La guerra commerciale-digitale tra Pechino e Washington: Huawei fuori dalla partnership con Google

Non c’è tregua, la guerra commerciale tra Washington e Pechino è inarrestabile. Così anche Huawei è finita nella lista nera statunitense: il colosso cinese, con le sue settanta affiliate, rappresenterebbe infatti un rischio per la sicurezza nazionale degli Usa.

Una sorta di azienda canaglia dietro cui si potrebbero nascondere, a detta della Casa Bianca, attività di spionaggio del governo cinese – tuttavia sempre negate da Huawei. Ed è quindi per difendere la gloriosa bandiera a stelle e strisce che l’intrepido Donald Trump ha firmato un ordine esecutivo per vietare alle aziende statunitensi di acquistare prodotti dalle aziende canaglia – tra cui figura Huawei –, colpevoli di attentare alla sicurezza nazionale Usa. È questo, secondo il portavoce del ministero del Commercio cinese Gao Feng, un abuso del concetto di sicurezza nazionale, piegato a fini propagandistici per promuovere il protezionismo commerciale.

Con questa drastica decisione – per la cui operatività occorrerà tuttavia attendere almeno 120 giorni –, Huawei si vedrà impossibilitata a comprare tecnologie di aziende americane senza autorizzazione governativa.

Questo è però solo l’ultimo passo nella messa all’indice dell’azienda cinese da parte degli Stati Uniti: già vi era stato infatti il bando di Huawei per quanto riguarda la realizzazione del 5G sul suolo americano. Poi la Casa Bianca aveva invitato anche gli altri Paesi alla proscrizione di Huawei, ma con scarsi risultati: solo Giappone, Nuova Zelanda, Australia e Taiwan hanno seguito l’esempio statunitense, mentre Canada, Norvegia, Svezia, Polonia, Repubblica Ceca, India e Vietnam sono ancora in fase decisionale.

I paesi europei – ad esclusione di quelli già citati – hanno invece preso, più o meno nettamente, le distanze dall’invito di Donald Trump. Per essi Huawei è un operatore di primo piano nei test per il 5G e nelle tecnologie precedenti ed è ormai consolidato il rapporto con gli operatori, convinti che bandire l’azienda cinese comporterebbe dannosi ritardi ed esborsi.

Ma se i Paesi europei hanno disatteso le speranze di Trump, a rispondere prontamente all’appello ci ha pensato Google, con un’azione che andrà a coinvolgere inevitabilmente anche il mercato europeo. Come riportato da Reuters, Google ha infatti deciso di interrompere ogni rapporto commerciale con l’azienda cinese: un’azione forte e dall’enorme portata, a cui si sono adeguate anche le aziende statunitensi produttrici di chip e microchip, come Intel, Qualcomm, Xilinx e Broadcom, che hanno tagliato le forniture destinate al colosso tecnologico cinese.

Un terremoto pronto a sconvolgere gli equilibri all’interno del mercato degli smartphone: tagliata fuori dalla partnership con Google, Huawei si troverà presto a doverne affrontare le difficoltose conseguenze. I suoi device già in commercio, come sappiamo da Il Sole 24 Ore, non riceveranno più gli aggiornamenti di Android e delle app di Google e diventeranno col tempo dispositivi dai software obsoleti, meno performanti e più esposti a rischi.

Ancor peggiore la situazione per gli smartphone non ancora in commercio, per i quali Huawei non avrà più alcuna licenza e sui quali potrebbe installare solo la versione open source di Android, quindi priva del pacchetto delle Google Apps: Huawei risulterebbe così degradata ad un trattamento simile a quello dei marchi minori, con probabili conseguenze negative sul suo prestigio agli occhi dei consumatori.

Come risposta alle crescenti pressioni esercitate dagli Usa, il colosso cinese sta già da tempo lavorando alla creazione di un proprio sistema operativo; non si può escludere che questo possa essere pronto a rimpiazzare efficacemente Android, di fatto riducendo i danni apportati dalla fine della partnership con Google. A Shenzen, inoltre, si iniziano già a produrre chip e conduttori per evitarne l’importazione dagli Usa.

Se dunque la mossa di Google va a minare l’espansione di Huawei al di fuori dei confini cinesi, il colosso di Shenzen non rimane a guardare: quella tra Washington e Pechino è ormai una guerra digitale, economica e geopolitica in continua evoluzione, sempre sul filo dell’alta tensione.

 

Alessandra Vio

‘La svastica sul sole’: il romanzo ucronico di Philip K. Dick

La svastica sul sole (L’uomo nell’alto castello) è un classico di un genere di nicchia: il celebre romanzo ucronico, o fantastorico di Philip K. Dick, il quale immagina come sarebbe il mondo se l’Asse avesse vinto la seconda guerra mondiale, con gli USA divisi in sfere d’influenza tedesca (costa atlantica) e giapponese (costa pacifica) e una zona centrale più autonoma ma politicamente ininfluente denominata “Stati delle Montagne Rocciose”, la Russia ridotta ad un’area ancor più marginale e subalterna, devastata dalle deportazioni naziste e sfruttata per la manodopera a basso costo, un’Asia (Cina, India, Indocina) e un’Oceania dominate dal Sol Levante.

La Svastica sul sole: trama

Sul resto del mondo incombe una realtà da incubo: il credo della superiorità razziale ariana è dilagato a tal punto da togliere ogni volontà o possibilità di riscatto. L’Africa è ridotta a un deserto, vittima di una soluzione radicale di sterminio, mentre in Europa l’Italia ha preso le briciole e i Nazisti dalle loro rampe di lancio si preparano a inviare razzi su Marte e bombe atomiche sul Giappone. Sulla costa occidentale degli Stati Uniti i Giapponesi sono ossessionati dagli oggetti del folklore e della cultura americana, mentre gli sconfitti sono protagonisti di piccoli e grandi eventi. E l’intera situazione è orchestrata da due libri: il millenario I Ching, l’oracolo della saggezza cinese, e il best-seller
del momento, vietato in tutti i paesi del Reich, un testo secondo il quale l’Asse sarebbe stato sconfitto dagli Alleati.

Pubblicato nel 1962 dalla Putnam, il libro approdò nello stesso anno al Science Fiction Book Club e fu premiato l’anno successivo con il premio Hugo. Sebbene con maggiore umiltà rispetto ad alcuni contemporanei più fortunati come Vonnegut, anche Dick si colloca pienamente nell’area del postmoderno, approfondendo un discorso che non riguarda solo il rapporto ambiguo che si istituisce tra la realtà e l’illusione, ma ancora di più la relazione che intercorre tra la realtà e quel sistema codificato di menzogne che è una qualunque forma di comunicazione, in primis l’arte, ovvero la scrittura, nel momento in cui la verità diviene processo immaginativo, la cronaca ricostruzione fantastica, il Verbo divino un sistema di segni arbitrari, sempre e comunque soggettivamente interpretabili. Dick è sempre consapevole di essere parte e testimone del fenomeno di disintegrazione delle categoria conoscitive del reale di fronte all’avanzate degli strumenti della comunicazione di massa, sia come individuo che come scrittore.

Nella Svastica sul sole Dick trasferisce tutta la sua carica di scrittore sovversivo, sviluppando un modo di narrare in cui lo spazio caotico della realtà, che parte dall’autobiografia dello scrittore e si allarga ad abbracciare una serie di eventi storici dalle proporzioni immense; ne viene fuori un romanzo fantascientifico anomalo che non si risolve in un banale gioco di oziose fantasticherie pseudo-storiche. L’atto di fede compiuto da Dick riguarda il potere della scrittura che trasforma in una favola terribile, avvalendosi di un linguaggio lucido e tagliente , i processi e le mitologie attraverso cui si è istituita l’identità contemporanea americana. Infatti l’autore mette alla prova una serie di ricostruzioni storiche degli Stati Uniti legate alle vicende della seconda guerra mondiale che vanno dall’aggressione a Pearl Harbor del 1941 all’intervento alleato in Europa, con lo sbarco in Normandia fino al periodo post-bellico del confronto con l’Unione Sovietica, e le rovescia come un calzino. Adesso è la fiera America ad essere sottomessa a due nemici in disaccordo tra di loro: la Germania hitleriana e il Giappone imperiale.

Stile, linguaggio e l’arte come metafora

Con un procedimento terapeutico per cui il passaggio attraverso la follia della Storia è condizione ineludibile per recuperare una sanità sconvolgente, il lettore della Svastica sul sole, scopre non quello che già conosce, ma che l’America degli anni sessanta è inquinata dalla violenza, dall’autoritarismo e dall’ipocrisia delle istituzioni.

Dick non offre al lettore un’interpretazione celebrativa e conformista della realtà: l’artista può tranquillamente trasformarsi in una ridicola pedina del potere costituito, come accade al giovane tedesco Lotze in viaggio per San Francisco, pomposo sostenitore di un ‘arte spirituale che dovrebbe sconfiggere ogni traccia di materialismo, per mettersi al servizio degli ideale nazisti, con una forma di falsificazione ancora peggiore di quella attuata dai trafficanti americani di reliquie. L’unica risposta a tale infamia è quella che Dick fa pronunciare a Baynes, maestro di travestimenti che recita la parte del neutrale scandinavo, pur di rifiutare ogni affinità con la razza eletta, cui pure appartiene e che, di fronte all’antisemitismo di Lotze, si proclama ebreo, rivendicando simbolicamente la sua appartenenza a quell’universo alternativo che fa capolino tra le pagine di Abendsen, La cavalletta non si alzerà più (in cui il mondo immaginario è quello reale, dove gli sconfitti sono Germania e Giappone). In questo caso la menzogna fi Baynes acquista una sostanza etica è che la stessa di un genuino prodotto estetico.

L’America di Dick

Nell’America germanizzata di Dick la persecuzione antisemita avviene alla luce del sole anche se viene ostacolata dall’atteggiamento tollerante dei giapponesi. Nazismo storico e nazismo immaginario possono differire per alcuni dettagli ma la ferocia dell’Olocausto resta la stessa, a scanso di equivoci e di chi magari pensa che lo scrittore sia negazionista.

La grandezza di Dick sta proprio nel suo modo di utilizzare l’idea base del romanzo. Non ha l’ambizione di dare al lettore un quadro onnicomprensivo di un mondo ucronico dominato dai nazisti e dai loro alleati giapponesi. Nelle pagine iniziali viene rovesciato in modo geniale, lo stereotipo del turista americano, forte del suo dollaro, ma ignorante, che visita paesi stranieri acquistando souvenir e oggetti d’arte che spesso sono volgari patacche, Nella Svastica sul sole sono i giapponesi a collezionare oggetti americani per i quali, guarda caso, è nata un’industria del falso. Non si tratta solo di un appunto sarcastico, ma di una questione di identità culturale, ed è proprio riscoprendola che uno dei protagonisti, il mercante d’arte Robert Childan ritrova dignità umana e speranza di riscatto:

[…] L’ammiraglio è un collezionista? chiese Childan, con la mente che lavorava a tutta velocità.
Da un amante delle opere d’arte. E’ intenditore ma non è un collezionista. Ciò che desidera è acquistare qualcosa per fare un dono: vuole donare a ciascuno degli ufficiali della sua nave un prezioso cimelio storico, una pistola dell’epica guerra Civile americana. E L’uomo fece una pausa. In tutto ci sono dodici ufficiali. Dodici pistole della guerra civile, pensò Childan. Prezzo al cliente: quasi diecimila dollari. Fu scosso da un tremito. E’ risaputo, continuò l’uomo, che il suo negozio vende questi inestimabili oggetti d’arte della storia americana. Oggetti che, ahimè, scompaiono troppo rapidamente nel limbo del tempo.

L’autore si fa influenzare dal suo amore per la cultura orientale e al contempo dalla sua repulsione per il Nazismo, dando un’immagine dei giapponesi che contrasta con tutta la politica bellica del Giappone a partire dagli anni trenta e in particolare con il trattamento riservato ai cinesi durante l’occupazione, distinguendo però il militarismo nipponico dal nazismo, senza trascurare i rapporti tra l’America e L’Unione Sovietica in riferimento alla Germania nazista.

 

Fonte: prefazione al romanzo a cura di C. Pagetti, La svastica sul sole, Fanucci narrativa

Gerusalemme e il sionismo: una lettura geopolitica, teologica e geografia

Rileggere lo scontro in Palestina e più in generale nel Vicino e Medio Oriente attraverso le lenti della geopolitica e della geografia è l’unico sistema per sganciarlo da una narrazione pre-costruita ad uso e consumo dell’Occidente. Il giurista tedesco Carl Schmitt nel suo studio sul concetto di politico affermò che tutti i concetti più pregnanti della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati poiché sono passati alla dottrina dello Stato dalla teologia. Secondo il prof. Claudio Mutti la stessa geopolitica, pur essendo una scienza del tutto profana, non è estranea a questa dinamica evolutiva. E, di fatto, esiste una segreta influenza, per lo più sconosciuta o ignorata dagli odierni analisti geopolitici e geo-economici, esercitata dalle scienze tradizionali sull’immaginario collettivo. Esiste dunque un profondo impatto residuale degli archetipi della geografia sacra sedimentato nell’immaginario collettivo che determina la struttura stessa del pensiero geopolitico. La geopolitica ha dunque una discendenza diretta dalla geografia sacra. E questa relazione si esprime in modo determinante e visibile a tutti in primo luogo nella contesa attorno ai centri spirituali. Gerusalemme, e più in generale l’intera Palestina, rappresentano la più evidente dimostrazione di questa relazione segreta ed ignorata tra geopolitica e geografia sacra. La Palestina, inoltre, è terreno di scontro tra due visioni antitetiche del mondo che si esprimono in una delle dicotomie classiche del pensiero geopolitico: la dicotomia Occidente/Oriente. Il padre della geopolitica, il geografo svedese Rudolf Kjellen, descriveva questa dicotomia come opposizione tra una visione del mondo (quella occidentale) tutta votata all’idea del progresso senza limiti, ed una visione del mondo “orientale” indirizzata verso il rispetto della tradizione ed uno stile di vita votato alla contemplazione. Un’idea che non si scosta da quella prettamente guenoniana che vedeva il prevalere nell’Occidente di un sistema filosofico e di una cosmovisione assolutamente materialista (soprattutto a seguito della Riforma protestante, del trionfo del mercantilismo, dell’individualismo e la riduzione della religione alla sola sfera della morale) e nell’Oriente il prevalere di una visione in cui ordine fisico e metafisico rimangono strettamente interconnessi. Scriveva Renè Guènon: l’Occidente cambia mentre l’Oriente permane nella sua immutabilità.

Non si può, inoltre, non considerare il fatto che in molte tradizioni culturali prettamente eurasiatiche l’Occidente (landa della sera e terra dell’occaso) veniva percepito come un luogo di perdizione, una terra dei morti dalla quale non vi fosse via d’uscita per i semplici mortali. Da qui deriva l’idea heideggeriana che il processo di occidentalizzazione del mondo intero vada di pari passo con il processo di de-potenziamento dello spirito e delle verità religiose tradizionali. Lo Shaykh al-Ishraq Sohrawardi parlava espressamente della condizione di “esilio occidentale” (un mondo delle tenebre dominato dal male a causa dell’assenza, del distacco e della lontananza da Dio) dalla quale l’uomo deve fuggire per raggiungere l’Oriente delle luci e dunque la sua completa realizzazione spirituale. Non è un caso se il grande iranista Henry Corbin ha parlato di evidenti corrispondenze tra la teosofia islamica e l’analitica heideggeriana.

Ora, Gerusalemme, non solo è il centro spirituale per eccellenza delle tre principali religioni monoteistiche, ma è anche un “centro del mondo”, un axis mundi (punto di congiunzione tra cielo e terra). A Gerusalemme il viaggio notturno del Profeta ha assunto la direttrice dell’esaltazione. E il tempio di Salomone, costruito sul monte Sion e distrutto da Nabucodonosor nel 595 a.C., era la residenza di Jahvè tra gli israeliti. Dunque, oltre alla chiave di lettura dicotomica classica oppressi/oppressori, tanto cara all’Imam Khomeini così come ad Ali Shariati, la lotta in Palestina e per Gerusalemme può essere interpretata anche nei termini di resistenza e opposizione alla volontà “occidentale” di appropriazione e possesso di questo centro a cui seguirebbe la sua totale desacralizzazione.
Un processo visibile anche ad occhio nudo se si considera l’oscenità post-moderna degli insediamenti sionisti cementificati e costruiti ad alveare che hanno distrutto il panorama storico di Gerusalemme. Un processo iniziato nel 1967 con la conquista della parte Est della città quando i sionisti, in totale spregio di secoli di storia, buttarono giù un intero quartiere della vecchia Gerusalemme per costruire uno spiazzo di fronte al Muro occidentale. Una lezione anti-storica fatta propria dagli attuali alleati wahhabiti capaci di distruggere il centro storico di Awamiyah nella regione a maggioranza sciita di al-Qatif con la pretesa di “riqualificazione dell’area e caccia a presunti terroristi”.

Una vera e propria usurpazione se consideriamo che il Muro occidentale è un luogo sacro tanto agli ebrei quanto ai musulmani. Nelle sue prossimità si ritiene che il cavallo del Profeta, Buraq, avesse la stalla nel momento in cui Egli compì il Mi’raj. Per secoli ebrei e musulmani hanno pregato insieme in questo luogo senza alcun problema particolare. E solo negli anni Venti con il crescere dell’arroganza sionista hanno iniziato a verificarsi i primi scontri. Questo terreno era di proprietà di una fondazione religiosa islamica appartenente ad una nobile famiglia palestinese. Il Gran Muftì Hajj Amin al-Husseini fece pervenire all’amministrazione mandataria britannica una tale quantità di documenti che provavano tale diritto che questa nei cosiddetti White Papers non poté far altro che riconoscere la proprietà del luogo alla comunità islamica. É dunque abbastanza chiaro che ad oggi lo scontro in Palestina sia un prodotto di questa concezione dicotomica del mondo e che possa essere oggetto di uno studio approfondito per la cosiddetta “geopolitica delle religioni”.

Il sionismo ha sì un’origine “occidentale” ma non è affatto un movimento laico nei suoi obiettivi. Il padre fondatore del sionismo moderno Theodor Herzl disegnò i confini del futuro Stato di Israele sulla base di quanto riportato nel libro della Genesi: ovvero, dal fiume d’Egitto – il Nilo – al grande fiume, l’Eufrate. Non solo. Nella sua opera Lo Stato ebraico (opera dallo scarsissimo valore letterario ma emblematica ed utile per comprendere come funzionasse sin dal principio la mentalità sionista) scrive:

la Palestina è la nostra patria storica, indimenticabile […] se sua Maestà il Sultano ci desse la Palestina ci potremmo impegnare a sistemare completamente le finanze dell’Impero Ottomano; per l’Europa che dovrà garantire la nostra esistenza, rappresenteremo colà un vallo contro l’Asia, copriremo l’ufficio di avamposto della civiltà contro la barbarie.

Ora, sappiamo tutti che il Sultano non accettò questa proposta. Cosa che gli valse una rivoluzione, quella dei Giovani Turchi del 1908 che di fatto sancì la distruzione definitiva delle rimanenti istituzioni che resero grande l’Impero. Una rivoluzione che nella prefazione ad un’edizione dei Protocolli dei savi di Sion veniva definita come la “rivoluzione ebraica in Turchia”. Non è dato sapere quanto questa affermazione possa essere veritiera e non è il caso di entrare nel merito sulla veridicità o meno dei Protocolli. Tuttavia, tale definizione nasce dalla constatazione che molti degli esponenti di questo movimento discendevano da famiglie israelite residenti nei Balcani legatesi al movimento messianico ebraico del XVII secolo noto come sabbatianesimo (nome che deriva dal suo fondatore Sabbati Zevi) e successivamente convertitesi in modo del tutto superficiale, per non dire falso, all’Islam per proseguire quella che era la missione del loro autoproclamato Messia: la distruzione dell’Islam dall’interno in modo da rendere possibile la restaurazione del Regno di Israele in Palestina.
Spesso il sabbatianesimo viene anche associato al wahhabismo. Nathan di Gaza, l’ispiratore di Sabbatai Zevi, scrisse a suo tempo dei rapporti a diverse comunità ebraiche dell’Europa e del Nordafrica in cui si parlava di un fantomatico esercito che, sorto dal deserto del Najd in Arabia, avrebbe conquistato Mecca e Medina e distrutto le tombe della famiglia del Profeta e dei suoi compagni. Esattamente ciò che fecero i wahhabiti quando si impossessarono dei luoghi santi dell’Islam. Per questo da una prospettiva prettamente islamica la liberazione di Gerusalemme non può prescindere dalla liberazione in primis di Mecca e Medina.

Inoltre, lungi dall’aver costituito un vallo contro la barbarie (cosa totalmente priva di senso visto che la Palestina era parte dell’Impero Ottomano, un’entità geopolitica perfettamente inserita nel sistema delle relazioni internazionali del periodo e rappresentante di una civiltà millenaria ben lontana dal poter essere definita come barbarica), è stato proprio il sionismo a portare la barbarie colonialista occidentale in Palestina. Si pensi alla violenza brutale dei gruppi armati sionisti: il Lehi, l’Irgun, agli attentati terroristici, alle stragi nei villaggi arabi (come quella di Deir Yassin in cui vennero trucidate oltre 250 persone) avvenute ben prima dello scoppio della guerra del 1948, o ai cecchini dell’Unità 101 guidata da Ariel Sharon che aprivano il fuoco su inermi contadini che cercavano di raccogliere i frutti della loro terra.
Il sionismo ha le sue radici ideologiche nel Talmud, nei testi della tradizione rabbinica (in una specifica interpretazione del Talmud, un’interpretazione a proprio uso e consumo) e nello stesso messianismo ebraico: nel movimento dei Cariati (i cosiddetti “scritturali” che addirittura rinnegarono il Talmud), nell’opera di Solomon Molcho, nel sabbatianesimo, o in quella di Jacob Frank (reincarnazione di Sabbatai Zevi). Tuttavia la religione talmudica, sviluppatasi tra gli ebrei della diaspora, risulta essere sostanzialmente differente dalla religione praticata al tempo dei Re e dei Profeti. La religiosità dei Re israeliti venne influenzata in modo determinante da quella cananea e mesopotamica in generale e nonostante fosse già presente il carattere esclusivista ed etno-nazionalista, rimaneva di carattere tradizionale, incentrata sul culto, sul sacrificio rituale e sul rapporto diretto con Dio. Il Re, secondo il Salmo 110, era “sacerdote in eterno secondo l’ordine di Melchisedec” e Salomone costruì il Tempio accanto al palazzo reale associando il culto alla monarchia stessa.

Gli stessi testi del Pentateuco si riferiscono a tradizioni orali arcaiche reinterpretate e corrette nel corso di molti secoli. Il racconto di Adamo ricorda da vicino il tema mesopotamico dell’immortalizzazione mancata di Gilgamesh. Eroe mitico che i curdi considerano come loro antenato ancestrale. Basti pensare al libro del leader del PKK “Eredi di Gilgamesh”. Una vicinanza che spiega sotto certi aspetti l’attuale assonanza geopolitica tra curdi e israeliani ed ancora una volta dimostra il legame fondamentale tra geopolitica e geografia sacra. Col Talmud e con l’evoluzione del “rabbinismo” si sviluppa una sorta di ideale messianico ed al contempo utopico retrospettivo che vede nella restaurazione del Regno di Israele lo schiudersi di una nuova era a seguito della quale il popolo eletto dominerà non solo la Palestina ma anche il mondo intero. Il Regno atteso è un regno alla lettera. Vale a dire un dominio effettivo su questa terra di un popolo eletto da Dio a tale scopo. L’idea di Shalom (pace) e di Sedeq (giustizia) sono direttamente collegate all’idea di supremazia sui nemici e sui popoli. Attraverso questa interpretazione delle scritture, la pace universale del Pentateuco diventa una pax giudaica (molto simile alla cosiddetta pax americana) ottenuta o tramite libera sottomissione (noachismo) o con la vittoria eclatante sui nemici. È scritto (Genesi 22, 17-18) che nella discendenza di Abramo saranno benedette tutte le nazioni. Nell’interpretazione rabbinica questa “benedizione” è strettamente legata alla sottomissione ad Israele ed al suo Messia.

Questo è il sostrato ideologico attraverso il quale si è fondato il sionismo. Asher Ginzberg, uno dei principali esponenti del cosiddetto sionismo spirituale o esoterico (che per certi versi si discosta dal sionismo “moderato”, per modo di dire, di Theodor Herzl) scrisse un piccolo saggio, scopiazzato da Nietzsche, dal titolo Inversione di tutti i valori, in cui il concetto nietzschiano di superuomo veniva sostituito dall’idea di supernazione da identificare ovviamente con Israele destinata a dominare sul mondo intero. E non è un caso se molti esegeti cristiani e musulmani del Talmud abbiano identificato il Messia ebraico non come persona singolare ma come popolo, e dunque come il ritorno degli ebrei numericamente aumentati in Palestina a cui seguirà la ricostruzione del Tempio come profetizzato da Ezechiele. Sappiamo bene che l’attuale popolazione palestinese è di etnia semitica e discende in buona parte anche da famiglie israelite convertitesi al cristianesimo o all’Islam. Il processo di arabizzazione e islamizzazione della popolazione autoctona della Palestina, dopo la conquista islamica di Gerusalemme nel 637, fu lungo e complesso. Questo è uno dei motivi per i quali lo Shaykh Imran Hosein (un deviato sufi per i wahhabiti), nel suo testo “Gerusalemme nel Corano” ha identificato gli attuali occupanti sionisti della città, di origine per lo più europea (ma vi sono anche etiopi, indiani, nordafricani) portatori di tratti fenotipici totalmente diversi rispetto alla popolazione indigena della Palestina (sia essa ebraica, cristiana e musulmana), nelle malvagie genti di Gog e Magog che hanno un ruolo centrale nell’escatologia sia cristiana che islamica. Ed è per questo motivo che lo Shaykh identifica Israele come espressione della compiuta oppressione e peccaminosità. E nell’Islam non c’è nessuna forma di tolleranza per l’oppressione.

A dimostrazione che questa sia una interpretazione a proprio uso e consumo sta il fatto che il Talmud babilonese, come sostenuto tra l’altro dai Neturei Karta, vieti esplicitamente il ritorno in armi nella “Terra Promessa”. Il successo del sionismo è dovuto proprio alla sua capacità di propagandare il suo credo. I sionisti hanno investito miliardi di dollari per fare in modo che la loro interpretazione dei testi sacri venisse a coincidere e ad essere identificata con l’ebraismo nella sua totalità. Oggi, di fatto, è difficile trovare un ebreo indifferente alle sorti di Israele o in netta opposizione con le sue scelte politiche. Tanto che gli stessi ebrei che vivono all’infuori dell’entità sionista, e che non hanno nessuna intenzione di trasferirvisi, comunque la finanziano economicamente e la sostengono politicamente. Il caso più emblematico è la lobby sionista statunitense: l’AIPAC (American Israeli Public Affairs Commitee).

Oggi al potere a Washington vi è l’ala più oltranzista di questa lobby. Ma negli ultimi settanta anni, Israele, con la sola eccezione dell’amministrazione Eisenhower che mai ha digerito le pesanti ingerenze dell’AIPAC nella politica statunitense, ha sempre rappresentato il pilastro della geopolitica nordamericana nella regione. Un ruolo condiviso per due decenni con il regime dello Shah Mohammed Reza Pahlavi in Iran che oggi qualcuno sembra rimpiangere. Senza andare troppo indietro nel tempo l’amministrazione Obama ha contribuito a finanziare il sistema di difesa anti-missilistico Iron Dome ed ha rafforzato il cosiddetto “qualitative military edge” fornendo ad Israele armamenti sempre più sofisticati e strutture atte al lotta contro la guerra cibernetica.

Ora, il successo di questa operazione di propaganda si è riflettuto anche nello sdoganamento di cui il sionismo ha goduto nella cristianità occidentale. È risaputo che l’Osservatore Romano nei primi del Novecento fosse carico di articoli che muovevano delle critiche feroci al neonato movimento ed ai suoi propositi. Una voce critica che si è via via affievolita fino alla totale acquiescenza dopo il Concilio Vaticano II. E questa operazione è la medesima attuata dal wahhabismo saudita che ha cercato, attraverso uno spregiudicato utilizzo della propria ricchezza, di assumere la leadership dell’Islam sunnita facendo in modo che la stessa identità sunnita venisse a coincidere la sua interpretazione a-culturale ed anti-tradizionale dell’Islam. Solo recentemente, con la Dichiarazione di Grozny sull’identità sunnita, importanti guide spirituali dell’Islam sunnita (tra cui il Grande Imam dell’Università di al-Azhar) hanno rigettato il wahhabismo come deviazione cercando di riappropriarsi di una identità per troppo tempo usurpata dalla questa setta eterodossa.
Attraverso questa ideologia messianica, connaturata al sionismo, si può intuire il motivo per il quale Israele non sia affatto interessato ad un negoziato che riconosca un qualsiasi diritto di esistenza ad uno Stato palestinese. Ogni tentativo di questo tipo è miseramente fallito: i negoziati di Oslo, il piano di pace arabo, l’iniziativa di Ginevra, la roadmap ed il processo di Annapolis sponsorizzati dall’amministrazione Bush. Ed è emblematico a tal proposito il recente voto interno al Likud sulla proposta di annessione degli insediamenti in Cisgiordania ed il voto della Knesset sull’unità di Gerusalemme. Il più grave errore della dirigenza palestinese è stato credere nella possibilità della propria autodeterminazione attraverso una soluzione negoziale. A chi si ostina a sostenere che gli arabi fecero male a non accettare il piano di spartizione stabilito dall’ONU, basterà ricordare che già prima del conflitto del 1948, i sionisti avevano approntato un piano (noto come Piano Dalet) che di fatto prevedeva già l’occupazione di territori che il progetto delle Nazioni Unite aveva assegnato alla componente araba.

L’obiettivo sionista è ed è sempre stato la realizzazione compiuta della “Grande Israele”. Si pensi al ruolo cruciale giocato dal Gush Emunim (il blocco dei fedeli, il movimento messianico che ha sostenuto la campagna di colonizzazione della Cisgiordania), ai coloni di Kyriat Arba ad Hebron ed al massacro compiuto da uno di essi nella moschea di Ibrahim nel 1994. Va da sé che esistono due tipi di coloni: quelli che lo fanno nella convinzione “religiosa” che le terre della Giudea e della Samaria appartengano ad aeternum ad Israele, e coloro che la fanno per mera convenienza economica visto che la tassazione imposta dallo Stato israeliano ai coloni è praticamente inesistente. La politica israeliana nei territori occupanti è estremamente ambigua. Questa viola apertamente la Convenzione dell’Aia su leggi ed usi della guerra terrestre (1907) e la Convenzione di Ginevra (1949). Tuttavia, il sionismo non considera questi territori come “occupati” ma come parte integrante del territorio nazionale di Israele. Non a caso la guerra del 1967 cui seguì l’occupazione della Cisgiordania, del Sinai e della alture del Golan, venne descritta nei termini di “guerra di liberazione”.

Inoltre, durante l’invasione del Libano del 1982 (l’operazione “Pace in Galilea”) il rabbinato militare fornì ai soldati che occupavano il sud del paese dei cedri delle cartine in cui i nomi dei villaggi libanesi comparivano in ebraico ed in cui la stessa fascia meridionale del paese appariva come già annessa ad Israele. Un infausto destino che solo la forza di Hezbollah è stata capace di sovvertire. E sempre negli anni Ottanta, sulla rivista sionista Kivunin (Direzioni) apparve un contributo dal titolo Una strategia per Israele negli anni 80, ma meglio noto come Piano Yinon, che riletto alla luce dell’attuale panorama geopolitico del Vicino Oriente, rende bene l’idea tanto dei reali obiettivi sionisti (la disgregazione del mondo arabo) quanto del nefasto ruolo nordamericano nel tentativo della loro realizzazione. È scritto:

la dissoluzione dell’Iraq è importante per noi quanto e più di quella della Siria. L’Iraq, ricco di petrolio, è un candidato garantito per gli obiettivi di Israele […] In Iraq una divisione in province lungo linee etnico-religiose è possibile. Così tre o più Stati esisteranno attorno alle tre città più importanti.

Gli obiettivi del piano sono praticamente gli stessi del progetto Grande Medio Oriente propugnato dall’amministrazione Bush-Cheney nei primi anni duemila dopo l’11 settembre, compresa la costituzione del pivot geopolitico curdo di fondamentale importanza per ogni operazione di destabilizzazione dell’area.

Appare dunque evidente quanto né Israele (uno Stato militarizzato e poliziesco che si nutre di conflitto), né gli Stati Uniti siano interessati alla pace nella regione. La dimostrazione è sotto gli occhi di tutti: il sostegno al terrorismo; l’illegale presenza statunitense in Siria; la tempistica con la quale si è proceduto alle dichiarazioni su Gerusalemme capitale; l’inasprirsi dei bombardamenti della coalizione a guida saudita nello Yemen; le trame oscure che ora aleggiano sull’Iran. Il connubio USA-Israele ha di fatto imposto alla regione una situazione di perenne guerra ibrida attraverso la quale non sono più gli eserciti ad affrontarsi ma attori differenti coadiuvati da una profonda operazione di manipolazione mediatica. A questo proposito sarà utile ricordare che la decisione dell’amministrazione Trump su Gerusalemme è il prodotto di una scelta presa sotto la presidenza Clinton e successivamente ribadita da Obama. L’amministrazione Clinton, per ciò che concerne la Palestina, ha fatto più danni di qualsiasi altra amministrazione nordamericana. Clinton concesse 10 miliardi di dollari di finanziamento ad Israele per insediare quasi un milione di immigrati ebraici arrivati a seguito del crollo dell’URSS. Una cifra sicuramente ragguardevole che è andata a sommarsi ai circa tre miliardi di dollari annui di aiuto estero che Israele ottiene da circa trent’anni a questa parte.

Fare del complottismo retroattivo è sempre un’operazione rischiosa. Tuttavia, è quasi lampante che tutti e tre i principali eventi storici e geopolitici del Novecento, i due conflitti mondiali ed il crollo dell’URSS, si siano conclusi con una vittoria del sionismo su ogni fronte. È risaputo che Israele contribuì in modo determinante, con la CIA ed attraverso il regime islamista pakistano di Zia ul-Haq, ad armare il jihad in Afghanistan. Una guerra che fece sprofondare l’economia sovietica. Una vicenda abbastanza paradossale se si considera che fu proprio l’URSS ad essere il principale sostenitore della creazione di Israele nella seconda metà degli anni Quaranta proprio perché Stalin, ingannato dal carattere socialisteggiante del sionismo ed alle operazione terroristiche delle bande sioniste contro i britannici, si convinse di poterlo usare come strumento geopolitico in chiave anti-occidentale.

Nel momento in cui il conflitto del 1948 venne interrotto dalla prima tregua, i sionisti, in evidente difficoltà nonostante la superiorità numerica sul campo e la totale inattività di cinque dei sette eserciti arabi coinvolti, violando le regole stabilite dal mediatore ONU (il conte Folke Bernadotte, successivamente ucciso proprio dai sionisti), ingrossarono le proprie fila e ricevettero ingenti armamenti tramite la Cecoslovacchia. L’URSS fu tra le prima nazioni a riconoscere Israele. Un errore che costò molto caro a Stalin e più in generale alla stessa Unione Sovietica negli anni successivi se si considera che Israele ha mosso guerra ad ogni alleato sovietico nell’area già dal 1956 con l’aggressione all’Egitto a seguito dell’accordo segreto di Sevres con Francia e Gran Bretagna che addirittura imponeva un ultimatum ad un paese attaccato e non a quello attaccante. Una vicenda ancora una volta emblematica del nefasto ruolo occidentale nel conflitto arabo-israeliano.

Pensiamo anche ai 3000 miliardi di marchi tedeschi che la Germania Ovest versò nelle casse sioniste come “risarcimento” per l’olocausto e che di fatto consentirono all’entità sionista di sopravvivere nel momento più critico della sua neonata esistenza (anni Cinquanta e Sessanta) comprando armi da Francia e Stati Uniti. Una magnifica espressione di quella che Julius Evola chiamava ideologia di Norimberga e che Costanzo Preve definiva religione olocaustica. Ovvero quel senso di colpa “indotto” all’Europa che di fatto impedisce ogni processo di reale emancipazione dalla servitù nordatlantica.

 

L’intellettuale dissidente

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