Dall’1 al 3 dicembre, alla Fiera di Roma, torna Maker Faire Rome, la rassegna internazionale dedicata alle ultime frontiere della tecnologia: al centro di questa quinta edizione l’Internet delle cose, la manifattura digitale e l’agricoltura 4.0, il cibo del futuro e la sensoristica, mobilità smart, riciclo e riuso, edilizia sostenibile, robotica, realtà virtuale e aumentata, salute e benessere, scienza e biotecnologie. Per i visitatori l’esperienza si tramuterà in un viaggio verso un nuovo mondo che rivoluzionerà le vite delle persone, per manager, professionisti, maker, imprenditori e startupper; un’opportunità per conoscere tutte le realtà internazionali presenti all’evento e fare scouting di nuovi talenti.
Non mancherà l’area dedicata ai bambini e ai ragazzi dai 4 ai 15 anni, uno spazio di diecimila metri quadri in cui le nuove generazioni potranno esplorare e toccare con mano il futuro. Per Contemporaneamente Roma segnaliamo venerdì 1 alle 11.30, l’Opening Event dal titolo The Future in the Making: un “futuro in costruzione” che sarà raccontato con l’aiuto di ospiti d’eccezione provenienti da tutto il mondo e presentati dal giornalista Alessio Jacona. I migliori prototipi e progetti della robotica realizzate da start up, istituti di ricerca e team delle più prestigiose università italiane saranno in esposizione in un’area appositamente dedicata di ben 400 mq; in quest’ambito, sabato 2 alle 14.30 Robots: what’s next?, conferenza sulla robotica, curata dal professor Bruno Siciliano, durante la quale verrà presentato il libro I robot e noi scritto da Maria Chiara Carrozza, scienziata ed ex ministro dell’Istruzione. Seguirà un dibattito sui temi etici e sociali legati al mondo dei robot e verranno presentate alcune eccellenze della robotica italiana nel mondo.
Infine, per la Maker Faire, l’IIT, Istituto Italiano di Tecnologia, ha ideato un corso di robotica gratuito su iCub (un piccolo robot, alto 1,04 metri e con un peso di circa 25 kg, creato da un team di ricercatori dell’IIT) che si terrà sabato 2 e domenica 3 dalle 10.30 alle 18.30. I ricercatori della ICub Facility e del dipartimento di Robotics, Brain and Cognitive Sciences di IIT guideranno i partecipanti alla programmazione della testa del robot umanoide iCub. Con la digitalizzazione, tutti i contenuti tipici del mondo maker hanno fatto un salto di qualità prendendo il nome di Industria 4.0; per questo, è necessario l’acquisizione di nuove competenze sulle singole tecnologie e sulla visione di insieme di un nuovo modello di processo. A Maker Faire Rome 2017 verrà data risposta a questa necessità: durante la tre giorni, design idea, un ciclo di seminari rivolto ad aziende e PMI che vogliono conoscere in maniera più profonda come sfruttare le opportunità dell’Industria 4.0 per la loro impresa, laboratori di fabbricazione digitale e tanto altro come, talk formativi-divulgativi su robotica, internet of things, realtà virtuale, logistica ed elettronica a cura di maker e partner.
Secondo appuntamento, presso il Teatro Villa Pamphilj, con il progetto Science Fiction – La Scienza a Teatro, nato dalla sinergia tra scienziati, attori, professori e operatori culturali. Un ciclo di incontri teatrali a tema scientifico e matematico per rendere accessibile a chiunque temi e concetti che, nell’immaginario collettivo, risultano inaccessibili e che invece possono essere affascinanti ma anche poetici o comici. Storie raccontate con un linguaggio teatrale contemporaneo: ogni incontro sarà affiancato da un’incursione de La Scienza Coatta, gruppo cult di ricercatori scientifici, che attraverso lo slang romanesco da qualche anno divulga temi e concetti scientifici al pubblico dei social media. Domenica 3 dicembre alle 11.30, L’uomo che pesò la terra con Ottavia Leoni ed Emanuele Di Giacomo: spettacolo/lettura costruito intorno alla Legge della Gravitazione Universale e ai suoi effetti sullo sviluppo del pensiero scientifico successivo.
“Mi chiamarono pazzo nel 1896 quando annunciai la scoperta dei raggi cosmici. Ripetutamente si presero gioco di me e poi, anni dopo, hanno visto che avevo ragione. Ora presumo che la storia si ripeterà quando affermo che ho scoperto una fonte di energia finora sconosciuta, un’ energia senza limiti, che può essere incanalata”. Così Nikola Tesla apre il primo capitolo della propria autobiografia, un piccolo volume così scarsamente conosciuto da sembrare scritto da qualcuno senza grandi meriti per la collettività. Pochi sanno infatti che questo “qualcuno non così importante” è il vero padre di molte invenzioni che ognuno di noi usa tutti i giorni nella sua vita quotidiana.
Quasi tutte le più grandi conquiste tecnologiche del XX secolo come ad esempio la prima grande centrale idroelettrica del mondo (cascate del Niagara), i sistemi elettrici polifase a corrente alternata della nostra rete elettrica, i motori a campo magnetico rotante dei nostri elettrodomestici, il tubo catodico dei vecchi televisori, il tachimetro/contachilometri delle automobili, le lampade a vuoto luminescenti (neon) degli uffici, le porte logiche dei pc, il radar per il controllo del traffico aereo o indispensabili strumenti di comunicazione moderna come la radio. Ed infatti anche se i libri di scuola, le istituzioni e i mass-media celebrano ancora solennemente il nostro Guglielmo Marconi come l’inventore del telegrafo senza fili (il nome della radio di allora) esiste una sentenza della Corte Suprema USA che ha riconosciuto la vera paternità della radio a Nikola Tesla. Ciononostante, tutte le più grandi enciclopedie continuano a liquidare la sua vita e le sue opere nelle poche righe di un trafiletto dove troviamo citato il suo nome esclusivamente come unità di misura dell’induzione elettromagnetica. Una volta conosciute la sua storia però non si può non provare un grande senso di gratitudine nei suoi confronti e non ci si può non interrogare sul come un genio così eccelso possa essere stato completamente dimenticato. Di tanto in tanto però, lo scomodo nome di Tesla riemerge dall’oblio come ha fatto nel 2007 quando i ricercatori del MIT (Massachussets Institute of Tecnology) hanno annunciato al mondo di essere riusciti a trasmettere energia elettrica senza fili utilizzando i principi di risonanza scoperti dallo scienziato serbo più di un secolo prima!
Un poeta della scienza, un sognatore spirituale
Uno schiocco di dita e lo spettacolo inizia: è una sera del 1891 e sul palco c’è Nikola Tesla, scienziato serbo-croato emigrato negli Usa. Per un istante una rossa palla di fuoco avvampa nella sua mano. Con cautela l’uomo, altissimo, lascia scivolare le fiamme sul suo frac bianco, poi sui capelli neri. Infine il mago, che con stupore del pubblico è del tutto illeso, ripone il misterioso fuoco in una scatola di legno.
«Ora farò luce come se fosse giorno» dichiara Tesla. Ed ecco che il teatro delle sue esibizioni, il laboratorio sulla newyorkese South Fifth Avenue, risplende di una luce straordinariamente chiara. Poi l’inventore balza su una piattaforma collegata a un generatore di tensione elettrica. Lentamente lo scienziato alza il regolatore, fino a quando il suo corpo è esposto a una tensione di due milioni di volt. Le scariche elettriche crepitano intorno al suo busto. Fulmini e fiamme gli guizzano dalle mani.
Quando Tesla spegne la tensione, così riferiranno gli spettatori, intorno a lui scintilla un bagliore azzurrognolo. Il “mago dell’elettricità” amava incantare l’alta società di New York con i suoi allestimenti. E mostrare ai giornalisti la potenza e la sicurezza del sistema di corrente elettrica da lui sviluppato. Le spettacolari esibizioni facevano parte della sua propaganda nella guerra per l’elettrificazione del mondo.
È una guerra che Tesla (seppure contro la sua volontà) combatté contro un altro inventore, altrettanto famoso. Un uomo dall’indole così diversa da personificare l’esatto opposto di Tesla: Thomas Alva Edison. Disinvolto, furbo, abile negli affari. Per gli americani Tesla era al contrario un “poeta della scienza”, un teorico e uno sfortunato cervellone, le cui idee erano “grandiose, ma del tutto inutili”.
Edison misurava il valore di una scoperta dalla quantità di dollari arrivati alla sua azienda. Per Tesla invece non si trattava solo di denaro: l’obiettivo di un’invenzione, sosteneva, consiste in primo luogo nello sfruttamento delle forze naturali per le necessità umane.
Nikola Tesla: un vincitore perdente
Sarà alla fine proprio Nikola Tesla a vincere la battaglia per la corrente elettrica. Eppure – come successe spesso nella sua vita – ne uscirà perdente. Ed è proprio come perdente che oggi è tornato a incantare il pubblico: il numero dei libri e dei siti web che lo riguardano è in aumento, su YouTube ci sono video a lui dedicati, un gruppo rock ha scelto di chiamarsi Tesla. E una casa automobilistica finanziata dai fondatori di Google è stata battezzata Tesla Motor.
La misteriosa forza dell’elettricità affascinò Tesla sin dall’infanzia. Nato il 10 luglio del 1856 da genitori serbi nel villaggio croato di Smiljan, da bambino vedeva fulmini abbaglianti. «In alcuni casi l’aria intorno a me si riempiva di lingue di fuoco animate» ricorderà Tesla nella sua autobiografia. Di solito queste visioni si accompagnavano a immagini interiori. Con gli occhi della mente Tesla osservava ambienti e oggetti tanto chiaramente da non riuscire a distinguere realtà e immaginazione.
Con il tempo imparò a controllare queste suggestioni: viaggiava con il pensiero in città e Paesi stranieri, intrattenendosi con le persone e stringendo amicizie. La forza della sua immaginazione si manifesta all’età di 17 anni, quando inizia a “occuparsi seriamente delle invenzioni”. Non aveva bisogno di alcun modello, disegno o esperimento per sviluppare i congegni: l’intero processo creativo aveva luogo nella sua mente. Lì costruiva le sue apparecchiature, correggeva gli errori, le metteva in azione. «Per me è del tutto indifferente costruire una turbina nella mia testa o in officina» scrisse «riesco persino a notare quando va fuori bilanciamento».
Nel 1875 il 19enne Nikola ricevette una borsa di studio al Politecnico di Graz, in Stiria. Il suo impegno sui libri era ossessivo, a volte dalle tre del mattino alle undici di sera, e nel primo anno superò nove esami con il massimo dei voti. «Ero posseduto da una vera e propria mania: dovevo concludere tutto ciò che iniziavo» ricordò. Quando si accinse a leggere Voltaire, apprese con sgomento che “quel mostro” aveva scritto un centinaio di libri. Ma affrontò comunque la mastodontica impresa. Il giovane continuava a essere soggetto a comportamenti compulsivi. Nutriva una forte avversione verso perle e orecchini, provava disgusto per i capelli delle altre persone. Sentiva caldo davanti a una pesca. Ripeteva alcune attività in modo che le ripetizioni fossero divisibili per tre. Contava i passi mentre camminava, calcolava il volume del contenuto delle tazzine di caffè, dei piatti fondi, degli alimenti. «Se non lo faccio, il cibo non mi piace» annotò.
Ci vollero sette anni prima che Tesla, impiegato in una compagnia telefonica di Budapest, arrivasse a una svolta. In una sera del 1882, durante una passeggiata nel parco della città, la soluzione gli si presentò alla mente “come un fulmine”. Tesla afferrò un bastone e disegnò nella polvere il diagramma di un motore assolutamente innovativo, nel quale le bobine esterne, attraversate dal flusso di corrente alternata, generavano un campo magnetico rotante. In questo modo si creavano le forze che mettevano in moto il rotore interno. Come in delirio, nelle settimane successive Tesla sviluppò ulteriori motori, dinamo e trasformatori; tutti necessitavano di corrente alternata, o la producevano. «Uno stato spirituale di completa felicità come non lo avevo mai provato nella vita» scrisse. «Le idee mi si presentavano in un flusso ininterrotto. L’unica difficoltà era riuscire a fissarle».
Tesla si rese conto che la corrente alternata offriva un vantaggio decisivo rispetto a quella continua: grazie alle sue proprietà fisiche, poteva essere trasportata via cavo per centinaia di chilometri, con perdite quasi nulle. Con la corrente continua, invece, si poteva farlo solo per brevi tratti.
In America
Due anni più tardi, nel 1884, Tesla si licenziò dall’azienda e prese la strada di New York, armato di una lettera di raccomandazione. Voleva lavorare con il grande Thomas Alva Edison e convincerlo del valore della sua pionieristica scoperta. Il magnate della lampadina aveva costruito la prima centrale elettrica pubblica al mondo nel centro di Manhattan. Ma la corrente prodotta era in grado di illuminare soltanto i lampioni elettrici nel raggio di un centinaio di metri. Per questo Edison progettò di coprire la città con una rete di generatori.
La lettera di raccomandazione procurò a Tesla un colloquio con Edison. Fin dal primo incontro fu però disilluso: quando espose le caratteristiche del suo sistema elettrico, l’americano gli replicò irritato di smetterla con quella follia. «La gente vuole la corrente continua, ed è l’unica cosa di cui intendo occuparmi».
A ogni modo, Edison riconobbe il talento tecnico del giovane serbo e lo assunse, promettendogli un premio di 50mila dollari nel caso riuscisse a migliorare le prestazioni delle dinamo a corrente continua. Tesla accettò l’offerta. Dopo quasi un anno di duro lavoro, poté annunciare al capo i propri successi: le modifiche alle dinamo di Edison erano concluse, l’efficienza era aumentata in modo sostanziale. Ma la retribuzione promessa non arrivò. Edison si rifiutò di pagare il premio: «Tesla, lei non capisce il senso dell’umorismo americano» si giustificò.
Indignato, Tesla si licenziò. Più tardi scrisse sul (presunto) genio del secolo: «Se Edison dovesse cercare un ago in un pagliaio, si metterebbe a esaminare con la frenesia di un’ape un filo dopo l’altro, fino a trovare l’oggetto cercato. Con dispiacere ho assistito al suo modo di procedere, ben consapevole che un po’ di teoria e di calcolo gli avrebbero risparmiato il 90% del lavoro».
In seguito Tesla si dedicò meticolosamente allo sviluppo di una lampada ad arco e depositò svariati brevetti. Ma dopo aver portato a termine i suoi incarichi, fu estromesso dall’azienda e imbrogliato sui compensi. «Seguì un periodo di lotta» ricordò seccamente l’inventore. Per un anno si trovò a sbarcare il lunario lavorando, a chiamata, nella costruzione di strade.
Ma all’inizio del 1887 il suo destino prese una piega inaspettata: il capo della squadra di costruzione venne a sapere del presunto motore dei miracoli ideato da Tesla e lo mise in contatto con Alfred K. Brown, il direttore della Western Union Telegraph Company. Le compagnie telegrafiche necessitavano di energia elettrica; e Brown era interessato alla corrente alternata, che poteva essere trasmessa su grandi distanze senza perdite. Non lontano dalla Edison Company, a Manhattan, i due presero in affitto uno spazioso laboratorio nel quale Tesla poté finalmente accelerare la trasposizione pratica del suo sistema in corrente alternata.
Ebbe così inizio la guerra della corrente elettrica: Tesla depositava un brevetto dopo l’altro per i componenti del suo innovativo motore, teneva conferenze, inscenava le sue dimostrazioni davanti a un pubblico entusiasta e presto catturò l’attenzione dell’industriale George Westinghouse. Westinghouse, egli stesso ingegnere e inventore, era entrato nel mercato elettrico da qualche anno, acquistando svariati brevetti. Diversamente da Edison, credeva nella redditività della nuova tecnica. Acquistò i brevetti di Tesla, stabilendo il pagamento di un diritto di licenza da 2,5 dollari per ogni cavallo vapore venduto dell’“elettricità di Tesla”. E scese in campo nella battaglia per la corrente alternata.
Grazie alle ridotte perdite di energia, Westinghouse poté erigere le sue centrali all’esterno delle città. Inoltre i suoi cavi di rame erano meno spessi di quelli richiesti dalla corrente continua, e i costi per le linee elettriche erano minori di quelli sostenuti dalla concorrenza. Westinghouse riuscì a vendere l’elettricità a prezzi più favorevoli di Edison, e presto si ritrovò ad avere più clienti. Ma quest’ultimo passò al contrattacco: raccolse informazioni sugli incidenti che coinvolgevano la corrente alternata, scrisse pamphlet e fece pressione sui politici.
Il gioco sporco di Edison
Edison pagò giovani studenti perché catturassero cani e gatti che, durante esibizioni ufficiali, legava a placche di metallo, facendo poi passare la corrente alternata nel loro corpo sussultante. Chiedeva infine agli spettatori: «È questa l’invenzione che le nostre amate donne dovrebbero usare per cucinare?».
Nel gennaio del 1889 nello Stato di New York entrò in vigore una nuova legge: gli assassini sarebbero stati condannati a morte tramite corrente elettrica. Edison perorò la causa della corrente alternata. Nell’agosto del 1890 un uomo (William Kemmler) morì sulla prima sedia elettrica: tramite corrente alternata. L’interruttore dovette essere premuto due volte prima che il condannato smettesse di sussultare.
Ma la campagna di diffamazione promossa da Edison non raggiunse i suoi obiettivi. Nel giro di due anni Westinghouse costruì oltre 30 centrali elettriche e rifornì 130 città americane con la corrente alternata di Tesla. Nel 1893 fu lanciato il bando per l’illuminazione dell’Expo di Chicago: Westinghouse offrì quasi un milione di dollari meno di Edison.
Dal novembre del 1896 in poi, in tutto il mondo le città installarono quasi unicamente centrali a corrente alternata. Nikola Tesla stava per diventare uno degli uomini più ricchi del pianeta: secondo il contratto di licenza avrebbe dovuto incassare una percentuale per ogni motore elettrico venduto, e per ogni utilizzo dei brevetti sulla corrente alternata. Ma gli investitori spinsero Westinghouse a modificare il contratto.
L’imprenditore disse chiaramente a Tesla che dalla sua decisione dipendeva il destino dell’azienda. Tesla, che in Westinghouse vedeva un amico, strappò il contratto e barattò la percentuale per i brevetti con un importo forfettario di 216mila dollari. In questo modo perse ogni diritto non soltanto sugli onorari già guadagnati, presumibilmente 12 milioni di dollari, ma anche sui miliardi che si sarebbero prodotti in futuro. Per Tesla il denaro non era importante: ciò che contava era la diffusione della sua tecnica. L’inventore era già immerso in nuovi compiti. Immaginava un mondo in cui tutti gli uomini avrebbero ricevuto energia gratuita e illimitata. Per Tesla le reti elettriche erano soltanto uno stadio intermedio nel percorso verso un sistema senza fili, in grado di spedire intorno al globo informazioni ed energia.
Energia a distanza
Nel 1898 sviluppò il primo radiocomando a distanza. L’anno successivo da un laboratorio situato vicino a Colorado Springs riuscì a inviare onde radio a una distanza superiore ai 1.000 chilometri. Con queste bobine venivano prodotte correnti alternate a voltaggio elevato, che Tesla voleva utilizzare per la telegrafia senza fili a grande distanza. Ma nel 1906 interruppe i tentativi.
Nel 1900 Tesla trovò un finanziatore per la costruzione di una futuristica torre-antenna a Long Island: il suo obiettivo era inviare negli strati superiori dell’atmosfera onde altamente energetiche per distribuire l’energia intorno al globo. Ma poco prima dell’ultimazione del progetto, l’investitore si ritirò: se chiunque nel mondo avesse potuto utilizzare senza controllo l’energia prodotta a Long Island, da dove sarebbero venuti i guadagni? Tesla ne ricavò un esaurimento nervoso da cui faticò a riprendersi. Nel 1917 l’impalcatura di acciaio della torre fu fatta esplodere e i rottami venduti per mille dollari. Nello stesso anno l’inventore avrebbe dovuto ricevere la prestigiosa Medaglia Edison. Ma Tesla rifiutò: l’onorificenza avrebbe dato lustro solo allo stesso Edison. Bernard Arthur Behrend, presidente della giuria, lo persuase ad accettarla. «Se privassimo il mondo industriale di tutto ciò che è nato dal lavoro di Tesla» disse Behrend «le nostre ruote smetterebbero di girare, le vetture elettriche e i treni si fermerebbero, le città sarebbero buie e le fabbriche morte e inutili. Il suo lavoro ha una tale portata da essere diventato il fondamento stesso della nostra industria».
Gli errori di Tesla
Assieme alle sue intuizioni geniali, Tesla – com’è normale – non mancò di seguire idee più o meno sballate. Abbiamo già parlato del fallimento del radar sottomarino. Ma Tesla rifiutò anche la teoria della relatività di Albert Einstein, che riteneva priva di senso, e cercò di inventare una teoria gravitoelettrica delle forze fondamentali che però non arrivò da nessuna parte. Tesla pensava erroneamente di aver osservato raggi cosmici più veloci della luce. Tesla si convinse di aver ricevuto dei segnali da extraterrestri su Marte e Venere, ma si trattava solo di artefatti sperimentali. Tesla, inoltre, era abilissimo a propagandare le proprie invenzioni, e spesso si attribuì scoperte che non aveva mai dimostrato (cosa che contribuisce ad ampliarne la leggenda). A livello più personale Tesla aveva tratti imbarazzanti: per esempio era letteralmente disgustato dalle persone sovrappeso, e arrivò a licenziare la sua segretaria perché a suo giudizio troppo grassa (fonte:wired).
Nonostante la fama e i suoi 700 brevetti, il mago dell’elettricità non ebbe mai successo economico, al grande inventore interessava fare del bene per l’umanità, rendere la vita un po’ più semplice.
Il 7 gennaio del 1943, a 86 anni, Nikola Tesla, l’inventore più disinteressato della Storia, morì povero in canna in una camera d’albergo di New York.
“ La scienza non è niente altro che una perversione se non ha come suo fine ultimo il miglioramento delle condizioni umane.” (N. Tesla)
Il decreto legge sui vaccini obbligatori è un obbrobrio anticostituzionale. Con esso si prospetta ai genitori contrari alla vaccinazione, una sanzione che va dai 500 ai 7500 euro e la sospensione della patria potestà; ai bambini, invece si prospetta un trattamento sanitario obbligatorio. Poi perché un decreto legge? Quale necessità e urgenza sussiste? In Italia non c’è alcuna emergenza epidemiologica. Inoltre perché obbligare tramite un decreto d’urgenza alla vaccinazione del tetano che non è contagioso?
Non è mio intento entrare nel merito se i vaccini siano utili, non rientra nelle mie competenze. La mia riflessione è di chi analizza gli alterati rapporti di forza tra politica e potentati economico-finanziari. Del resto neppure il ministro Beatrice Lorenzin ha competenze in materia, non è laureata in Medicina, in realtà non è neppure laureata; ma non serve una laurea per capire che lei e il suo governo senza mandato elettorale non sono espressione degli interessi dei cittadini. Oggi, il partito del ministro Lorenzin ha un seguito elettorale che ottimisticamente è pari al 3%, eppure si arroga di imporre per decreto una questione che richiederebbe ampio dibattito.
L’invito che rivolgo è di informarsi bene ma soprattutto, invito tutti a rigettare quest’imposizione fascistoide. Non è accettabile essere trattati come consumatori e non come cittadini sovrani in grado di decidere in libertà. Nessun Paese in Europa prevede l’obbligo di ben 12 vaccini. Per intenderci in Paesi come Gran Bretagna, Germania e Spagna non esiste alcun obbligo vaccinale.
In Italia il meningococco di tipo C, il più letale, negli ultimi quattro anni ha causato 36 decessi, in una popolazione di quasi 65 milioni di persone. Nel solo 2012 per inquinamento sono morte 84.400 persone, un record in Europa. Il ministro della Sanità, se davvero tiene alla salute dei cittadini, perché non prende misure concrete contro l’inquinamento? Forse perché la lobby del petrolio è intoccabile come Big Pharma?
Ci sono 12 vaccini obbligatori, non tutti gratuiti. In altri paesi non esiste questo obbligo.
Sono davvero tutti indispensabili i vaccini che ci propinano? Non c’è troppa fretta? Perché questa eccessiva premura che però non dimostrano ad esempio verso l’inquinamento? Tra il non vaccinare, cosa che nessuno sano di mente propone e la frenesia da vaccino c’è una bella differenza: vaccinare sì con buon senso, prudenza e competenza, e dopo essere stati correttamente informati. È triste constatare ogni volta che chi cerca di riflettere su un tema e porsi delle domande, viene tacciato di becero complottismo.
Ci si può chiedere liberamente se da un lato questi vaccini immunizzano dalle patologie per le quali si praticano, possono allo stesso tempo aumentare la probabilità che insorgano altre patologie a causa di alcune sostanze contenute nel vaccino, come i metalli pesanti? Quante persone all’anno muoiono di morbillo o varicella? Se si ritiene che sia meglio eseguire vaccinazioni alla cieca, su bambini di 3 mesi o meno di 6 anni (sono 12, escluso i loro richiami) probabilmente siamo ben lontano dal principio di precauzione che bisognerebbe seguire. E la politica, in questo senso, si dimostra solo senza screening pre e post-inoculo. Porsi delle domande è più che lecito.
Perché obbligare i bambini quando il 90% dei medici e infermieri non si vaccinano contro l’influenza? Come si può obbligare dei genitori ad iniettare ai figli delle sostanze che, in alcuni casi, sentenze di tribunale hanno affermato essere state causa di autismo? Occorre informazione e non coercizione e soprattutto serve rispetto per quei genitori a cui è stato riconosciuto il danno da vaccino. Ciò che serve sono vaccini sicuri e libertà del genitore di decidere. Mi appello a tutti coloro, favorevoli o contrari alla vaccinazione a ribellarsi e, qualora dovesse passare, a violare tale legge come insegnava Gandhi a fare con quelle ingiuste. In gioco ci sono le ultime briciole di libertà rimaste. Invito Mattarella a non firmare questo decreto ed eventualmente anche la Corte Costituzionale a dichiarane la palese incostituzionalità.
In queste giorni a colpi di manganello si stanno sottomettendo quei medici che si permettono pubblicamente di porre dubbi sull’utilità dei vaccini. A loro va la mia solidarietà e di tutti coloro che credono che l’unico vaccino da imporre dovrebbe essere quello contro chi ci vuole sudditi e non cittadini sovrani.
L’oncologa Patrizia Paterlini in queste settimane è stata un po’ come il prezzemolo, l’abbiamo vista su riviste femminili, testate nazionali, persino a Porta a Porta; il messaggio che porta è di speranza, ma forse non tutto è come ci viene raccontato.
Su Donna Moderna spiegava cosa è la sua grande scoperta, l’ISET: «Un esame del sangue che riesce a individuare la presenza di cellule neoplastiche circolanti nell’organismo molto prima che il tumore raggiunga una dimensione tale da essere “visibile” con Pet, Tac e risonanza magnetica. Nel caso del cancro al seno, gli studi epidemiologici hanno dimostrato che l’invasione tumorale ha inizio 5-6 anni prima della diagnosi. Un tempo che, nelle cure, può fare la differenza. Purtroppo il test ha ancora un limite: non è in grado di individuare l’organo da cui derivano le cellule malate. Per ora, almeno, perché la ricerca è già in fase avanzata».
Ed è tutto vero, la dott.ssa Paterlini ha studiato un nuovo test per individuare i tumori. E ci ha pure scritto un libro, che si intitola Uccidere il cancro, edito da Mondadori.
Ma allora perché parlarne? Perché è vero che la dottoressa ha fatto una scoperta importante, ma prima di verificarla nella maniera corretta la sta spingendo in tv e sulla stampa, quasi che gli studi che la devono validare non siano importanti. Di questo si sono accorti in tanti. Carmine Pinto su Quotidiano Sanità spiega: “Mancano dati che validino con studi clinici controllati l’impiego di questo tipo di esame nella pratica clinica. Le conclusioni della professoressa Paterlini-Brechot sono infatti basate su di un unico studio pubblicato nel 2014 da un gruppo francese – ha continuato il presidente nazionale Aiom – L’individuazione di marcatori precoci di rischio è un tema rilevante della ricerca oncologica. Una delle strade percorse si basa sull’individuazione di geni difettosi che possano predisporre allo sviluppo del tumore. Si parte cioè dal principio che la probabilità di sviluppare la malattia sia già scritta nel nostro Dna molti anni prima della diagnosi. Ma, a oggi, si tratta di un interessante e promettente settore di ricerca non ancora supportato da evidenze per l’utilizzo in sanità pubblica. Meno del 2% della popolazione è portatore di mutazioni con sindromi ereditarie a rischio di sviluppare il cancro”.
Nino Cartabellotta della Fondazione Gimbe: “E’ inaccettabile che la televisione di Stato permetta a ricercatori in palese conflitto di interessi di diffondere informazioni sulla salute delle persone non ancora validate dalla comunità scientifica e che al momento non hanno nessuna applicazione reale nella pratica clinica e nella sanità pubblica”. “Milioni di italiani in questi giorni – dice l’associazione – si stanno chiedendo dove effettuare il tanto semplice quanto miracoloso esame del sangue che permette di sapere se il nostro corpo sta per essere (o è già stato) invaso dalla malattia più temuta, il cancro. Dopo l’ampio spazio su vari quotidiani, anche il (dis)servizio pubblico di Porta a Porta ha permesso alla dottoressa Paterlini-Bréchot di presentare il suo libro ‘Uccidere il cancro’. Il cavallo di battaglia della ricercatrice è il cosiddetto test Iset, che sarebbe in grado di diagnosticare il tumore con diversi anni di anticipo, alla modica cifra di 486 euro, ovviamente (e giustamente) non rimborsati dal Servizio sanitario nazionale“.
Non va proprio benissimo per la dott.ssa Paterlini, o meglio a lei va bene visto che stampa e tv le stanno offrendo largo spazio pubblicitario per il suo libro, ma mi pare ovvio che il mondo scientifico, quello serio fatto di lunghe attese prima di poter dare risultati al grande pubblico, sia decisamente incavolato con lei e con la sua campagna promozionale. Sempre Cartabellotta sul sito della Fondazione Gimbe spiega:
Il sito web dell’azienda Rarecells, riferisce Gimbe, riporta che ‘la tecnologia Iset è stata validata da oltre 50 studi scientifici indipendenti realizzati su oltre 2 mila pazienti affetti da differenti tipologie di tumore e più di 600 soggetti sani’. Tuttavia, fa notare ancora la Fondazione, “i suddetti studi sono sì sostenuti da avvincenti ipotesi scientifiche e promettenti risultati preliminari, ma non legittimano alcuna raccomandazione per la pratica clinica, né tantomeno informazioni da diffondere alla popolazione, a dispetto di quanto affermato in maniera molto convincente sul sito web ‘isetbyrarecells.com/it’. A riprova di questo il test non è citato, né tantomeno raccomandato, da nessuna linea guida nazionale o internazionale sulla diagnosi di alcun tumore”.
È tutto chiaro? Meno del 2% della popolazione si stima posso sviluppare cancro come quello che verrebbe identificato dal test ISET, e comunque gli studi controllati non sono ancora stati fatti. Siamo di fronte a un classico caso di autopromozione, probabilmente in buona fede, ma l’effetto è confondere il paziente finale e non fare informazione come invece dovrebbero fare la RAI e le testate giornalistiche che hanno pubblicizzato test e libro con troppa enfasi.
Anche l’America odia la scienza, è questa la deduzione che possiamo fare dopo il varo ufficiale dell’ordine esecutivo dell’Amministrazione Trump sulla politica energetica. Quella che il vicepresidente Mike Pence ha definito “La fine della guerra al carbone” ha un significato storico senza precedenti.
Per la prima volta si torna indietro, vengono cancellate tutte le dimostrazioni scientifiche sulla correlazione tra riscaldamento globale e inquinamento, in ragione di uno sviluppo economico che si regge ormai su basi molto fragili. Una scelta scellerata che mette in discussione il già precario risultato ottenuto a Parigi nel 2016 e che pone il mondo davanti ad un pericolo più che concreto di autodistruzione.
Quello che sorprende è ormai la diffusa diffidenza, che sembra aver invaso le classi dirigenti di mezzo globo, verso la scienza sempre più ridotta ad ancella della politica economica. Eppure le riconversioni ed il cambio di paradigma energetico progettati da Obama promettevano nel lungo periodo risultati molto incoraggianti anche dal punto di vista economico. Come detto, però, la politica continua a navigare solo nel brevissimo e ci condanna ad un futuro sempre più fosco.
Il rapporto tra capitalismo sfrenato e ambiente ha radici profonde che hanno visto sinora soccombere sempre e comunque la natura. Considerazione banale è che all’interno di quell’ambiente ci vive anche l’uomo e se le condizioni vitali sono messe in discussione lo è anche la sopravvivenza della razza umana.
Se in America si piange, in Italia certamente non si ride. Le ferite già inferte al nostro Paese sono innumerevoli, ma in compenso se ne stanno preparando di nuovissime. Il recente referendum sulle trivelle, la TAP (si leggano gli articoli di Alessandro Cannavale sul Fatto Quotidiano) e la questione del petrolio lucano, dimostrano come si continui a ritenere l’ambiente esclusivamente come un bene di consumo.
Costruire un giusto rapporto tra la scienza e la politica è un passo fondamentale, perché ciò possa avvenire ci deve essere una spinta dal basso. Tale spinta è possibile solo istillando nell’elettorato le giuste priorità per lo sviluppo e la crescita rendendo popolare il metodo scientifico. Per fare ciò occorre investire sull’informazione corretta e sulla formazione.
È vitale invertire la tendenza perché il baratro è ad un passo.
Il 5 Dicembre scorso è uscito per la casa editrice C1V Edizioni il romanzo Sul nascere, dell’embriologa e scrittrice Carolina Sellitto, con prefazione a cura del genetista Edoardo Boncinelli. Il romanzo introduce la collana Sul Palco, ideata da Cinzia Tocci.
Protagonista del romanzo è Andrea Pozzi, un ginecologo che tiene lezioni sulla fecondazione assistita agli studenti di Medicina e poi c’è una coppia, quella di Luca e Serena che sperano nel miracolo della vita, ”miracolo” che tutto è, come vediamo, tranne che opera del divino. Il libro si chiude con una lettera aperta da parte della scrittrice che ha il merito di lanciare anche l’affascinante parola embryositter.
Sul nascere è un romanzo attualissimo, dallo stile avvincente e anche divertente.
Dirigente del Laboratorio di Embriologia presso l’Ospedale di Marcianise, ricordiamo Carolina Sellitto già autrice di Manipolazioni e Sole di Plastica anche per le sue opere teatrali (Sul nascere è, infatti, un adattamento di una sua opera) e per le apparizioni al Maurizio Costanzo Show, risalenti agli anni 90. Oggi è possibile seguirla su facebook sulla pagina Oxygen (in cui si avvale della collaborazione di Giovanni Brancaccio), finestra sempre aperta su quello che succede nel mondo della scienza,
Abbiamo incontrato Carolina Sellitto per rivolgerle alcune domande e toglierci qualche curiosità su temi forse ingiustamente ritenuti ostici e spesso bistrattati da chi fa informazione.
1.Quando e, soprattutto, perché ha sentito il bisogno di scrivere su un tema così ”rischioso”, come quello della fecondazione assistita ?
E’ un bisogno cresciuto man mano, alimentato da tutte le volte, tantissime ormai, che mi apprestavo a utilizzare il micromanipolatore per inserire lo spermatozoo nell’ovocita. Quel gesto, seppure meccanico, riusciva a racchiudere tutta la bellezza della vita.
2. Da stimata embriologa qual è, quanto le dà fastidio l’espressione ”mamma surrogata”? Cos’è che gli italiani in primis, secondo lei, ancora non comprendono?
Mi da’ fastidio l’arroganza che c’è in questa espressione, e la possibilità che offre alla gente comune di essere fraintesa. Il mio “embryositter” rende l’idea del ruolo tecnico di chi porta avanti una gravidanza al posto di chi non lo può fare senza offrire il fianco a chi non ne capisce ancora nulla di queste cose.
3.Perché c’è ancora molta ostilità nei confronti di possibilità come quelle offerte dalla fecondazione assistita?
La gente ha paura del nuovo, delle possibilità che la tecnologia offre. Dimentica che se non ci fosse la conoscenza noi avremmo ancora paura dei fulmini credendoli un segnale degli Dei.
4.L’affascinante incastro tra teatro e scienza è una costante ispirazione nella sua vita. Chi la conosce, lo sa. Dunque, la nostra vita è anche teatro?
Altrochè.
5.Il libro stesso si ispira ad una sua opera teatrale. Come ha fatto, durante gli anni, a far combaciare questi due mondi apparentemente così distanti (forse solo per noi profani)? C’è un punto preciso in cui si intersecano?
Credo che le Arti si intersechino sempre fra di loro. Quello che piace a me, in particolare, è intersecare la Scienza con l’Arte.
6. Sul nascere è un titolo che dà la sensazione di qualcosa che ”ancora non è”, che resta in bilico in un fermento di idee…del resto, lei è così, sempre pronta a mettersi in gioco, a sperimentare e dare tutta se stessa nel lavoro. C’è qualche reazione che spera di suscitare nei lettori? Un maggiore avvicinamento alla scienza?
Avvicinare la Scienza alla gente è il mio sogno. Ed è per questo che faccio la trasmissione Oxygen, primo esperimento di TV solo su Facebook e creata per quegli utenti, insieme al mio compagno di lavoro il prof Giovanni Brancaccio. E’ una faticaccia mi creda organizzare gli ospiti e le puntate. Ma il successo che stiamo avendo ci ripaga di tutto
7.”Embryositter” è una provocazione?
No, è una spiegazione.
8.In ultimo, senza pretenziosità, le chiedo di lasciarci con una citazione tratta dal suo libro, che possa diventare un invito a riflettere sull’esistenza, con i suoi rischi ed i suoi drammi.
Scelgo questa: “L’Arte incita la Scienza a trovare le risposte”. Sul Nascere, C1V Edizioni. E seguiteci sulla Pagina Oxyfen di FB ogni Sabato alle 15 in diretta.
L’ansia è un’emozione positiva. Normalmente ha il ruolo di richiamare l’attenzione, di mettere in guarda da certe situazioni di pericolo, di orientare verso azioni necessarie per la sopravvivenza. E’ presente nell’uomo sin dall’alba della sua esistenza come campanello d’allarme in un ambiente carico di minacce. Ci sono paure e ansie che consideriamo ragionevoli, come quelle in reazione agli eventi di Parigi, e altre invece che riteniamo “sbagliate“.
Si tende a considerare patologica l’ansia che prosegue anche dopo la fine di eventi pericolosi, perché mantiene in uno stato permanente di tensione che compromette le capacità operative e di giudizio. In realtà che la minaccia sia reale o presunta, immaginata o anticipata è comunque in relazione ad una qualche forma di pericolo che la persona percepisce e come tale va sempre presa in considerazione.
<<La paura del pericolo è diecimila volte più agghiacciante del pericolo stesso: il peso dell’ansia ci pare più greve del male temuto>> disse una volta lo scrittore Defoe, e come dargli torto. Spesso abbiamo paura della paura piuttosto che di una reale minaccia, temiamo le nostre reazioni, di scoprire qualcosa di noi che non ci piace, ed ecco che monta l’ansia.
I fatti di Parigi sono “passati” ma per la loro caratteristica di imprevedibilità, aggressività, disumanità, hanno stimolato in tutti noi sentimenti di terrore, non controllo, fragilità e vulnerabilità – che si esprimono attraverso la percezione del rischio in ogni angolo, la diffidenza, il blocco esplorativo, la chiusura – che dureranno molto tempo, perlomeno fino a che non saremo riusciti a ricostruire un significato coerente che dia ai fatti un senso di minore imprevedibilità (se ci si riesce) e non ci saremo ricollocati in una posizione di maggiore controllo rispetto a quello che ci possiamo aspettare dall’esterno.Ognuno ha un suo modo per elaborare gli eventi a qualcuno riuscirà a farlo più velocemente di altri. A volte il pericolo esterno si combina con il senso di incapacità a fronteggiare il rischio più interno di emergenza emotiva. Situazioni di instabilità relazionale e/o lavorativa, legami conflittuali, possono aumentare la suscettibilità all’ansia poiché l’individuo percepisce meno la protettività dei suoi riferimenti e si sente più fragile e vulnerabile. L’imprevedibilità di certi avvenimenti minacciosi ha allora l’effetto di potenziare e amplificare certe naturali predisposizioni personali offrendo una prova di quanto i pericoli siano esterni.
L’ansia ha, quindi, una funzione protettiva e preventiva, diventa disfunzionale quando ha più un effetto paralizzante, se non si è capaci di gestirla se si rimane impantanati in ruminazioni cortocircuitanti – a volte le ruminazioni sono legate all’incapacità di focalizzare e dare un nome a un’emozione – e l’organismo permane in uno stato di, apparentemente inutile, iperattivazione.
Un’ansia è più difficile da gestire quando non si riesce a ricostruirne il significato, quando viene vista solo come un problema e non si è in grado di contestualizzarla, cioè di creare un legame tra fatti contingenti ed attivazione ansiosa. Quando le persone sono particolarmente incapaci di dare significato all’ansia perché storicamente non abituati a coglierla come emozione questa si manifesta soprattutto nei suoi aspetti più somatici: palpitazioni, tachicardia, dolori al petto, senso di soffocamento, nausea, vertigini, paura di impazzire, paura di morire, ecc…manifestazioni che si prestano ad una lettura estranea dell’ansia che in quanto “corpo estraneo” deve essere eliminato prima possibile.
La sintomatologia organica assomiglia alle prime fasi di un infarto e spesso è accompagnata da un senso di pericolo o di catastrofe imminente, sensazioni che spingono di più verso una gestione farmacologica che psicologica del problema. I farmaci riducono temporaneamente l’ansia ma non cambiano il modello di apprendimento ed elaborazione che ne è alla base e che perpetua le sue manifestazioni meno funzionali.
Se in una persona per esempio l’ansia è l’espressione della sofferenza per le eccessive pressioni percepite nell’ambiente lavorativo e/o familiare, una soluzione che la elimina, chimica o magica che sia, la metterebbe paradossalmente più a rischio di collasso perché permarrebbe in situazioni che la stressano senza più neanche la “spia luminosa” a metterla in guardia.
Umberto Veronesi è morto. Oncologo, politico, sostenitore di grandi campagne. Veronesi, spentosi oggi a Milano, avrebbe compiuto 91 anni il 28 novembre prossimo, è stato un personaggio eclettico e che ha lasciato il segno in vari campi, legando il suo nome agli studi contro il cancro ma anche all’appoggio di campagne sociali al centro di accese polemiche come, ad esempio, quella a favore dell’eutanasia. Diceva spesso di non avere paura della morte ma di essere anche forte sostenitore di ogni lotta alla sofferenza fisica e psichica del malato. Una personalità forte ed anticonformista, anche nel rapporto con la moglie Sultana Razon dalla quale ha avuto sei figli e che, in un libro, ha raccontato delle relazioni extraconiugali del marito e di quando, mentre guidava, le rivelò di aver avuto un bambino da un’altra donna.
Nato a Milano il 28 novembre 1925, Veronesi si è laureato in medicina e chirurgia all’università statale di Milano nel 1952 e dopo alcuni soggiorni all’estero è entrato all’Istituto nazionale dei tumori come volontario, diventandone direttore generale nel 1975. Nel 1965 ha partecipato alla fondazione dell’Associazione italiana ricerca sul cancro (Airc) e ha fondato nel 1982 la scuola europea di oncologia. È stato anche socio fondatore dell’Associazione italiana di oncologia medica (Aiom). Tra i suoi numerosi incarichi, anche quello di presidente dell’Organizzazione europea per la ricerca e la cura del cancro dal 1985 al 1988. Nel 1991 ha fondato, diventandone direttore scientifico, l’Istituto europeo di oncologia (Ieo). Nel 2003 è stata anche istituita la Fondazione Umberto Veronesi. Numerosissimi i suoi studi relativi soprattutto al cancro al seno: Veronesi è infatti stato il primo a promuovere il rivoluzionario approccio della cosiddetta chirurgia conservativa per la cura dei tumori mammari, dimostrando come la tecnica della quadrantectomia garantisse livelli di sopravvivenza alle pazienti, purché abbinata alla radioterapia, analoghi a quelli ottenuti con l’intervento più invasivo di asportazione della mammella, la mastectomia.
UMBERTOVERONESI POLITICO, LA PRIMA LEGGE ANTIFUMO IN ITALIA
Il 25 aprile 2000 è stato nominato ministro della Sanità nel secondo governo Amato fino al giugno 2001. Dal 2008 al 2011 è stato senatore del parlamento italiano eletto con il Partito Democratico. Nel 2010 Veronesi è stato poi nominato presidente dell’Agenzia per la sicurezza nucleare italiana, rinunciando all’incarico di senatore. In qualità di ministro si è battuto in particolar modo per la legge antifumo: grazie alla norma da lui voluta, per la prima volta in Italia è stato sancito il divieto di fumo nei luoghi pubblici.
LE SUE CAMPAGNE, DAL VEGETARIANISMO ALL’EUTANASIA
Tra le varie campagne promosse da Veronesi anche quella, iniziata nel 1995, per la depenalizzazione e la legalizzazione delle droghe leggere con l’obiettivo di giungere ad una regolamentazione dei derivati della canapa, principalmente per uso terapeutico. Veronesi si è anche schierato a sostegno della validità degli organismi geneticamente modificati. Nel 2005, durante un convegno pubblico, Veronesi affermò anche che a provocare il cancro più che gli Ogm sarebbero alcune tossine contenute in particolari alimenti, affermazione che suscitò varie polemiche e critiche del movimento slow food. L’oncologo, a sostegno degli Ogm, in una dichiarazione del 2006 sottolineò tuttavia come l’ingegneria genetica sia «un metodo estremamente intelligente per combattere la fame nel mondo, per ridurre l’impatto dei pesticidi e per contrastare la desertificazione».