Jeff Vander Meer e l’indagine sulle mutazioni dell’uomo contemporaneo nel New Weird ‘Trilogia dell’Area X’

Nella ‘Trilogia dell’Area X’ Jeff Vander Meer indaga le mutazioni dell’uomo contemporaneo catapultando il lettore in un luogo dall’atmosfera perturbante; una zona enigmatica, dove fenomeni di origine sconosciuta alterano le leggi del tempo e della biologia. Il tema della metamorfosi è senza dubbio uno dei più frequentati e fecondi nell’immaginario letterario di tutti i tempi. Ne troviamo esempi già nei poemi omerici e, in ambito romano, nel capolavoro ovidiano. Dante impiega la metamorfosi come uno dei meccanismi del contrappasso, Stevenson la lega ai chiaroscuri della psiche umana, Kafka la innesta nella modernità. Il termine metamorfosi deriva dal greco: indica un passaggio di forma, per cui il soggetto che la subisce muta nell’aspetto esteriore mantenendo però inalterata la propria identità. Si tratta di un fenomeno comune: basti pensare alla crescita degli anfibi o al ciclo delle piante. Probabilmente proprio l’osservazione di queste manifestazioni della natura ha contribuito all’elaborazione dei miti da parte dell’uomo antico, e forse è possibile che continui a farlo ancora oggi. Eliade ci ricorda che il mito non è mai completamente scomparso: è vivo nei sogni, nelle fantasie e nelle nostalgie dell’uomo moderno. E gli scrittori, dunque? Sono ancora dei mitografi?

Jeff Vander Meer sicuramente ci prova. Nella Trilogia dell’Area X, una delle sue ultime fatiche letterarie, ogni volume costituisce il tassello di un’inedita analisi delle nuove mutazioni dell’uomo contemporaneo. Autore di racconti e romanzi, giornalista per il New York Times, il Guardian e l’Huffington Post, Jeff VanderMeer è noto per aver coniato la definizione di New Weird, genere in cui si iscrivono pienamente anche i romanzi che compongono questa trilogia. Il New Weird è una tipologia di fiction di ambientazione realistico-urbana che sovverte la classica idea di spazio diegetico riscontrabile nella fantasy tradizionale, per lo più scegliendo modelli di mondo reale complessi e verosimili come punto di partenza per la creazione di ambientazioni che combinano elementi fantascientifici e fantasy. Il New Weird ha un’essenza profondamente attuale che, per la costruzione di stile, tono ed effetti, spesso ricorre a elementi tipici dell’horror surreale o trasgressivo, in combinazione con gli stimoli dati dall’influenza di scrittori della New Wave o di movimenti affini (includendo anche precursori come Mervyn Peake e i decadenti francesi e inglesi).

Annihilation, primo romanzo della serie, viene tradotto nel 2015 da Cristiana Mennella per Einaudi con il titolo di Annientamento. Le pubblicazioni proseguono nello stesso anno con Autorità e Accettazione, mentre nel 2018 viene distribuito da Netflix l’adattamento cinematografico del primo capitolo (Annientamento, con regia di Alex Garland e Natalie Portman come protagonista). Tutti i volumi sono stampati in pregevoli edizioni cartonate con copertine illustrate da Lorenzo Ceccotti e sovracoperte in plastica trasparente.

Già dall’estetica delle illustrazioni (polarizzate sui colori primari ma raffiguranti soggetti aggrovigliati, mimetizzati, inquietanti) è possibile penetrare nell’atmosfera perturbante dell’Area X, una zona della Terra in cui un fenomeno di origine sconosciuta sta alterando le leggi fisiche, trasformando gli animali e agendo sullo scorrere del tempo. Nessuno vive più su quel tratto di costa, delimitato da un confine invisibile e (forse) in movimento. Il governo, attraverso l’operato dell’agenzia Southern Reach, nasconde l’enigma all’opinione pubblica e cerca di indagare inviando diverse spedizioni esplorative, i cui membri di solito non fanno ritorno. Chi riesce compare inspiegabilmente in luoghi che gli erano cari senza passare dal perimetro del confine; non fornisce resoconti esaurienti, ha vuoti di memoria e vive in uno stato di apatia, come fosse soltanto l’involucro della persona che era. Ogni reduce muore poco dopo il ritorno, sempre a causa di aggressive forme tumorali.
La dodicesima spedizione, di cui seguiamo direttamente le sorti, è composta da sole scienziate, donne che non conoscono nulla l’una dell’altra, nemmeno il nome. L’identità dei personaggi è riassunta nella loro funzione: un’antropologa, una topografa, una psicologa (nonché direttrice dell’agenzia governativa) e una biologa.

Il punto di vista adottato nel primo libro è quello della biologa, che si offre volontaria nella speranza di ritrovare il marito, uno dei membri dispersi della spedizione precedente. Il suo viaggio assume ben presto coloriture diverse: la ricerca dell’amato la guiderà nelle profondità del suo stesso essere, in una parabola di auto-annientamento. Il contatto con una misteriosa luminosità e la simbiosi con un ambiente ormai alieno generano l’inevitabile mutazione, scandita da diverse fasi: iniziazione, integrazione, immolazione, immersione e dissoluzione. Annientamento si conclude lasciando insoluti parecchi interrogativi, ma la situazione comincia a dipanarsi con Autorità, il secondo capitolo della trilogia. L’io narrante è ora John Rodriguez, o meglio “Controllo”: così si fa chiamare il direttore vicario della Southern Reach. Oltre a cercare di fare chiarezza sui misteri dell’Area X, Controllo dovrà districarsi nelle complesse dinamiche che regolano i rapporti umani all’interno dell’agenzia e, soprattutto, tentare di penetrare nella mente della biologa, che ora si identifica come “Uccello Fantasma”. Questo capitolo intermedio, quasi sospeso, lascia presagire la catastrofe che si compirà solo nell’ultimo libro: Accettazione. L’Area X sembra ormai fagocitare le vite di tutti i personaggi, i cui punti di vista cominciano ad alternarsi, caotici, alla ricerca della verità. Una verità racchiusa nel passato, ma anche nelle singole identità e nelle forze che guidano l’essere umano come specie, non ultima: l’amore.

I primi critici dell’opera di Vander Meer hanno posto l’accento innanzitutto sulla portata ecologista della narrazione: il primo elemento che muta è infatti la natura stessa che, attraverso la contaminazione con un fattore estraneo, si “depura” dalla centenaria azione distruttiva operata dall’uomo, quasi fosse una vendetta. Il rapporto con la natura è sicuramente uno dei temi portanti nell’architettura della trilogia: emblematico il fatto che il primo uomo infetto sia proprio il guardiano di un faro, un uomo che – tra l’altro – si è allontanato tragicamente da Dio. Se il faro rappresenta il tentativo di far luce su una natura che rimane un mistero, l’uomo che perde la propria spiritualità può solo osservare, senza comprendere, un mistero più grande e più forte di sé.

La biologa sembra tentare un ricongiungimento: anche se guidata da una razionalità di matrice scientifica, nella sua dissezione della realtà in piccoli frammenti osservabili al microscopio risiede la volontà di comprendere e integrarsi in una natura che è per lei ragione di vita (più di quanto lo era, forse, il suo stesso matrimonio). Questa decontaminazione del pianeta sembra infine riecheggiare le teorie filosofiche inerenti alla ciclicità del tempo, l’eterno ritorno, l’apocatastasi: quel ritorno allo stato originario che scandirebbe l’inizio di un nuovo ciclo, una palingenesi non necessariamente negativa, dunque. Al di là di questo, ci sono buone ragioni per ritenere che il fulcro della ricerca di Vander Meer risieda più nel tema dell’identità, che nella metafora ecologista. L’uomo è parassita di se stesso, della propria mente che sembra sciogliersi capitolo dopo capitolo, avvinta dai misteri dell’area X ma anche dal potere che altri uomini esercitano su di essa. La scoperta o la difesa della propria identità diventano elementi imprescindibili per ogni personaggio, man mano che tutte le certezze si incrinano.

Follia, allucinazione, controllo della mente: in queste atmosfere dickiane emerge con chiarezza l’inevitabile frammentarietà della coscienza, l’impossibilità – per l’uomo moderno – di accedere a una visione completa del reale e di se stesso. La stessa consapevolezza che ispirò i poeti del frammentismo novecentesco o la poetica dell’incompiuto alla base delle sculture di Auguste Rodin. La riflessione sulla metamorfosi che scaturisce da questi romanzi sembra quindi approdare a un piano ancora più elevato, se la si applica in chiave sociale, come metafora della modernità in perenne mutazione (quella condizione che Bauman ha descritto brillantemente attraverso il concetto di liquidità). Alessandro Baricco nel Saggio sulla mutazione parla di un orlo della mutazione che avanza, e corre dentro di noi.

Siamo mutanti, tutti. […] Ognuno di noi sta dove stanno tutti, nell’unico luogo che c’è, dentro la corrente della mutazione.
Riecheggiando il mito e attingendo a piene mani alla dimensione del fantastico, Vander Meer ci ricorda quanto questi mezzi risultino attinenti a un’analisi della realtà. Se attraverso le categorie del molteplice, del cangiante e dell’instabile si ottiene una rappresentazione assai verosimile della realtà; l’irreale, l’immaginario e il fantastico possono essere, di per sé, metamorfosi del vero.

Di Buzzati è stato detto:

Ci fa credere nell’incredibile, perché i suoi segreti, le sue magiche coincidenze, le sue rilevanti metamorfosi, i suoi suscitanti sortilegi, sono un inverosimile che ci aiuta a esaurire il verosimile.
Si tratta, dopotutto, della stessa considerazione cui approdò, dopo un lungo studio sulla fiaba, un altro autore del fantastico italiano: Italo Calvino:

E per questi due anni a poco a poco il mondo intorno a me veniva atteggiandosi in quel clima, a quella logica, ogni fatto si prestava a essere interpretato e risolto in termini di metamorfosi e incantesimo […]. Ogni poco mi pareva che dalla scatola magica che avevo aperto, la perduta logica che governa il mondo delle fiabe si fosse scatenata, ritornando a dominare sulla terra. Ora che il libro è finito posso dire che questa non è stata un’allucinazione, una sorta di malattia professionale. È stata piuttosto una conferma di qualcosa che già sapevo in partenza, […] quell’unica convinzione mia che mi spingeva al viaggio tra le fiabe; ed è che io credo in questo: le fiabe sono vere. Sono, prese tutte insieme, nella loro sempre ripetuta e sempre varia casistica di vicende umane, una spiegazione generale della vita […].
(I. Calvino, Sulla Fiaba, Mondadori, 1995)

 

Maria Ceraso

‘Di un’ingannevole bellezza. Le ‘cose’ dell’arte’, l’aporeticità dell’arte secondo il filosofo teoretico Massimo Donà

Per troppo tempo la filosofia italiana, ancora nella seconda metà del secolo XX, ha patito giudizi ingenerosi indotti dalla vulgata diffusa dalla cultura neo-azionista, stando alla quale, a causa dell’egemonia neo-idealista nella prima metà del secolo ‘breve’, il sapere teoretico del nostro paese sarebbe stato connotato da un tratto provinciale e da marginalità speculativa. In seguito, data la marcia trionfale dell’analitica anglosassone, la speculazione italiana, nonostante qualche nome di prestigio, non sarebbe stata più in grado di colmare il gap d’origine. Non si tratta qui di voler proclamare primati, ma ci pare indubitabile, alla luce del dibattito in corso in tema, che lo schema storiografico esposto, sia infondato e fuorviante. Attorno ai grandi nomi del pensiero italiano del secondo Novecento si sono formate vere e proprie scuole che, sia pur il più delle volte controcorrente rispetto all’indirizzo generale del pensiero europeo, hanno dato ottima prova di sé. Basti qui fare, tra gli altri, i soli nomi di Luigi Pareyson, Emanuele Severino e Massimo Cacciari. Tra i filosofi italiani contemporanei Massimo Donà occupa un posto di rilievo. Egli si è formato dapprima con Severino e, successivamente, con Cacciari, Vitiello e Sini. Sta perseguendo, con coerenza, un percorso teoretico originale e fuori dal coro. Nella sua ultima pubblicazione, Di un’ingannevole bellezza. Le ‘cose’ dell’arte, edita da Bompiani, riapre la discussione sul tema che ha presentato in Teomorfica. Sistema di estetica, uscito nel 2015 per i tipi dello stesso editore milanese.

Donà, lo ha ricordato Mario Perniola nel suo recentissimo, Estetica italiana contemporanea, ha sviluppato una concezione aporetica dell’arte: essa è il luogo dell’enigma e, per questo, può indicare all’uomo contemporaneo un modo di vivere l’aporia che non induce allo scoramento nichilista ma, al contrario, rende capaci di euforia, di ben sopportare la vita. Dei tre topoi estetici attraversati in Teomorfica, solo uno pare essere in grado di garantire, a dire del filosofo, il futuro all’arte e alla bellezza: il topos tomista, i cui esiti novecenteschi sono leggibili, tra gli altri, nelle opere di Marcel Duchamp, René Magritte e Man Ray. Pertanto, i saggi che compongono il libro, proseguono il discorso, già intrapreso, su tale via a partire dal rinvenimento del mistero costituito dalla bellezza.

La bellezza ci pone di fronte alla sacralità delle cose, al loro non essere riducibili alla dimensione di mezzi-per, legati a significati e finalità date. Ogni oggetto bello è, innanzitutto, semplicemente colto nella sua dimensione di esistente, di presenza. In ogni espressione della bellezza si palesa quella struttura che Tommaso riteneva esser propria di Dio. Ciò vuol dire che ogni cosa, se dotata di bellezza, sarà cosa e insieme Dio, particolare e universale, essere e nulla. La bellezza si configura per Donà essenzialmente come inganno: essa è sempre doppia e ambigua. Il pensatore veneziano rileva come nell’arte i distinti riescano ad esibire il loro non essere affatto distinti. Ne ebbero contezza Novalis e Breton: entrambi consapevoli che il furore ermetico-alchemico aveva permesso

di sciogliere le morte contrapposizioni, di sciogliere, cioè, il metallo vile […] e farlo diventare per una vera e propria alchimia del verbo […] oro puro.

Il furor divampa anche nella creazione artistica. Arte come magia finalizzata a smuovere il noto, il de-finito, figlio del dominio del logos, al fine di alludere allo sfondo magico-poetico del mondo. Per Novalis l’uomo è in rapporto con le parti costitutive dell’universo: sta alla nostra attenzione indirizzarci verso l’una o l’altra, far prevalere un rapporto dato. Eros è fuoco che alimenta le azioni magiche, pertanto l’arte era, in illo tempore, espressione chiarissima del fare magico. La ratio calcolante ci impedisce di averne piena coscienza. L’immaginazione non è, come Kant avrebbe voluto, semplice facoltà, ma forza incondizionata che ci congiunge simpateticamente al tutto.

Lo comprese nella sua disputa animico-tellurica contro lo spirito logocentrico, il cosmico monacense Ludwig Klages:

Il fondamento […] può rivelarsi solo là dove la coltre categoriale familiare all’intelletto sappia accoglierlo dismettendo l’habitus che, solo, sembra in grado di garantire risultati solidi e ben fondati.

L’arte autentica, come la magia, ci dice di un’opposizione assoluta vivente in ogni cosa, ci dice di un’ impossibile che, facendo, genera un limitato quale presenza dell’illimitato. Nel Seicento, in pieno Barocco, ne ebbe sentore Giambattista Basile con il suo Lo cunto de li cunti. Nei suoi quarantanove racconti si susseguono alterazioni della catena causale, che rendono possibile l’esplicarsi del mondo alla rovescia. Esso ha i tratti di uno specchio deformante che, in realtà, è profonda descrittiva della vita, del suo mistero, molto più di quanto lo sia qualsiasi resoconto di fatti reali. La fiaba ed il racconto fantastico risultano massimamente ‘veri’ in misura inversamente proporzionale alla loro plausibilità.

Il fantastico delucida la flebile distanza che distingue l’esperienza dalla fantasia, dicendo come il noto contenga sempre l’ignoto. Il Barocco e il fiabesco, per Donà, invitano a rovesciare il quadro sistematico approntato da Platone e da buona parte della filosofia classica. Nel Seicento, nella letteratura del secolo d’oro, nel Don Chisciotte torna a darsi ciò che Bruno già sapeva: è la natura ‘individuale’ a mostrare il sigillo divino. Il cavaliere dalla trista figura, emblema per antonomasia del sapere altro, non poteva che essere ‘malinconico’ (nel senso attribuito alla malinconia da Dürer). Egli era incapace di accettare le inderogabili ed apodittiche leggi che dominano la vita. Nato nell’età del ferro, il suo agire tendeva a ripristinare l’età dell’oro. In considerazione di ciò l’importante è che la spirale dell’azione non trovi mai ‘un fine’, e neppure una fine.

Tale visione è presente nel teatro di Shakespeare, nel Sogno d’una notte di mezza estate e nella Tempesta. Il bosco diviene l’ambientazione prediletta di azioni insensate, folli, non-logiche o, comunque, attestanti un’altra logica. Del resto, nei racconti mitici di tutti i popoli, il bosco dà ricovero alle passioni amorose e alla cerca del Sé. Non è casuale che tale paesaggio d’anima abbia attratto il trascendentalista Emerson e il suo discepolo Thoreau, che nelle foreste nord-americane visse al fine di dimostrare che ognuno può farsi protagonista di un’esperienza realmente unica e irripetibile e che non vi sono modelli. Il bosco è al centro della narrativa di Buzzati, tanto nel Segreto di bosco vecchio quanto in Barnabo delle montagne. Nello scrittore bellunese, l’ambiente boschivo e montano diviene luogo di possibili iniziazioni, oltre il dominio della coerenza e del progresso, fondati entrambi sull’ideale dell’efficacia. Per Buzzati il mistero è sempre davanti ai nostri occhi. Così, la goccia d’acqua, protagonista di un suo bellissimo racconto, sale i gradini di una scala, testimoniando l’esistenza di fatti naturali che non si comportano in quanto tali. La goccia dice l’irruzione di una dimensione ignota nel mondo regolare dei fenomeni fisici. Lo scrittore porta alla luce, come in ogni arte autentica, il tratto inconcettualizzabile del reale, già annunciato nella Tempesta di Shakespeare. In essa nulla, a cominciare dalla tempesta iniziale, è ciò che sembra essere, domina l’incantesimo e la metamorfosi di ogni cosa mostra che ogni ente è manifestazione del ni-ente.

La custodia del nulla di ente, del ni-ente, dell’origine, è affidata alla bellezza, questa la sua meraviglia, come rammentano le mirabolanti avventure di Alice pensate da Carroll e discusse magistralmente da Donà. La bellezza è libertà e, proprio in funzione di ciò, richiede il coraggio dell’azzardo, dell’euforia e della serena sopportazione. L’esperienza estetica ri-propone, per queste ragioni, nella contemporaneità, la medesima interrogazione originaria della filosofia, in quanto determinantisi come modi dell’unico possibile inizio di ogni discorso che, in quanto veritativo, sarà destinato ad un’infinita erranza.

In tale modalità, l’arte potrà tornare a mostrare l’eccedenza del reale, e sarà allora davvero, per usare le parole di Gianni Carchia, altro grande teoreta italiano di cui poco si discute, ‘arte della filosofia’. Il danzatore è figura paradigmatica dell’arte della filosofia. Questi è simile a Talete, protofilosofo che, per guardar le stelle, cadde in un pozzo, irriso da una servetta tracia. Il milesio, mirando all’alto, nel precipitare rimase senza respiro e, per un attimo, senza pensiero, pervaso, come ha rilevato di recente Romano Gasparotti, da un sentimento, a partire dal quale il pensiero può rinascere e rigenerarsi.

 

Giovanni Sessa-L’intellettuale dissidente

Novelle per un anno, i turbamenti dei personaggi di Pirandello

Luigi Pirandello scrisse le Novelle per un anno in seguito ad un contratto col <<Corriere della sera>>; in realtà egli ne scrisse solo 241 su un totale di 365. Altre 15 furono pubblicate postume. Il treno delle novelle pirandelliane si configura come luogo letterario, dove le fragili e dolenti vite dei protagonisti s’incontrano e si scontrano, in un processo dialettico culminante spesso nell’autocoscienza. A fare da sfondo alle vicende della raccolta Novelle per un anno, stazioni desolate e desolanti, all’interno delle quali prendono corpo le storie personali di personaggi, che, per singolarità e varietà, possono ben rappresentare tutto lo spettro dell’umano vivere.

Novelle per un anno: il treno come strumento della conoscenza di sé

L’avvento delle ferrovie annunciava la scomparsa graduale di un’epoca, cui ne sarebbe subentrata una nuova, dominata dal ferro e dall’acciaio, dal mito della velocità e dalla ricchezza.
In questo contesto di grandi cambiamenti, non stupisce il fatto che nella sfera letteraria il treno assurga a vero e proprio Personaggio, che si carica di volta in volta di valori positivi e/o negativi. Infatti, ora diviene strumento di dominio dell’uomo sulla natura, simbolo tout-court del progresso, poi strumento alienante, distruttivo, demoniaco, proprio perché espressione di quel particolare sviluppo socio -economico che vedeva l’industria occupare un posto prioritario rispetto all’agricoltura.
Scrittori come Carducci, Dostojevskyj, Tolstoj, Buzzati, tanto per citarne alcuni, hanno avuto un rapporto ambivalente col treno. Nel senso che, oltre ad evidenziarne le peculiarità esistenziali, ne hanno, con largo anticipo, paventato la portata destrutturante nei confronti della tradizione, ponendo inquietanti interrogativi sullo sviluppo tecnologico e sul progresso, di cui il treno, appunto, era inoppugnabile simbolo.

I vari personaggi della novellistica pirandelliana, ancora ignari, affollano turbati e confusi i predellini, si accomodano nelle carrozze anguste come le loro anime e iniziano il viaggio verso luoghi fisici ignoti, come la loro interiore dimensione spirituale: Il treno trascina dietro di sé i vagoni e dentro i vagoni trascina i personaggi delle Novelle per un anno di Pirandello, ciascuno verso il suo destino umano e narrativo. Come a dire che in questo percorso conoscitivo non esistono differenze sociali, perché l’intero campionario umano è accomunato dal medesimo destino.

La Balia: la vicenda di Annicchia

Il desiderio dei protagonisti di scappare dalle loro grigie esistenze, li porta spesso a tagliare i legami con la Terra Madre, il che, in alcuni casi, comporta la perdizione; è il caso di Annicchia nella Balia, che, per combattere la povertà, lascia il paese, il suo bimbo neonato e contro il volere della suocera che la maledice. Questa sorta di maledizione sembra colpire da subito la protagonista: il treno da Napoli viaggia in forte ritardo e il datore di lavoro, in stazione, distratto dalle cupe elucubrazioni familiari, finisce col cercare la donna con un’ora di ritardo. La trova “nell’ufficio della dogana, dove si visitano i bagagli, che piangeva seduta sul sacco”. Annicchia è basita, i doganieri non possono darle conforto, perché inadeguati a risolvere il suo problema di donna disorientata,  “perduta”, così come è perduta la sua vita precedente. L’ “oggetto – stazione”, dunque, fa da sfondo a questa che potremmo definire l’annullamento della precedente identità a favore di una nuova, che però ha bisogno del pagamento di un simbolico dazio (il commiato da una parte di sé) per essere sdoganata.

Il profilo comprovato di Annicchia, che si rivela superato, nella nuova realtà è costretto a fare i conti con un sé nuovo e discrepante. L’arrivo dell’avvocato Mori rassicura solo in parte la povera donna. Inconsciamente, infatti, lei sente di trovarsi in una realtà che non le appartiene, in cui si sente fuori posto; prova ne è che quando sale in vettura si rannicchia, per occupare il meno spazio possibile. Poi però, sfinita si lascia andare ai suoi pensieri “sentiva soltanto il sollievo d’esser giunta, finalmente; d’aver superato il terrore della traversata sul piroscafo da Palermo a Napoli…” La sensazione di sollievo è dettata dall’aver superato indenne lo Stretto di Messina e quindi di essere sopravvissuta all’acqua. L’acqua come elemento primordiale è tanto simbolo della vita quanto della morte. In questo caso, l’associazione di questo elemento al treno può essere letta e interpretata come la morte della vita precedente e il conseguente brutale trapasso (“lo sgomento della furia del treno”) in un’altra dimensione esistenziale.

Non può essere dimenticato, comunque, che l’ambiente ferroviario fa da sfondo anche a un altro processo di chiarificazione interiore, quello relativo all’avvocato Ennio Mori, che, finora, nell’economia interpretativa, è stato in un certo senso trascurato per fare spazio alla protagonista. Nondimeno, il suo personaggio compare per primo sulla banchina della stazione e, per i comportamenti impazienti che manifesta: “sbuffava […] o si grattava la faccetta ossuta […] o si aggiustava le lenti…”, si propone da subito come una figura molto stressata da conflitti e frustrazioni. In apparenza può sembrare solo infastidito, perché costretto a sbrigare una faccenda (il ricevimento della balia) che per banalità ne sminuisce il ruolo e, di conseguenza, la positiva percezione di sé. In realtà il suo malessere ha radici molto più profonde; perciò, quando apprende del ritardo del treno, e realizza che per il disbrigo dell’incombenza occorre più tempo del previsto, si lascia sfuggire quel “cose da pazzi!”, palese espressione delle sue contrastanti istanze interiori. A questo punto, l’avvocato si vede costretto a cercare in stazione un posto per aspettare, ma i sedili sono tutti occupati. Allora, si allontana per guadagnare un appoggio al muro “sotto l’orologio”, simbolo del tempo che passa, ma che l’avvocato, invece, compresso nelle sue riflessioni, riporta indietro attraverso la rivisitazione lucida e dissacrante del suo matrimonio.

Donna Mimma: la religione come ultimo appiglio

Anche nella novella Donna Mimma è il treno a determinare il cambiamento del destino della protagonista, intimamente radicata in un mondo arcaico e contadino, ove alla mammana si richiedeva non il titolo di studio, ma semplicemente perizia e umanità. In questa realtà ambientale, in cui il tempo sembra essersi fermato, l’orologio ricomincia a ticchettare con l’arrivo della bella e giovane ostetrica, ufficialmente abilitata alla professione, la “piemontesa”. A questo punto, diventa necessario per Donna Mimma prendere quel treno che deve condurla in città, sui banchi di scuola. Con queste premesse “l’intronamento e la vertigine del viaggio in ferrovia, il primo in vita sua”, rappresentano nient’altro che la proiezione del disagio psicologico di una donna non più giovane, costretta a interrompere la sua vita abituale per intraprendere un’avventura, scolastica e urbana, che, per profusione d’impegno e gap temporale, non le si attaglia. Risulta singolare che il flash back del viaggio cominci e finisca con l’invocazione a Gesù. In quell’iniziale “Gesù, la ferrovia!”, si coglie l’accostamento del sacro al profano; come se il primo potesse annullare gli effetti destabilizzanti del secondo. Come se la religione, vissuta come elemento di continuità col passato e la tradizione, potesse esorcizzare le incongruenze e le incognite di un presente da cui Donna Mimma vorrebbe fuggire, nel tentativo di recuperare le certezze e la stabilità emotiva precedenti all’arrivo della “piemontesa”.

In quest’ottica, il paesaggio che scorre fuori dal finestrino diventa la proiezione dell’ individuale modo di sentire della donna, ossia la percezione che l’ambiente a lei noto si sta dileguando, e con esso la stabilità del suo io più profondo. Ella avverte, seppure indistintamente, che il presente è scompaginato e tumultuoso, (“l’urto violento d’un palo telegrafico; fischi, scossoni”) e che il futuro, ambiguo come quel treno di cui non si intravede la sagoma, dovrà essere affrontato di volta in volta, nelle sue minacciose ed enigmatiche sfaccettature “e di tratto in tratto lo spavento dei ponti e delle gallerie, una dopo l’altra”. Frastornata dal carattere disarmonico del reale, e ancora incapace di realizzare ciò che le sta accadendo, Donna Mimma per non soccombere si aggrappa all’unico punto di riferimento rimastole, la religione “Gesù! Gesù!”.

Nelle Novelle per un anno, il viaggio in treno ha sbalzato la protagonista in una dimensione ambientale e sociale ingannevole e spersonalizzante, dalla quale ella cerca di difendersi, opponendo le sue piccole certezze di paesana. Ma la città, con la sua università, paradossalmente, la impoverisce nelle capacità e la irrigidisce in una “forma” in cui ella stessa non sa riconoscersi (Tremano, le sue manine, e non vedono più. Il professore ha dato a donna Mimma gli occhiali della scienza, ma le ha fatto perdere, irrimediabilmente, la vista naturale. E che se ne farà domani donna Mimma degli occhiali, se non ci vede più?”). La città, dunque, diventa “simbolo di un sapere arido, non sentito, fatto di formule e parole, contrapposto a un sapere senza formule né nomi, ma cresciuto con germinazione spontanea dal contatto con la vita, da un’esperienza lunga e serena, da un’attenzione semplice e amorosa alle cose”. Di ritorno al paese, la protagonista sarà rifiutata non solo dalle donne, che la percepiscono cambiata dal soggiorno cittadino, ma finanche dai suoi adorati bambini: “No: brutta donna Mimma! Non la vogliamo più”.

La veste: il drammatico viaggio di Didì

Molto più drammatico, invece, risulta il viaggio in treno per Didì, protagonista della novella La veste lunga, che, col fratello Cocò e il padre, parte da Palermo per raggiungere Zùnica, paesino dell’interno, dove l’aspetta il matrimonio con un uomo vecchio; matrimonio combinato dai suoi congiunti, contro il suo volere, per risolvere i problemi finanziari della famiglia.
Per l’occasione la donna ha dovuto dismettere l’abbigliamento abituale da ragazza sedicenne, e indossare “per la prima volta, una veste lunga”, simbolo del passaggio dall’infanzia alla maturità, o per meglio dire, dalla leggerezza innocente all’ obbligo di responsabilità che la vita adulta comporta ed esige. Da quel momento, la “veste lunga” avrebbe coperto, e per sempre, le sue gambette, le stesse che la sera prima Cocò, scherzando, “aveva salutato con ambo le mani”, a suggello della fine di una stagione della vita. Per tutta la notte, combattuta e angustiata, Didì aveva rimuginato su questa svolta esistenziale, di cui ignorava gli esiti, ma di cui, tuttavia, percepiva a istinto la negatività.

Al mattino però, la protagonista sembra aver raggiunto una condizione psicologica di rassegnata accettazione del nuovo ruolo, tant’è che si accomoda sul sedile del vagone ferroviario premurandosi di assumere una postura e un atteggiamento congrui al presente status da signora. A questa sua posa compunta, si contrappongono la postura “col capo abbandonato su la spalliera rossa […] tenendo gli occhi bassi e la sigaretta attaccata al labbro superiore” e il tono canzonatorio del fratello, le cui futili e quasi infantili provocazioni rimandano a una superficiale e vacua visione della vita, priva di ogni forma di sensibilità e, perciò, incapace di percepire i sentimenti altrui.Intanto il treno va, e, mentre il fratello si assopisce, la ragazza dà inizio a uno scandaglio interiore crudo e doloroso.

La donna comincia a osservare Cocò con gli occhi dell’anima, nel tentativo di far riemergere un passato felice, ma subito capisce che il dolce fratellino dell’infanzia ha lasciato il posto a un uomo cinico e arido, con sul volto i segni del cambiamento: “Le pareva ch’egli fosse come arso, dentro. E quest’arsura interna, di trista febbre, gliela scorgeva negli sguardi, nelle labbra, nell’aridità e nella rossedine della pelle, segnatamente sotto gli occhi”. Allora la ragazza,  ricerca il momento in cui ha avuto inizio questa metamorfosi e s’accorge, con orrore, che essa coincide con il periodo in cui Cocò ha indossato i “calzoni lunghi”, vale a dire, con la sua entrata in società. L’aver determinato la congiuntura temporale di quella radicale trasformazione, e, soprattutto, l’aver identificato nella sfera sociale la provenienza dei comportamenti abietti del fratello, produce in Didì, dapprima, sconcerto, poi paura di essere destinata alla stessa sorte. In quel momento, ella avverte il peso della “veste lunga”, simbolo della maturità, sui piedini di fanciulla. Questa innocente sensazione è sintomatica della sua inadeguatezza a entrare nel mondo dei grandi, per cui è meccanico e istintivo per la ragazza cercare con gli occhi il padre, da cui, inconsciamente, si aspetta rassicurazioni e protezione. Ma il padre, seduto dal lato opposto del vagone, attende serio ai suoi documenti di lavoro e non le rivolge neanche uno sguardo. Didì, allora prende atto, forse per la prima volta dalla morte della madre, della sua irreversibile solitudine. Solitudine che in quei tre anni, di mancanza dell’affetto e del supporto materno, aveva tentato inutilmente di affrontare e di arginare da sola, perché privata del sostegno morale degli uomini di casa, dediti alle loro vacue vite. Con gli occhi della memoria, la ragazza recupera mano a mano i ricordi e ne chiarisce il senso e la portata: alla morte della madre aveva fatto seguito un graduale e costante allontanamento del padre e del fratello dalla casa, intesa nella duplice accezione fisica ed emotiva. I due uomini avevano spostato il baricentro della loro vita fuori dalle mura domestiche, lasciandola preda del vuoto e della solitudine. Essi si erano mostrati interessati alla sua vita solo per proporle e imporle il matrimonio combinato e il conseguente viaggio. In un attimo, o forse in un’eternità, tutte le tessere del mosaico si erano ricomposte e Didì si trova nella crudele condizione di dover costatare il grigiore della sua vita, manipolata dal padre avido e interessato, sotto gli occhi indifferenti del fratello.

Intanto, il treno arranca su di una salita e procede lentissimamente “quasi ansimando”, ma in questo ansimare c’è la chiara allusione al doloroso processo di acquisizione di consapevolezza, esperito dalla protagonista, che ormai ha capito il gioco e, rifiutando di assumere la sua parte, si predispone a una lenta e solitaria agonia “per terre desolate, senza un filo d’acqua, senza un ciuffo d’erba, sotto l’azzurro intenso e cupo del cielo” .
In quell’opprimente atmosfera: “Non passava nulla, mai nulla davanti al finestrino della vettura; solo di tanto in tanto, lentissimamente, un palo telegrafico, arido anch’esso, coi quattro fili che s’avvallavano appena”. Ella, tradita dalle menzogne e dall’indifferenza dei suoi affetti più intimi e viscerali, non vede altra soluzione al suo problema se non la morte; cosicché, in un moto lucido e disperato, si avvelena, sottraendo una fialetta di medicinale al padre.

Il viaggio reale tra Palermo e Zùnica, dunque, è diventato viaggio interiore, oltre che promotore di una presa di coscienza della condizione della donna all’interno della famiglia. Famiglia, cellula basilare della società, ove si annidano solitudine e incomunicabilità. Luogo dove, spesso, si consumano vendette e si perpetrano soprusi, come quelli che, tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, Strindberg andava rappresentando nel suo teatro. Egli infatti aveva individuato nella famiglia tradizionale un ambito di studio ideale (come già le pièces di Ibsen avevano dimostrato) delle dinamiche in gioco nelle relazioni umane. Circa vent’anni prima delle indagini freudiane, e in modo più intenso rispetto al suo predecessore Ibsen, Strindberg aveva capito che la famiglia – “djävla familjen” (maledetta famiglia), come era solito chiamarla – era indiscutibilmente il luogo privilegiato di dispotismi ed egoismi.
La crisi della famiglia non risparmia, come si evince da questa vicenda di Novelle per un anno, neanche il nucleo familiare di paese, la cui sacralità, tanto cara a Verga, si frantuma alle lusinghe dell’interesse economico.
La protagonista, apparsa sin dall’inizio come vittima, si riscatta da questo status e, con un atto di volontà, successivo alla presa di coscienza, decide di rendersi artefice del proprio destino; da qui, il suicidio, che va inteso “come la colma concentrazione, di un’inesorabile esperienza”.

Prof.ssa Gina Forgione

Exit mobile version