Chi sono i morti dell’Europa? Il vuoto di Renzi, Salvini e della sardina Sartori

Pavel Ivanovič Čičikov attraversa la Russia per acquistare anime morte, i servi della gleba deceduti ma non ancora registrati come tali, così da costruirsi un capitale di spettri, una ricchezza fantasmatica da tramutare, poi, in viatico d’ascesa sociale. Questa figura mediocremente cordiale, “un uomo molto ammodo, comunque lo si rigirasse”, cui Gogol’ attribuisce i tratti della più totale banalità – né bello né brutto, né grasso né magro, né vecchio né giovane – è la metafora letteraria perfetta per il vuoto di rappresentanza che infesta l’Europa, reso ormai palese dal recente trionfo dei conservatori di Boris Johnson in Gran Bretagna.

Matteo Renzi, non unico fra gli affranti commentatori liberal, si affretta a dar la colpa a Jeremy Corbyn: la colpa di essere troppo a sinistra, nello specifico. Una lettura, però, semplicistica e strumentale, che non tiene conto dell’analisi del voto. Con buona pace della nostra sinistra-ma-non-troppo, le mappe e i numeri dipingono un quadro diverso: il Labour perde consensi soprattutto nelle aree storicamente rosse, il cosiddetto red wall. Nel nord dell’Inghilterra, quindi, nelle vecchie roccaforti operaie, le stesse zone che si erano schierate più decisamente per il leave in materia di Brexit.

La sterzata socialista promessa da Corbyn può aver spaventato gli europeisti di Londra, il grande capitale, la gauche caviar, certo, ma la vera catastrofe si registra proprio fra i votanti che Renzi definirebbe “di sinistra dura e pura”.

Il fenomeno è, sul fondo, identico a quello che stiamo osservando da più di un decennio in Italia: un travaso del voto popolare, a basso reddito, dalla sinistra alla destra. Eccole qui le anime morte, intere fasce della popolazione emarginate dai processi democratici, elettori che votano ma, chiunque votino, non verranno rappresentati. Salvini è il nostro Čičikov: viaggia di piazza in piazza, di sagra in sagra, discute con il medesimo piglio popolaresco di Nutella e della Madonna, e così raccatta questo popolo dimenticato, offrendo nient’altro che la propria presenza.

Salvini, quando parla di assetto economico nazionale, è curiosamente vicino ad Emma Bonino: la stessa venerazione per l’impresa privata, la stessa insofferenza per regolamentazioni, interventi dello Stato, tassazione progressiva, solidarietà sociale, per tutto ciò che non è mercato.
Però Salvini non ne parla spesso. I suoi argomenti sono altri, e meno rischiosi: l’immigrazione e la sovranità.

Così come la campagna elettorale di Johnson è stata del tutto incentrata sulla Brexit, tanto da trasformare le elezioni politiche, alla prova dei fatti, proprio in quel secondo referendum vagheggiato da Corbyn. Un gioco di prestigio, questo, che nasconde un tragico cortocircuito: la sinistra non potrà mai realizzare politiche sociali risolutive, e quindi recuperare consenso laddove l’ha perso, finché non saranno spezzate le catene europee; e la destra, che vuole spezzare le catene europee, non è interessata alla politica sociale. Il Jeremy Corbyn ambiguo, pavido, incapace di interpretare la Brexit, è l’incarnazione più recente di questo paradosso.

Nel frattempo, l’attività principale degli opinionisti di sinistra sembra essere la ricerca di giustificazioni fantasiose per i propri fallimenti. A sabotarci, ci raccontano, sono i vecchi, gli ignoranti, chi non è progressista, multiculturale, dinamico, moderno e almeno un po’ gender fluid: un odioso vaniloquio hipster che offusca la realtà, altrimenti cristallina.

Gli europei che odiano l’Unione Europea sono quelli che ne hanno pagato il prezzo: non i giovani, che non ricordano com’era prima, e non i ricchi, che delle devastazioni causate dall’austerità possono infischiarsene. Al posto del necessario mea culpa, però, la sinistra italiana preferisce mandare in piazza un ulteriore Čičikov, un nuovo pifferaio del nulla: la sardina Mattia Santori con i suoi seguaci.

Anche lui, come Salvini, predica il vuoto spinto: basta odio, integrazione universale, affidiamoci ai competenti. Anche lui, come Salvini, è una toppa appiccicata male sul vestito a brandelli della democrazia. Un “romanzo ideologico d’appendice”, per dirla con Gramsci, fatto di buonismi e cattivismi ugualmente fumosi, in cui naufraga la questione fondamentale della rappresentanza: nessuno parla davvero in nome della maggioranza degli italiani.

 

Claudio Chianese

‘Il giovane europeo’: l’altra Europa di Pierre Drieu La Rochelle, dove l’uomo non sa più esprimere nulla

Nato a Parigi nel 1893 da una famiglia borghese di origini normanne, Pierre Drieu La Rochelle condivise le inquietudini e le delusioni di una generazione sconvolta dalla Grande Guerra e dalle macerie spirituali di un vecchio mondo in rovina. Alto, snello, elegante – terribilmente attraente – con un sorriso breve e raffinato, aveva un aspetto penetrante e diretto. Si contraddistinse come il tipo del “martire rivoluzionario”, sfidando le convenzioni “di destra e di sinistra” per il bene dell’Europa, e senza dubbio ci parla ancora attraverso i suoi libri.

L’attualità della sua figura riguarda, in particolare, un “sovranismo europeo” (diremmo oggi), la cui preoccupazione fondamentale è che la rinascita dell’Europa non agisca per distruggere le nazioni a mezzo di una economia iper-liberista, ma per integrarle in un orizzonte più vasto. A proposito di prospettive spirituali e critiche del nostro autore in tema di Europa: è stato pubblicato quest’anno da Aspis in prima edizione italiana, curato e tradotto da Marco Settimini, “Il giovane Europeo”, uscito in Francia nel 1927. I testi che vi sono raccolti incarnano, con vigore sincero, un originale spirito di combinazione tra eccentricità dadaista, entusiasmo futuristico per l’innovazione tecnica e rivolta surrealista, pur mantenendo il ricordo della tradizione classica.

l libro si compone di tre saggi. I primi due, sotto forma di ritmi narrativi di un diario, descrivono le esperienze di un giovane europeo del XX secolo – dallo sport alla politica, dalla religione alla tecnica, dalle sperimentazioni artistiche e culturali alla rivoluzione e alla guerra – un uomo che matura lentamente un senso di inevitabile decadenza e si vede smarrito in una terra che non sente più come patria.

L’altro saggio, partendo dalla descrizione di una music hall, allegoria dello “spettacolo” della vita moderna, sviluppa una riflessione atroce sulla “strana” bellezza e sul fascino di una civiltà in decomposizione. Seguendone le bizzarrie, si capirà presto che l’autore cerca piuttosto di liberare la propria anima dal complesso dramma del tempo, per offrire soluzioni ai tempi che verranno. Con uno stile visionario e surrealista, le feroci critiche alla modernità richiamano politicamente le parole dell’illustre predecessore Alexis de Tocqueville, senza dimenticare i contemporanei Bernanos e Céline.

Sogna di trasferirsi in America, di dedicarsi agli affari, sposarsi e avere un figlio, ma “Passando dai grandi eserciti d’Europa alla guerra brutale che l’americano incessantemente conduce contro la Natura, mi resi presto conto di non aver mutato di clima”.

Troviamo, inizialmente, gli elementi di una mitologia bellicosa che diventano la matrice della sua concezione dell’azione e della sua visione del mondo. Il divario tra questa mitologia eroica e l’esperienza della prima guerra industriale anonima, tuttavia, rivela una realtà in cui i soldati sono antieroi passivi, schiavi delle macchine, che si comportano come un gregge – come le masse nei regimi democratici. Sopraffatti dall’atroce esperienza della Grande Guerra, delusi dal lugubre immobilismo del vecchio mondo, che vedono ricadere nella routine delle abitudini borghesi, gli scrittori di quella generazione, cui Drieu La Rochelle non fa eccezione, sperano ancora di dare un senso a una modernità che fugge via in un perpetuo movimento di accelerazione verso il vuoto. La crisi spirituale scatenata dalla guerra lanciò il suo incantesimo sull’intera epoca che precedette lo scoppio dell’altro conflitto mondiale.

Nel mettere in discussione le fondamenta di tutto un mondo, il nostro autore coglie queste impressioni:

Mi sforzo di avvicinare, fino a toccarli con le dita, i caratteri della mia epoca. Li trovo abominevoli, e così dominanti che l’uomo infiacchito non potrà più sottrarsi alla fatalità che enunciano, e ben presto ne morirà.
Meccanizzazione, egualitarismo, sono i ragni che tessono la tela dei loro crudeli nomi tra le mie palpebre. Vedo un orizzonte fatto di sbarre di prigione. Il soffocamento dei desideri tramite la soddisfazione dei bisogni, questa è la polizia parsimoniosa, l’economia sordida che deriva dalle facilitazioni con cui ci opprimono le macchine e che l’avrà vinta sulle nostre razze. L’uomo ha del genio soltanto se ha vent’anni e se ha fame. Ma l’abbondanza delle drogherie uccide le passioni. Rimpinzata di conserve, nella bocca dell’uomo si crea una pessima chimica che corrompe i vocaboli. Niente più religioni, niente più arti, niente più linguaggi. Sconvolto, l’uomo non esprime più nulla.

Il XX secolo aveva reso obsolete non solo le vecchie forme di civiltà, ma l’ordine stesso uscito dai Trattati di Westfalia (1648), inaugurando un’era di imperi continentali che aveva diminuito il significato e la “sovranità” dello stato-nazione. Finché l’Europa fosse rimasta politicamente fratturata, avrebbe rischiato, quindi, non solo un’altra lotta fratricida, come nei fatti avvenne, ma il dominio delle potenze continentali del capitalismo americano e del comunismo sovietico, per non parlare di quelle degli imperi cinese e indiano, che irrompono all’inizio del XXI secolo.

La Francia, la Germania e le altre nazioni europee, in altre parole, avrebbero potuto sopravvivere all’era degli imperi continentali – con le loro economie di scala e la tirannia dei numeri – solo attraverso la federazione, che non significava tuttavia liquidazione nazionale. A differenza dell’attuale Unione, la federazione di Drieu La Rochelle non consisteva nel subordinare i popoli del continente al primato del libero mercato divinizzato. Influenzato nella sua giovinezza da nazionalisti come Charles Maurras e Jacques Bainville – che lo iniziarono al culto della Francia, che egli amava “come una bella donna che potrebbe incontrarsi per strada di notte” – allo stesso tempo vide che il nazionalismo aveva raggiunto un punto morto, sia in termini di rivalità autodistruttive che di limitazioni imposte allo spirito europeo. Tutti i nazionalismi che rendono la patria una fine piuttosto che un inizio stavano respingendo le stesse energie e creatività nate dalla patria stessa.

Dopo i contatti con il movimento surrealista, iniziò un forte avvicinamento ai socialisti, non vedendo altri mezzi per raggiungere i suoi desideri per la federazione europea. Tuttavia, il socialismo di Drieu La Rochelle aveva poco in comune con il marxismo – con il suo universalismo, il collettivismo e il materialismo paralizzante. Piuttosto, il suo era il socialismo che Spengler attribuiva ai prussiani: il socialismo organico e autoritario che subordinava l’economia alla nazione e perseguiva i fini sociali privilegiando lo sviluppo dello spirito e della vitalità.

Anche il fascismo, che abbracciò successivamente, non era in lui del tutto ortodosso. L’interesse era più esistenziale che politico. Piuttosto che il nazionalismo piccolo-borghese, anticomunista, fissato nello stato, lo attrasse l’istintiva opposizione all’ordine liberal-capitalista, l’enfasi su gioventù, salute, ribellione, azioni virili, e in particolare la volontà nietzschiana di vivere pericolosamente. Il “fascismo” in Drieu derivava, in definitiva, dall’identificazione con la volontà di superare la decadenza nata dall’età moderna e, nel farlo, di realizzare una comunità spirituale superiore.

A seguito della battaglia di Francia (maggio-giugno 1940), che confermò la sua scarsa opinione del regime parlamentare francese e la convinzione che l’esercito, nel subire la più grande débacle nella storia nazionale, riflettesse la natura sclerotica dell’ordine sociale borghese, La Rochelle tentò di sfruttare al meglio una situazione ostile, collaborando con l’occupante tedesco, nella speranza di creare in Francia un certo rispetto per la Germania nazional-socialista e, nel frattempo, di rendere il fascismo meno nazionalista e più europeo e socialista. Rassegnandosi al fatto che i francesi non erano riusciti a realizzare la propria rivoluzione, era propenso a pensare che questa dovesse essere imposta dall’esterno. Con questo spirito assunse la direzione della più prestigiosa rivista francese, la Nouvelle Revue française e si impegnò in varie attività per dare sostanza agli ideali collaborazionisti, per unificare l’Europa realizzando il tipo di rivoluzione che aveva rianimato la Germania dopo il 1933.

Ancora una volta sarebbe rimasto deluso. Sempre più alienato dagli occupanti e ossessionato dall’imminente destino dell’Europa, si rifiutò di rifugiarsi in Svizzera o altrove, una volta che la possibilità si presentò dopo il 1943. Sentiva che era una questione d’onore. La notte del 15 marzo 1945, mentre si nascondeva dal nuovo regime instaurato a Parigi, deglutì una fatale dose di veleno.

Drieu La Rochelle riconobbe che l’Europa era una specie di mito, la cui risonanza aveva ancora il potere di evocare quelle forze che avrebbero potuto sfidare la decadenza regnante. La sua visione della federazione, questa Europa dei patrioti, cercava di ravvivare lo spirito specifico di forme di vita uniche e incomparabili, non di dissolverlo in un mercato unico mondiale. Tuttavia, le sue parole non lasciano molte speranze:

Di tutte le civilizzazioni sotto i nostri occhi, non ci rimane oggi nient’altro che un’unica civilizzazione planetaria, tutta logora.

 

Gabriele Sabetta

Riscattare la sovranità per tornare alla Politica: una riflessione sui nostri Padri Costituenti

Lo stigma del pensiero dominante verso la sovranità è radicato nel neoliberismo, che ha generato un impoverimento materiale e identitario. Eppure, nonostante la censura, il sovranismo è oggi il sintomo del bisogno di una politica che si occupi del popolo, disorientato da una società sempre più instabile.

Forse per inveterata ignoranza, forse per ottuse convinzioni, forse – ancora – per quella piaggeria tutta nostrana di compiacere il pensiero dominante per nascondersi nella palude superba della maggioranza, quando parliamo di sovranità spesso affiorano alla mente accostamenti cabalistici a fenomeni considerati tra i più nefasti e negletti della storia: sovranità diventa così sinonimo di nazionalismo, di fanatismo, di sciovinismo, di fascismo e finanche di nazismo.

Sovranità e Costituzione italiana

E così, chi oggi è sorpreso “in odore di sovranità” non ce la fa proprio a restare incolume dinanzi all’etichetta solerte di maleducato o troglodita che da più parti si è pronti ad affibbiargli addosso. Dovrà imparare a conviverci, compatito e schernito come chi cercasse di telefonare in cabine a gettoni. La cosa è piuttosto curiosa se si pensa che non le Leggi fascistissime, non le Leggi di Norimberga hanno insistito su un uso specifico di questo termine, ma – tra gli altri – il primo articolo della nostra Costituzione, dove espressamente ci si riferisce alla “sovranità” stabilendo che essa appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.

A meno di non ritenere i nostri Padri Costituenti dei fascisti incalliti mascherati da democratici – il che fa piuttosto sorridere, parlando di uomini che avevano ben chiaro cosa fosse, e dove portasse, l’esiziale ideologia nazionalista; che avevano conosciuto il carcere, l’esilio o il confino; che stavano tentando di ricostruire una nazione dilaniata dalle macerie e dalla retorica bellica e che in alcuni casi, come per il PCI, facevano un vanto il loro essere “partito della nazione” – ecco, a meno che non vogliamo ostinarci a credere l’incredibile, occorre ammettere che la sovranità nazionale sa ritagliarsi degli spazi autonomi e originari rispetto alla (solo) possibile, e in ogni caso conseguente, degenerazione nazionalista che va a deformarne e snaturarne il senso.

Non serve essere degli storici per accorgersi che lo stigma verso la sovranità, più o meno condiviso, è cosa tutto sommato recente: è da una ventina di anni circa che è iniziata la sua condanna come male da estirpare per giungere a una vita finalmente felice e spensierata (soprattutto spensierata, da intendere qui come “senza la fatica di pensare”). Un Aldo Moro, un Giulio Andreotti, un Bettino Craxi e anche un Enrico Berlinguer non avrebbero fatto alcuna fatica a riconoscere in questo principio le basi della nostra democrazia.

Basti pensare al caso emblematico di Sigonella che vide protagonista l’allora presidente Craxi, quando proprio in nome dell’interesse nazionale, e della sovranità che di esso è garante, si è difesa la dignità e la libertà di un popolo nella sua integrità. D’altronde, l’alternativa alla sovranità è l’anarchia, che da sempre equivale alla legge del più forte: non esattamente una prospettiva rassicurante.

Sovranità e Europa

Se, allora, il fenomeno è incompreso dal punto di vista storico e recente dal punto di vista cronologico, vale la pena chiedersi perché sia accaduto. Per quale motivo, cioè, negli ultimi anni la condanna della sovranità è divenuta così unanime e condivisa? La retorica della costruzione della casa comune europea – dove vengono limitate le sovranità particolari a vantaggio di un’unione politica (ancora tutta da fare, per la verità) – è un accenno di risposta. Accenno che, come tale, è insufficiente a fornire una risposta esaustiva, anche perché in questo caso non è condannata la sovranità in quanto tale, che invece verrebbe solo traslata da un perimetro nazionale a uno sovranazionale.

E allora, perché questa riprovazione della sovranità così repentina e condivisa?
La risposta chiama in causa il Potere, per dirla col grande Pasolini, e per coglierla nella sua articolazione sono forse utili le pagine dell’ultimo lavoro del politologo Carlo Galli, intitolato per l’appunto “Sovranità”.

È stata la forma economica dominante, cioè il neoliberismo, ad aver dato un colpo ferocissimo al concetto e alla pratica della sovranità. L’economia neoliberista – che trionfalmente si è affermata con la globalizzazione, dapprima in Gran Bretagna con la signora Thatcher e poi negli Stati Uniti con Reagan – tende infatti a proporsi come autonoma, capace di darsi legittimità da sé e quindi come essa stessa sovrana.

Si tratta di una sovranità che non richiede l’unità politica ma l’unità del mercato, nel quale agisce una pluralità di soggetti in grado di calcolare razionalmente il proprio utile. Anche nelle sue varianti non estremistiche, il neoliberismo considera lo Stato come un soggetto non sovrano, dotato del potere di “regolare” il mercato ma non di esprimere e decidere in ultima istanza le sorti di un gruppo storico e geografico di uomini e donne: ciò perché questa decisione in realtà è già avvenuta, ed è appunto la decisione del mercato, il quale contesta e travolge la capacità della sovranità di porgli argini e confini, di delimitare un dentro e un fuori, di costituire l’asse attorno a cui ruota la politica. Non a caso l’economia, oggi più che mai, esige piena libertà di movimento, di uomini, merci e capitali, e pretende che questa libertà dell’utilità sia l’ultima parola della vita associata, il nec plus ultra dell’umanità.

Globalizzazione

Contro questa nuova mondiale sovranità, priva di forma e di limiti, quella vecchia e locale non sembra avere scampo, se non altro perché la nuova viene presentata al singolo non come compressione dei suoi diritti ma come occasione per esaltare le sue capacità e i suoi desideri. L’obiettivo del neoliberismo è sostituire il privato al pubblico: la globalizzazione – ha scritto Zygmunt Bauman“ha globalizzato il vero potere scavalcando la politica”.

In quest’ottica molto complessa occorre allora gettare nuova luce anche sull’invocazione della sovranità a cui si assiste oggi in Europa e negli Stati Uniti. Al netto delle considerazioni semplicistiche e al contempo veementi con cui spesso si è soliti liquidare i cosiddetti “sovranismi” e “populismi” – la solerzia della lotta contro di essi dovrebbe far riflettere, se non altro perché condotta in modo unitario da forze che prima si dichiaravano avversarie – questi fenomeni andrebbero letti con più umile accuratezza e meno sbrigativa saccenza.

Lungi dall’essere soltanto il segnale di becere forme di ignoranza (ingrediente che esiste, evidentemente, ovunque) essi rappresentano piuttosto il tentativo di recuperare la distinzione tra esterno e interno, fra pubblico e privato, nello sforzo di perseguire una nuova protezione riducendo l’insicurezza generata dalle potenze che si abbattono sulle società occidentali. Tali potenze generano impoverimento materiale e identitario, facendo precipitare in uno stato di paura permanente, quando non in una vera e propria angoscia, soprattutto alla luce della velocità con la quale innescano certi vorticosi meccanismi.

Si tratta di potenze economiche, i mercati, che i loro magnificatori definiscono inesorabili e onnipotenti (“con i mercati non si tratta”, è il moderno ritornello in voga), senza capire che è proprio tale pretesa ciò che genera la lotta di larghe fasce popolari contro i mercati stessi. La richiesta di sovranità politica è, dunque, la ribellione all’idea che ci si debba sottomettere a un’autorità trascendente, è il sintomo di una sofferenza psicologica ed economica causata da una società instabile, in continuo movimento; è il ritorno alla funzione protettiva, che è poi la prima prestazione della sovranità.

Come si può vedere, la ricerca della sovranità è una forte istanza politica e quindi è errato associarla al qualunquismo o all’antipolitica. Essa è piuttosto una volontà di ritorno della politica e delle sue tutele, soprattutto a fronte di un’economia che si è fatta onnipotente e minacciosa. Né si può sostenere che la sovranità sia ontologicamente solo “di destra”: è vero che attualmente la richiesta di sovranità viene intercettata soprattutto dalla destra, ma ciò accade sostanzialmente per responsabilità storiche della sinistra, la quale non ha intravisto la natura a-sociale del liberismo che ha invece a suo tempo assecondato.

La soluzione? È una domanda a dir poco complessa. Quello che è certo è che il sovranismo aiuta ad indicare chiaramente il problema ma non intercetta immediatamente le soluzioni. Almeno coscientemente. Non le intercetta ma, nelle sue forme meno becere e più nobili, le evoca in chi vuole leggerle. E lo fa esprimendo proprio un ritorno alla Politica nel senso vero e proprio del termine. Il sovranismo è la richiesta di una politica che non sia soltanto il calcolo del Pil o dei decimali di sforamento del rapporto con l’Unione Europea, di una politica che sia finalmente un agire e non un lasciarsi agire, che sia un movimento e non un impaludamento.

È forse allora tutta qui, la soluzione: tornare a una politica che sia un servizio agli uomini e alle donne, e non ai meri mercati. Una politica che – in una cooperazione internazionale sostanziale e condivisa – si serva della sovranità come elemento per sostenere la difesa e la rinascita dal basso dei corpi intermedi, vera ricchezza della società europea (e italiana in particolare) che ha permesso la ricostruzione di un tessuto sociale e connettivo dei nostri popoli più volte uscito devastato dai drammatici avvenimenti della storia contemporanea. Quei corpi intermedi, come affermò La Pira in sede Costituente, “nei quali la persona si integra e si espande”. Cioè si realizza e si compie.

Fuori da questa rinnovata centralità della persona c’è il nulla, dentro cui tutto si perde. Eccolo allora in agguato il bivio di sempre: o la persona o il nulla. Tertium non datur. A ognuno la scelta.

 

Francesco Carillo

‘Freakshow’, il romanzo fantasy di Pee Gee Daniel

Freakshow (Kipple Officina Libraria, 2016) è un romanzo di fantascienza di Pee Gee Daniel (nome d’arte di Pierluigi Straneo), già autore di altre opere tra le quali Lo scommettitore (2014) e Ingrid e Riccione (2014). Freakshow ha vinto nel 2016 il premio Kipple, assegnato ogni anno al miglior libro che rientra tra i generi: horror, fantascienza, narrativa di anticipazione e neo-noir. Il romanzo è ambientato sul satellite Europa in un tempo futuro ai nostri giorni, seguendo le disavventure del circo Korallo e delle sue deformi attrazioni, freaks di ogni sorta che per necessità hanno deciso di unirsi a quella male assortita congrega di mostri reietti dalla società.

Le gemelle siamesi, la donna barbuta, il nano, i pinhead, la donna cannone e il ragazzo senza gambe sono solo alcune delle attrazioni di questo circo degli orrori che di città in città non manca mai si suscitare reazioni contrastanti nei suoi spettatori, a metà strada tra l’attrazione e la repulsione, così come non si può evitare di scostare lo sguardo dal luogo di un incidente nonostante si sappia già quale orrida immagine si presenterà davanti ai nostri occhi. I freaks di Korallo a poco a poco, emarginati sin dalla nascita, cominciano a desiderare qualcosa di più che venire sfruttati come carne da macello per un misero piatto caldo la sera, così abboccano facilmente alla favola del fantomatico Uincio Uancio, salvatore di tutti i freaks del mondo. L’idea di questo Messia dei mostri rimane una mera leggenda fino a quando ad uno ad uno tutti i freaks del circo Korallo scompaiono in circostanze misteriose…

Freakshow: una scrittura ricercata per raccontare la mostruosità

Freakshow si presenta come il ritratto crudo e ironico delle peggiori mostruosità del mondo, trattando il tema della diversità come forma, molto spesso, di esclusione dalla società. Il mondo presentato da Pee Gee Daniels è un tempo futuro ma ha a tratti toni ottocenteschi, periodo in cui in Europa prende piede la moda della mostra di queste rarità biologiche. Anche il modo in cui i cittadini guardano con diffidenza i freaks somiglia molto a come un tempo la deformità fosse associata al demonio, legando l’idea del ‘diverso’ a quella di ‘malvagio’. Il romanzo sembra diviso in tre parti: l’inizio in cui vengono presentati i vari freaks tramite dei ritratti descrittivi, la seconda parte dove inizia la narrazione delle disavventure del circo, la terza che si tinge di giallo fino allo svelamento del mistero di Uincio Uancio. Purtroppo l’azione troppo spesso viene interrotta da digressioni eccessivamente descrittive, che danno sì l’idea della grande opera di ricerca che l’autore ha fatto prima della stesura del libro, ma che purtroppo rendono lenta la prosecuzione cronologica degli eventi più importanti. Forse una maggiore attenzione alla trama ‘tragicomica’ delle disgrazie del circo Korallo e dei suoi misteri avrebbe reso la lettura molto più scorrevole. Il linguaggio usato dall’autore è ricercato e di grande impatto, mostrandosi crudo e violento, e di certo centra l’obiettivo di attrarre e disgustare il lettore, esattamente come farebbero i freaks.

La lunga strada verso una vera Europa

In attesa di capire esattamente le posizioni che prenderà in politica estera ed economica la nuova amministrazione USA guidata da Donald Trump, l’Europa si ritrova a fare i conti con sé stessa e con una unione sempre più fragile dopo la Brexit, le minacce di veto italiano sul bilancio e la crescita esponenziale delle forze populiste in molti Paesi.

Di fatti questa situazione di incertezza espone le economie più fragili dell’Unione a speculazioni che possono assumere dimensioni molto significative e, se a questo si somma la minaccia di un ridimensionamento del materno abbraccio americano sulla vecchia Europa, possiamo pensare che ci apprestiamo a vivere un futuro complicato. Una situazione inedita per molti Paesi che si ritrovano, così, a dover prendere delle decisioni in autonomia che determineranno il futuro di tutti.

L’unica via percorribile è puntare tutto sull’Europa, rilanciando l’idea, già presente nel Manifesto di Ventotene, di una Europa unita e federale che superi di fatto il principio dello Stato Nazione. In altre parole costituire gli Stati Uniti d’Europa. Il primo argine a questo processo è rappresentato dalle attuali e poco credibili leadership europee che, dimostratesi eccessivamente legate alla finanza, non sembrano essere in grado  di prendere una decisione che esporrebbe molte cancellerie all’ipotesi, tutt’altro che remota, di derive populiste.

Eppure la fusione delle economie europee in un unico soggetto è l’unico modo per poter contare qualcosa su uno scacchiere internazionale strutturato in quattro blocchi: Usa, Russia, Cina ed economie emergenti che, diversamente, potranno soffocare a piacimento il vecchio continente toccando le fragilità strutturali di ogni singolo Stato.

Si provi solo ad immaginare dal punto di vista finanziario cosa possa significare la cancellazione dei singoli debiti pubblici, con la conseguente scomparsa di azioni speculative dei signori della finanza, e la creazione di un unico eurobond capace di dare garanzie senza precedenti.

Pensiamo a cosa vorrebbe dire una forma di diritto comune con regole uguali per gli europei e una Costituzione condivisa che consenta di eleggere il presidente degli Stati Uniti d’Europa con partiti sovranazionali, in grado di riscrivere le attuali strutturazioni ideologiche, e capaci di raccogliere al proprio interno cittadini che possono essere, finalmente, protagonisti reali nelle decisioni che li riguardano.

Un parlamento, un esercito, una moneta e una Costituzione unica per guardare con più serenità al futuro e poter contare fattivamente qualcosa nelle decisioni chiave che il mondo dovrà prendere da qui in avanti perché ci sono emergenze, vedi il clima, che non possono essere più procrastinate.

In una logica federale ogni singolo Stato potrà svolgere alcune funzioni di coordinamento e di politica economica, ma il cuore delle decisioni dovrà essere altrove in un vero parlamento politico capace di dettare la linea a quella che potenzialmente può rappresentare la prima economia al mondo.

Bisogna osare perché l’alternativa a tutto questo si chiama populismo e la storia ci ha insegnato che non porta a nulla di buono.

‘L’americano’: la decadente Europa di Henry James

La giornata era afosa ed egli, accaldato per il gran camminare , si passava ripetutamente il fazzoletto sulla fronte, con un gesto che denotava una certa stanchezza. Non aveva però l’aria di un uomo cui la fatica fosse familiare: lungo e snello, ma muscoloso, egli dava l’idea di possedere quella sorta di vigore che è comunemente conosciuta come <<saldezza fisica>>. (L’americano, cap I)

Un uomo che si scontra con un’intera cultura; volendo sintetizzarlo al massimo sarebbe questo il contenuto del libro dell’indagatore dell’animo umano Henry James (New York, 15 aprile 1843- Londra, 28 febbraio 1916), “L’americano” del 1877. Avvincente, romantico, un po’ troppo melodrammatico, costruito dettagliatamente intorno alla psicologia dei personaggi e al contrasto tra vecchio e nuovo, L’americano suggestiona e appassiona il lettore anche per l’accurata riproduzione delle atmosfere ottocentesche.

L’americano in questione, l’indimenticabile protagonista del romanzo, è Christopher Newman, quarantenne di bell’aspetto, simpatico, brillante, buono, molto facoltoso grazie alle sue attività nel commercio, va in Europa deciso a migliorare la propria cultura e a trovare “la migliore delle donne” che diventerà sua moglie. Si innamora, ricambiato, della bellissima, intelligente, colta, dolce e naturalmente appartenente all’antica nobiltà, Claire, o come spesso è chiamata nel romanzo, Madame De Cintrè,  rimasta vedova a soli 25 anni, dopo un matrimonio non felice con un  uomo aristocratico molto più anziano di lei, scelto dalla sua famiglia, ovviamente per convenzione e convenienza.

La madre e il fratello di Claire si oppongono con tutte le loro forza a questa unione, in quando vedono in Newman solo un volgare uomo arricchito con il commercio, non degno di entrare a far parte della loro prestigiosa famiglia, alla quale però fanno gola le ingenti finanze dello “straniero” ma non apprezzano il modo con cui le ha ottenute. Nonostante i parenti di Claire, appartenenti alla corrotta e decadente nobiltà, abbiano un gran bisogno del patrimonio di Newman, muovono guerra all’uomo e convincono la giovane donna a rinunciare a lui.

Ma il caso vuole che Newman entri in possesso di un importantissimo documento contenente un segreto che potrebbe distruggere la vita dei parenti di Claire; l’uomo potrebbe usarlo senza alcuno scrupolo per vendicarsi dei numerosi torti, affronti ed umiliazioni subite, ma non lo fa, mentre la donna, distrutta dal dolore, decide di farsi monaca camerlitana.

Potrebbe sembrare che Claire non abbia carattere e che in fondo non sia poi cosi intelligente ma  in realtà non ha paura di ribellarsi alla madre quanto di veder cambiata la sua sorte; tra i personaggi che spiccano nel romanzo, a parte il protagonista, vi è Valentin de Bellegarde nel quale confluiscono molti dei sintomi del male di inizio Novecento. Il finale de L’americano potrebbe suscitare rabbia, sorpresa, perfino delusione ma risiede proprio qui la diversità rispetto agli altri romanzi di James: Newman è un uomo buono,sicuro di sè, idealista, disincantato, a tratti ingenuo, puro d’animo anche se non dotato di un gran gusto per quanto riguarda soprattutto l’arte, ma è capace di scatti d’impeto, di momenti di tristezza e smarrimento di fronte alla meschinità dell’aristocrazia parigina.

Anche nel successivo “Gli europei” James  si occupa degli usi e dei costumi europei, facendo luce sulla diversità di comportamenti tra vecchio e nuovo mondo. Come ne “Gli europei” anche ne “L’americano” che regala pagine indimenticabili e di estrema eleganza ( i pensieri d’amore di Newman su Claire, i dialoghi con lei e con de Bellegarde), emerge un paradosso: proprio i pragmatici americani, accusati da sempre di non avere una storia, a differenza degli europei che sono più critici e raffinati, sono legati alle tradizioni e alla morale, nonostante lo siano anche ai beni materiali.

Probabilmente “L’americano” non sarà il capolavoro di Henry James (in primis per la poca verosomiglianza di alcuni fatti), a differenza del delicato “Ritratto di signora” o dell’intricat “La coppa d’oro”, ma ha il grande pregio dell’accessibilità e di porre in maniera semplice il “tema internazionale”, ovvero lo studio psicologico di un suo compatriota a conttato con un’altra civiltà priva di riferimenti morali. Sbaglia, tuttavia, chi pensa che James abbia voluto attuare un’operazione ben studiata per celebrare la sua America, ritraendo impietosamente l’Europa. lo scrittore americano non ha risparmiato critiche nemmeno al suo Paese  e ha sostenuto che per ogni intellettule che si rispetti è indispensabile fare tappa in Europa.

La  stessa descrizione che James fa  di Christopher Newman rivela una sottile satira per quest’uomo cosi dinamico ma approssimativo nei modi e nell’educazione. Non è perfetto ma certamente, secondo il suo autore, è migliore dei Bellegarde. James pone anche la sua attenzione alla questione artistica attraverso il personaggio della svagata, dilettante artista Mademoiselle Nioche.  Interesse da parte del grande scrittore americano testimoniato da questa sua frase:

“È l’arte che fa la vita, fa l’interesse, fa l’importanza […] e non conosco alcun sostituto alla forza e alla bellezza del suo processo”.

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