dominanti, che si traducono in prassi di pauperizzazione e sradicamento della classe lavoratrice. Da qui, l’irrimediabile allontanamento dal favore dei popoli, i quali sono continuamente dileggiati per i loro stili di vita, per i modi di pensare e per le loro frequenti manifestazioni di dissenso verso il modello globalista di delocalizzazione e precarizzazione della forza-lavoro. A compensare la perdita dei diritti sociali, inoltre, si assiste allo sbandieramento di finte “conquiste” nel campo dei diritti civili, dell’emancipazione sessuale, della licenziosità spacciata come progressismo libertario.

Organizzatosi dapprima come nuovo schema di produzione e distribuzione delle merci, di ristrutturazione del lavoro e ripartizione della proprietà, il capitalismo diventa sempre più un’istituzione sociale, un elemento naturale come l’aria che respiriamo; si impone come regolatore di relazioni, ha la capacità di ri-orientare le logiche funzionali di tutti gli organismi (economici e non). Se i rapporti di mercato incontrollati sfociano nella frammentazione della società, il capitale è in grado superficialmente di superare questa scissione, ostentando un falso universale: la ricerca del profitto, la moda del consumo, la frenesia dell’apparire – sono tutte logiche che giungono a permeare ogni recesso della società moderna. Il compito dello Stato nazionale, lo ribadiamo, consiste dunque nell’incorporare le forme subordinate di vita sociale – la famiglia, la società civile, i “corpi intermedi” – in una totalità più elevata, in cui gli agenti razionali saranno in grado di identificare consapevolmente l’universale e conseguire così la piena libertà. Se esso invece si confonde o deriva in ultimo dalla “società civile”, e se il suo fine specifico coincide con la garanzia della sicurezza personale e della protezione della proprietà privata, allora gli interessi individuali, in quanto tali, diventano il fine supremo dell’associazione umana; ne consegue che l’appartenenza alla comunità politica è qualcosa di opzionale e revocabile.

Nei regni della famiglia e della società civile, gli individui non sono in grado di riconoscere e cogliere integralmente la natura oggettiva della loro libertà come esseri sociali, al di là dei ruoli “parziali” che ricoprono nei rapporti della vita ordinaria – come genitori, figli, lavoratori, consumatori e così via. In questo senso, il particolare si oppone all’universale in quanto non è in grado di vedere se stesso come un momento del tutto; pertanto, quelle strutture sociali, istituzioni politiche, usi e costumi che non sono capaci di orientare le attività degli uomini verso obiettivi universali (e comuni) non possono soddisfare il criterio della loro razionalità naturale. Veniamo a comprendere, in fin dei conti, che siamo esseri sociali e politici, che siamo parte di un tutto coerente, che il nostro territorio individuale – le nostre personalità, le nostre pulsioni, il nostro senso del dovere – ottiene esauriente compimento, in questo mondo, una volta attualizzate le nostre relazioni con gli altri, anche grazie alle istituzioni politiche che hanno il compito di mediare le varie connessioni. Credere – seguendo la struttura neoliberale – che gli individui non sono altro che atomi che realizzano se stessi nell’anarchia degli interessi privati è, di per sé, la più pericolosa delle astrazioni.

 

Gabriele Sabetta

György Lukács, il marxismo applicato all’attività critica

Il filosofo ungherese Lukács György (Budapest, 13 aprile 1885 – Budapest, 4 giugno 1971) è stato uno dei principali esponenti del marxismo del Novecento. Laureatosi a Budapest nel 1906 si trasferisce a Berlino e a Heidelberg per approfondire gli studi di filosofia. Quello tedesco è stato un periodo decisivo per la sua formazione culturale; il suo pensiero risente fortemente dell’influsso di personalità come Simmel, Weber, Rickert, Lask e Dilthey. Con lo scoppio della Prima guerra mondiale L. vive una crisi ideale e politica che lo avvicina al marxismo. Torna in Ungheria e si iscrive al partito comunista partecipando nel 1919 alla Repubblica Sovietica ungherese di Kun come commissario del popolo all’istruzione. Successivamente emigra in Austria e in Russia e ritorna in patria nel 1945 per occupare un posto di professore all’università di Budapest. Nel 1956 Lukács prende parte attiva al disgelo politico e culturale e partecipa al secondo governo Nagy come ministro della Pubblica istruzione.

Dopo la repressione russa viene deportato in Romania; rientrato a Budapest nel 1957 si ritira da ogni attività pubblica e si dedica interamente al suo lavoro scientifico.
Per quanto riguarda la sua formazione, l’influsso di Hegel e dello storicismo tedesco costituisce il nucleo teorico delle sue prime opere: L’anima e le forme del 1911 e Teoria del romanzo del 1915. Gli stessi motivi teorici sono presenti anche nell’importante e celebre opera del 1923 Storia e coscienza di classe (tradotta in italiano nel 1967) opera che rappresenta il momento più significativo dell’incontro con l’opera di Marx e con il marxismo. In questo libro L. unisce la teoria marxiana della reificazione e del feticismo, la critica dei procedimenti metodologici delle scienze della natura e la critica hegeliana dell’intelletto e del materialismo. L. inoltre esplicita un metodo fondato sulla “totalità concreta”. Per alcune delle tesi in esso contenute il libro è  aspramente criticato dalla Terza Internazionale e L., ormai legato e attivo all’interno del movimento comunista, è costretto a sconfessare le sue idee. Inizia così quella che si può definire la seconda fase della sua attività, ispirata al “materialismo dialettico” e concentrata sull’estetica marxista.

Nel suo studio Il giovane Hegel e i problemi della società capitalistica (uscito in Italia nel 1960), L. sostiene la sostanziale continuità di metodo fra Hegel e Marx-Engels. Come teorico dell’arte e della letteratura il filosofo e critico elabora una teoria estetica fondata sulla concezione del “rispecchiamento” e sulla categoria del “particolare”. Il realismo è la forma più alta di il rappresentare personaggi “tipici” in circostanze “tipiche” è la cosa più vicina alla verità. L’arte è una forma di sistema in cui si supera l’accidentalità e si arriva ad un momento eterno perciò deve essere realista ma non naturalista. L’arte naturalista di Zola, Maupassant e Verga ad esempio  si compiace nell’affondare nel patologico-fisiologico, dimenticando la politica e la storia: l’uomo è considerato nella sua individualità, e ciò conduce alla creazione di personaggi staccati dalla società e in contrasto con la ricerca della totalità. Il realismo in letteratura è una riproduzione fedele di circostanze tipiche in cui si intrecciano realtà con caratteristiche unitarie, dialettiche e problematiche. Il romanzo racchiude la storia di un popolo. Lo scopo del romanzo storico è dunque quello di dimostrare con mezzi poetici le circostanze storiche e far diventare la storia un modello assoluto. Esso crea un nesso tra la istintività e l’inconsapevolezza delle masse e la coscienza storica della classe dominante. Ma cogliere il “tipo” non significa fare una statistica di una serie di casi particolari, né riprodurre la realtà. Cogliere il tipico significa infatti cogliere il significato profondo della realtà storica, i suoi nodi centrali e decisivi.

In Teoria del romanzo, testo ha previsto il crollo della cultura che analizzava, Lukács comincia il suo lungo excursus sulla storia delle forme letterarie dall’epica classica di Omero:

“Il greco traccia il cerchio della raffigurazione formale ancora al di qua del paradosso, e tutto ciò che, tradotto il paradosso in termini attuali, dovrebbe condurre alla piattezza, lo porta invece alla compiutezza”.

La metafora spaziale, scelta da Lukács, è  la più adatta ad illustrare la condizione dell’uomo greco: tutto il “mondo” è sullo stesso piano, tutto è scopribile e conoscibile, perfino le divinità, per questo l’uomo dell’Epos non si pone la questione di conoscere il proprio destino, perché gli è facilmente rivelato. Se nell’epica era sufficiente un solo tipo di soggettività, ovvero l’uomo che semplicemente “viveva” in un mondo sensato, ora che esse hanno il potere di creare una totalità  le soggettività sono divenute due: l’eroe-cercatore, che deve tentare di ritrovare il senso in un mondo che non l’ha più, ma anche una soggettività creatrice: “il soggetto che contempla e crea, applicando a se stesso la sua conoscenza del mondo, è costretto a fare di se stesso, esattamente come delle proprie creature, il libero oggetto della libera ironia”. E c’è un modo efficace che ha il romanzo per soddisfare le esigenze di entrambe le soggettività: la biografia.

La forma più adatta per l’uomo del romanzo che è un individuo problematico, è quindi quella biografica che però non elimina la scissione del mondo tra senso e non-senso. Il cammino biografico dell’uomo problematico verso l’autocoscienza della propria esistenza è solo una “visione del senso”.

I Saggi sul realismo, dedicati soprattutto agli studi su Balzac e a Tolstoj, come ha sostenuto lo stesso Lukács, hanno “un carattere idealistico-borghese, in quanto in essi non ci si muove dai rapporti diretti e reali tra la società e la letteratura, ma si cerca invece di cogliere intellettualmente e realizzare una sintesi di quelle scienze – sociologia ed estetica – che si occupano di tali argomenti”. Capitali saranno testi come Thomas Mann e la tragedia dell’arte moderna,  Estetica, Studi sul Faust e Il romanzo storico in cui presenta appunto tutte le sue teorie estetiche e letterarie.

Oltre ad aver contribuito alla filosofia marxista e alla storia del pensiero moderno, quindi, Lukàcs si è impegnato a lungo anche nell’ambito della riflessione estetica e della critica letteraria, applicando in maniera significativa il marxismo alle questioni dell’arte e dell’attività critica.

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