Guerra Israele-Iran. L’autorevole versione del filosofo Bernard-Henri Lévy

Tra gli svergognati antioccidentali accasati tra i diritti e i privilegi che L’Occidente offre, tra i docenti che sui social parlano di terza guerra mondiale per colpa di Israele mentre esibiscono foto con l’immagine con la bandiera palestinese che nulla ha a che vedere con l’Iran, tra i pacifisti ipocriti, tra gli ignoranti e gli esitanti che si preoccupano solo dell’economia e dell’inflazione, tra i celebratori di chissà quale diplomazia (mai indicata), tra i giornalisti che sostengono che non ci sia nessuna prova che l’Iran volesse fabbricare l’atomica per sostenere che Israele è guarrafondaio, si alza una voce autorevole e coraggiosa, quella del filosofo Bernand Lévy, che si spinge oltre l’attualità, le ipocrisie, la retorica.

«Questa guerra tra Israele e Iran è storica». Con queste parole, Bernard-Henri Lévy ha lanciato un monito che va ben oltre l’attualità immediata. In suo recente post su X, il filosofo francese afferma che se Stati Uniti ed Europa non sosterranno Israele con “tutte le loro forze”, l’asse totalitario — composto da Russia, Cina, islamisti radicali come il Pakistan, e forse in futuro anche la Turchia — potrebbe intervenire in favore di Teheran. Da quel momento, scrive, «entreremo in un altro mondo, in una nuova era della nostra storia».

È un messaggio che, pur nella sua drammaticità, interpella direttamente le classi dirigenti occidentali. La guerra scoppiata tra Tel Aviv e Teheran, con bombardamenti mirati su siti nucleari e reazioni verbali e operative da parte iraniana, segna un punto di svolta. Non solo nel fragile equilibrio del Medio Oriente, ma nella geopolitica globale.

Per l’Unione Europea, il bivio è sempre lo stesso: restare spettatrice di un disordine crescente o farsi finalmente soggetto geopolitico. Le cancellerie del continente, finora, hanno adottato un profilo basso. Dichiarazioni prudenti, appelli generici alla de-escalation, ma nessuna vera strategia. Eppure, se davvero ci troviamo di fronte a una trasformazione epocale, la neutralità potrebbe risultare una colpa, non una virtù.

Nel momento in cui Israele si trova esposto a una minaccia sistemica, l’Europa dovrebbe interrogarsi non tanto sulle mosse del governo Netanyahu – che restano legittimamente oggetto di critica – ma sul proprio ruolo in un mondo in cui l’equilibrio tra libertà e autoritarismo rischia di rompersi.

Questa guerra, come suggerisce il filosofo francese, è storica perché rappresenta una soglia. O l’Occidente riscopre la propria coesione, la propria visione, la propria determinazione strategica. Oppure verrà progressivamente marginalizzato, reso irrilevante da potenze che non hanno remore nell’uso della forza e nella manipolazione del caos.

Israele sta facendo il lavoro sporco per l’Occidente, anzi il suo attacco ripristina la credibilità dell’Occidente, in crisi di identità soprattutto grazie ai portatori insani di cancel e woke culture, ai complessati di colpa, a chi non comprende nemmeno la differenza abissale tra la questione di Gaza e quella dell’Iran, tra chi muore in guerra e chi viene massacrato casa per casa, a chi non conosce il significato della parola genocidio, a chi non si chiede perché Hamas non mette al sicuro la popolazione palestinese nei propri tunnel, a chi si indigna solo per i bambini morti a Gaza e non dei 15 milioni di bambini sudanesi affamati e profughi, a quelli del Darfur, a chi non si chiede perché Hamas non libera gli ostaggi, se davvero tiene davvero per la vita degli abitanti di Gaza invece di optare per il martirio di massa.

Perché prima di indignarsi, giustamente, per le morti degli innocenti palestinesi dando la colpa a Israele, non ci si pongono anche queste legittime domande, che nulla tolgono alla gravità dell’azione di Netanyahu?

Chi sbraita per una guerra intelligente e senza vittime civili, è un ipocrita. Chi protesta contro Israele e per la Palestina, come per l’Iran, e poi sale sui carri del pride e manifesta contro il patriarcato, è un ipocrita. Chi pensa che il sistema culturale e “valoriale” di Paese come l’Iran sia superiore a quello occidentale, che gli ayatollah e i mullah perlomeno difendano il ruolo della religione, è un povero ignorante rinnegato.

L’Europa ha oggi l’occasione – e forse l’ultima possibilità – per dimostrare che le sue aspirazioni globali non sono solo retorica. Servono decisioni, coraggio, visione. Soprattutto, serve smettere di credere che la storia sia finita, e accettare che il futuro si sta già scrivendo, con o senza di noi.

Quella sinistra passione occidentale per i terroristi islamici

Il 7 ottobre 2024 ricorre il primo anniversario dell’attacco terroristico di Hamas a Israele, ma per alcune grottesche compagini italiane che si preparano a manifestare, è una data storica che celebra la resistenza palestinese nei confronti dello Stato di Israele, considerato terrorista dai maître à penser che manifestano una sinistra passione per i terroristi islamici. Perché? Da dove nasce tutta questa solidarietà e eccitazione per la cosiddetta “resistenza palestinese” e per coloro che vogliono distruggere Israele?

Le rivoluzioni, come scriveva Dahrendorf sono momenti malinconici della storia, avventure individuali e collettive, nelle quali la speranza viene quasi sempre tradita, lasciando al suo posto una violenta delusione. La rivoluzione che credono di celebrare i pro-Palestina, è evidentemente, quel punto di svolta epocale, quel mutamento tanto vagheggiato, capace di inaugurare, attraverso un passaggio “critico”, mediante la violenza, la guerra, il terrore, un’altra società, regno di autentica giustizia.

Secondo gli ipocriti odiatori occidentali che vivono in Occidente e alla maniera occidentale, gli integralisti islamici e chi ha massacrato uomini. donne e bambini il 7 ottobre 2023, sono portatori di valori di giustizia ed uguaglianza. Coloro che impiccano omosessuali in quanto tali e incarcerano e assassinano donne che non indossano correttamente il velo. Come lo si può spiegare?

Nel modo attuale di autorappresentarsi, troviamo tanti relitti affioranti della narrazione ideologica intorno alla rivoluzione sorta in Occidente. Forse anche per questo attecchisce fra giovani cresciuti in Europa: jihad, insomma, fa rima con rivoluzione, non a caso nel “Manuale dello stato islamico”, una delle tante pubblicazioni web di Daesh si legge, “lo stato islamico è la vera rivoluzione, grazie a Corano e Sunnah”. Senza contare che nell’immaginario di sinistra gli arabi sono vittime a prescindere, non bianchi, poveri, sfruttati.

D’altro canto, come ha giustamente notato il prof. Luigi Caramiello ne “L’Islam tra noi che genera nuovi mostri”, se si presta un po’ di attenzione al discettare di tanti intellettuali intorno al tema, si fa presto a scoprire quanto siano ancora folte le schiere di coloro che subiscono tutt’oggi il fascino del vecchio mitologema della rivoluzione, il quale, periodicamente, si ripresenta sotto i nostri occhi, anche se in forma variamente trasfigurata. Non sono tanto le “masse” a subire la seduzione di tale messaggio, esso infatti trova simpatia soprattutto fra le élites politiche e culturali, professori sessantottini (altra rivoluzione il ’68!), neo femministe e trans-femministe, donne del movimento “Non una di meno” (tranne se israeliana, viene da dire), che hanno manifestato contro il genocidio (termine peraltro scorretto) perpetrato da Israele a Gaza, in barba al divieto del questore che sapeva bene che nella tanto strombazzata protesta, si è inneggiato al 7 ottobre, e all’antisemitismo.

Gli occidentali pro-Palestina con il (finto) complesso di colpa, trincerandosi dietro la Costituzione dimenticano di citare il seguente passaggio: <<E’ vietata ogni organizzazione, movimento o gruppo avente tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali, o religiosi>>.

E’ doveroso ricordare ai pseudorivoluzionari che ciò che insegnano tante diverse esperienze storiche – dalla rivoluzione francese del 1889 a quella bolscevica del 1919, per giungere a taluni inquietanti esiti della cosiddetta “Primavera araba” -, è proprio il fatto che ogni qualvolta, sotto il pretesto rivoluzionario di un vago concetto di giustizia, l’autorità dello Stato si estende all’insieme della società e tende a non riconoscere più alcuna altra sfera, alcun’altra dimensione individuale; il risultato è semplicemente un orrore, che sulla ha a che vedere con l’evoluzione della società.

 

 

 

Una pantera in cantina, di Amos Oz

Amos Oz

«Il contrario di quel che è successo è quel che sarebbe potuto succedere senza le bugie e la paura».

 Una pantera in cantina  dello scrittore e giornalista israeliano Amos Oz, tra i più influenti intellettuali d’ Israele,sostenitore della soluzione dei due stati per il conflitto arabo-israeliano, è una piccola grande storia di emozioni e sentimenti adolescenti, un’avventura di amicizia e di crescita, che pone interrogativi sulla colpa e sulla fiducia, in un contesto storico dominato da epocali stravolgimenti. Il protagonista Profi è infatti testimone di eventi più grandi di lui, ma ci consente di coglierne  gli effetti sulle relazioni umane grazie al suo sguardo ancora puro e alla sua sensibilità intatta.

Gerusalemme 1947: sullo sfondo degli eventi storici che incalzano, un ragazzino ebreo di appena dodici anni vive uno dei momenti più importanti della sua vita, momento che avrà poi un  grande significato nel suo futuro. Dopo l’Olocausto, sconfitti, traditi e vinti, gli ebrei fondano movimenti clandestini per la nascita dello stato di Israele. Anche Profi, il protagonista, ha fondato con un paio di amici, un po’ per gioco, un po’ sul serio, una società segreta con l’obiettivo di combattere gli inglesi, che occupano la Palestina, rivendicando il diritto ad avere una propria  patria dopo tanta sofferenza. Stabiliscono le loro regole di vita e anche una gerarchia. Le regole sono rigide ed indiscutibili, necessarie per la rinascita di un popolo, perennemente perseguitato. Il protagonista è soprannominato Profi, che altro non è se non una abbreviazione di professore, perché è intelligente, ha un’immensa cultura e ama leggere e studiare le parole i significati. Profi è già adulto in realtà. Forse bambino non lo è proprio mai stato. Né potrebbe mai permettersi di voler rivendicare la sua infanzia perduta. È un adulto dal principio della storia, dalle prime pagine, quando già è sotto processo, rimesso al giudizio dei suoi coetanei. È un ragazzo socievole e vivace, si considera coraggioso come una pantera e gode della simpatia di tutti i suoi compagni.

Poi un giorno, quasi il destino volesse beffarlo o metterlo alla prova, fa amicizia con il nemico, un sergente inglese che gli insegna la sua lingua in cambio di lezioni di ebraico. Da quel momento agli occhi degli altri diventa un vile traditore e, come tale dovrebbe essere punito. Profi ha tradito. Questa è la sentenza inappellabile. Ha tradito cedendo alle lusinghe del nemico. Con il nemico Profi ha appuntamenti quotidiani, in una saletta tetra e fumosa del caffè Orient Palace. La loro amicizia è fondata sullo scambio rispettoso di due culture così diverse e così in lotta tra loro che sembra un’utopia. Nell’animo di Profi, prende vita e mette radici quel contrasto di coscienza che lo porterà al bivio tra lo scrupolo creato dai luoghi comuni e dalla diffidenza e quelle domande senza risposta che non giustificano, un senso dell’odio così animato, una una falsa coerenza di ideali e un nazionalismo ottuso. La pantera dunque, animale coraggioso e spavaldo, deve nascondersi in cantina, trovare un rifugio dove poter riflettere, capire ed esprimere le perplessità e le angosce che di fronte alla sincera predisposizione di un uomo si dissolvono e svaniscono come le luci all’alba.

Attraverso uno suo sguardo ancora candido, puro, non corrotto da stereotipi  e preconcetti, attraverso una sensibilità integra, Amos Oz coglie appieno la semplicità delle relazione umana e la disarmante facilità con cui un uomo riconosce un altro essere simile a sé.

La scrittura di Amos Oz sempre fluida e delicata ha il potere si trasportarci per mano nella guerra e nel dolore infondendoci però quella fiducia e quella speranza necessaria a farci credere che un giorno, forse, non ci saranno più nemici né traditori e che tutti insieme potranno andare «sulla riva del fiume a vedere se la corrente aveva riportato al punto di partenza la persiana color blu pallido».

 

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