Quasimodo: tradizione, impegno civile e società di massa desacralizzata

Quasimodo, nonostante le sue sperimentazioni e le sue revisioni stilistiche, fu sempre legato alla tradizione, grazie alla musicalità dei suoi versi e al suo classicismo (non a caso tradusse i lirici greci).

Inizialmente il poeta cantò il mito della Sicilia, la nostalgia e lo sradicamento dalla sua terra; nelle sue prime raccolte rievocò l’infanzia e i paesaggi che lo avevano visto nascere e crescere.

Quasimodo caposcuola ermetico

In quegli anni fu ermetico. Alcuni lo hanno considerato un caposcuola, mentre altri solo un fiancheggiatore di questa corrente letteraria.  Coloro che lo criticano negativamente per questa sua adesione dovrebbero però ricordarsi che erano gli anni della formazione del suo immaginario e del suo apprendistato poetico: non era ancora nella fase della maturità.

L’ermetismo aveva il grande pregio di proporre “la letteratura come vita” e di opporsi all’autoesaltazione, all’enfasi, alla megalomania di D’Annunzio. Alcuni critici però hanno sempre accusato gli ermetici di essere oscuri e di utilizzare un linguaggio allusivo.

Ma Quasimodo anche in questo suo periodo non fece mai un utilizzo eccessivo dell’analogia. Poteva sembrare di primo acchito non totalmente originale, eppure successivamente si dimostrò unico sia dal punto di vista espressivo che per quel che riguarda la visione del mondo.

Il distacco dalla retorica carducciana e dall’estetismo di D’Annunzio

Il poeta seppe distaccarsi dalla retorica di Carducci, dall’estetismo e dall’irrazionalismo di D’Annunzio, dall’intimismo e dalla stanchezza di vivere dei crepuscolari, dall’esaltazione del progresso dei futuristi, dal nazionalismo di altri artisti; il poeta siciliano non scavò mai nella parola e non distrusse il verso come fece Ungaretti.

Non distrusse mai le strutture logiche e sintattiche; non si abbandonò all’estetismo; non si lasciò corrodere dall’autodistruzione e dalla nevrosi; non fu mai preda dell’intellettualismo e ricordo che ad esempio per Croce l’autentica poesia era priva di sovrastrutture ideologiche, di allegorie, di tematiche filosofiche e teologiche.

Quindi secondo i canoni estetici crociani i suoi componimenti erano poesia. Il grande critico letterario Oreste Macrì scrisse un saggio sulla “Poetica della parola” di Quasimodo. Come poeta sono pochissimi coloro che lo giudicano in modo negativo. Come uomo all’epoca alcuni lo criticarono per non aver partecipato alla Resistenza.

Ma come scrisse lo stesso Quasimodo “il poeta modifica il mondo” e non è detto che lo possa fare soltanto con l’impegno politico-sociale, ma lo può fare anche con i suoi versi. Dopo la fase ermetica non scrisse più dell’Eden perduto ma trattò della sofferenza dell’uomo in guerra.

L’importanza della tradizione

Quasimodo dimostrò di saper compiere una evoluzione dal punto di vista umano, affrontando nuove tematiche. Aveva sempre nostalgia di casa, ma non era più il paesaggio siciliano ad avere la meglio: era piuttosto la coscienza civile ad essere presente in ogni lirica.

Il poeta non poteva stare nella sua torre eburnea, ma doveva esprimere sentimenti come solidarietà, partecipazione emotiva, fraternità.

Evitò così di descrivere l’incomunicabilità e divenne forse il più comunicativo dei poeti del novecento, addirittura forse più di Ungaretti: sicuramente uno dei più semplici e più comprensibili a leggersi, il più efficace a descrivere la crisi esistenziale dell’uomo moderno conseguente alla tragedia e all’orrore della guerra.

I suoi messaggi erano chiari ed espliciti.

Come non ricordare la lirica “Uomo del mio tempo”, in cui scrive che l’uomo è sempre lo stesso di quando usava la pietra e la fionda e che ora utilizza le sue scienze esatte per sterminare i suoi simili?

Oppure come scordarsi “Alle fronde dei salici” che necessita di una parafrasi solo se letta da un bambino delle elementari o al massimo delle scuole medie inferiori? Oppure della lirica “Quasi un epigramma” in cui definisce la società moderna come “la civiltà dell’atomo”? Non era forse questa poesia civile?

Quando la poesia si trasforma in etica

Non era questo un lirismo fatto da parole semplici che potevano arrivare a tutti? Ancora memorabili i versi di “Lamento per il Sud” in cui descrive un meridione dove si moriva di stenti e nonostante ciò ancora bello e incontaminato, a differenza di un Nord industrializzato e già inquinato.

La lirica più celebre di tutte è senza ombra di dubbio “Ed è subito sera” perché in pochissimi versi sono rappresentate sia la solitudine dell’uomo contemporaneo che la brevità della vita e lo scorrere inesorabile del tempo.

Il poeta cercò sempre di descrivere l’enigmaticità e il non senso di un mondo sfuggente e colmo di brutture: una società di massa desacralizzata (“senza Cristo”) in preda alla barbarie.

Da ricordare anche che dopo la fine del conflitto mondiale si avvicinò al neorealismo e si mostrò critico nei confronti del boom economico e del consumismo.

Per avere più  chiara la sua poetica bisogna ricordare che fu proprio Quasimodo nel suo saggio “Discorso sulla poesia” a scrivere che “la poesia si trasforma in etica, proprio per la sua resa di bellezza”.

 

Di Davide Morelli

Ettore Cozzani, quando letteratura, editoria ed eroismo si incontrano

Ettore Cozzani, scrittore, saggista ed editore italiano, riuscì a coniugare arte e letteratura, poesia ed eroismo, rifacendosi agli ideali risorgimentali e alla triade dei grandi poeti italiani Carducci, Pascoli e D’Annunzio. Ettore Cozzani nacque a La Spezia il 3 gennaio 1884. Il giovane ligure intraprese i suoi studi universitari a Pisa, dove ebbe la fortuna di avere tra i suoi insegnanti Giovanni Pascoli. L’incontro con il Poeta del fanciullino ebbe un ruolo decisivo nella sua formazione; egli lo descrisse come “il più caro” dei Maestri, la cui vita era “tutta e solo lavoro per conquistarsi il silenzio e la libertà della solitudine”. Cozzani si ritenne per tutta la vita un discepolo del romagnolo e dedicò alla sua figura una delle sue più impegnative opere letterarie, uno studio in cinque volumi pubblicato tra il 1937 e il 1955. Nell’introduzione al primo volume egli scriverà:

“I giovani devono avere accanto questo maestro di modernità e di audacia creativa, di onestà spirituale, di energia, di entusiasmo, di maschia fede in sé stessi e nella loro razza”.

La raccolta di Odi e Inni (1906) sarà l’opera pascoliana più amata dal Nostro, quella in cui “le aquilari strofe interpretano il palpito terribile del cuore stesso d’Italia”. Formatosi dunque agli ideali della triade Carducci-Pascoli-D’Annunzio, Ettore Cozzani fece parte della generazione colta che entrò nella maturità nei primi anni del Novecento; fu la sua una nuova leva che si definì e stabilì le proprie coordinate culturali, ideali, politiche ed esistenziali misurandosi con l’Italia giolittiana, adottata a paradigma negativo, nemico da combattere, simbolo riassuntivo di tutti i mali, lontani e recenti, che affliggevano il nostro Paese. Fenomeno composito, di non univoca genesi e di non univoca direzione, l’antigiolittismo prima ancora che un programma politico fu uno stato d’animo che si esprimeva appropriandosi di un complesso di valori, vissuti in funzione antagonistica agli orientamenti e agli indirizzi della classe dirigente.

Questo stato d’animo era carico di aspettazione, di inquietudini ed angosce: prima di ogni altra l’insoddisfazione per il presente e l’ansia di rigenerazione. Ma molte cose esso portava con sé, al pari di un pesante fardello: dal senso di mortificazione per il tedio di vivere un tempo privo di ideali dominato dai mediocri, per passare alla celebrazione del ritorno e del culto degli Eroi, alla deprecazione per le tristi condizioni delle masse popolari costrette all’emigrazione in terra straniera, all’esaltazione dei sistemi sociali forti e coesi, alla richiesta e all’offerta di una più alta moralità civica e patriottica. Quella generazione infine si determinò all’invocazione della guerra, quale presupposto e rivelazione della finalmente realizzata congiunzione di masse e nazione. Da quell’evento sarebbe nata la Nuova Italia che già era nel grembo dell’antigiolittismo stesso, nutrito da suggestioni, motivi, convinzioni, emozioni che riuscivano ad influenzare lo spirito pubblico.

Gioacchino Volpe, uno dei maestri di Cozzani all’Università di Pisa, che parteggiava apertamente per gli antigiolittiani, ha così dipinto la situazione di quegli anni:

“L’Italia di allora si divideva fra giolittiani, che erano i più, e antigiolittiani che erano i meno ma costituiti da una specie di aristocrazia intellettuale anelante a più alta moralità pubblica, a più fecondi contrasti, a più energici atteggiamenti di politica estera, rispondenti alle cresciute energie e possibilità della nazione”.

Ettore Cozzani diede un preciso ed importante contributo alla causa dell’antigiolittismo. Egli rammentò in “Alcuni dei miei ricordi” (1978, opera postuma) che tutta la sua vicenda, sin dalla formazione giovanile, si era svolta sotto il segno dell’Italianismo, che dell’antigiolittismo era a suo avviso la conseguenza necessaria e la soluzione programmatica. “Far grande l’Italia: obbligare il mondo a riconoscerci uguali se non superiori ai popoli più ardimentosi e proprio per questo grandi”: erano queste le sue aspirazioni in quel tempo nonché in seguito. Per Cozzani, nella sua giovinezza, questi sogni di grandezza nazionale andarono di pari passo con la scoperta dell’anarchia:

“D’improvviso mi si rivelava una spaventosa ingiustizia da cui nasceva identicamente in tutto il mondo la fame, la miseria, l’ignoranza, e di cui ognuno si rendeva responsabile se non cercava di contribuire alla liberazione della parte sacrificale dell’umanità. La mia innocenza, la purezza dei miei ideali, la sete di giustizia, il bisogno di dedizione e persino l’ansia di sacrificio che avevano alimentato il mio misticismo di fanciullo, divamparono in me in infinite fiamme, illuminando l’abisso verso cui mi sentivo trascinato: mi straziavano, ma, al tempo stesso, mi davano un senso quasi di esaltazione”.

La Spezia all’inizio del Ventesimo Secolo era una delle basi più attive del movimento anarchico in Italia. La sua caratteristica di “città nuova”, cresciuta in fretta, con una folta massa di lavoratori concentrata nei cantieri e all’Arsenale, la predisponeva ad un’aspra conflittualità sociale che spingeva alla radicalizzazione le formazioni operaie. Assieme ai repubblicani, gli anarchici vi avevano un forte seguito, grazie soprattutto all’opera di Pasquale Binazzi (1873-1944), uno dei più intelligenti e più equilibrati esponenti del movimento. Binazzi fu lo stimato direttore del settimanale spezzino “Il Libertario” (1903-1922), che Cozzani rievocò così:

“Dal giornale vaporava, come fosse un respiro, una specie di fervido calore che mi trovava preparato a raccoglierlo per quel mio bisogno, ancora indistinto ma già prepotente, di sentirmi io, con la mia interpretazione delle cose, con le mie idee, i miei sogni, le mie iniziative, i miei atti”.

De “Il Libertario” Cozzani divenne presto uno dei collaboratori più impegnati e i suoi articoli vennero firmati con gli pseudonimi di Vito Vita e Marco Stasiota e comparvero sulle colonne del foglio sovversivo dal luglio 1903 al 21 febbraio 1907, data del suo ultimo articolo su quella testata; il suo congedo dal giornale fu una commemorazione della figura di Giosuè Carducci, scomparso il 16 febbraio: “Invero egli non è morto, poiché la sua è un’ascensione ai più alti cieli che splendono sull’umanità intera, poiché noi tutti, cresciuti al fuoco del suo gran cuore, lo sentiamo oggi più che mai presente, oggi più che mai fuso in noi stessi con tutta la sua potenza di agitatore e di propulsore”.

Cozzani conseguì la laurea in Lettere proprio nel 1907; l’anarchia non fu dunque una passeggera esaltazione adolescenziale, bensì per lo spezzino fu un’esperienza che appartenne già alla maturità. Su “Il Libertario”, permeato dagli umori antigiolittiani più forti e netti, non solo si celebrava come abbiamo visto Carducci “rivoluzionario, agitatore e propulsore”, ma si proponeva la poesia “La Nave” di Gabriele D’Annunzio come la più affascinante e convincente rappresentazione delle finalità perseguite dall’anarchia. Era lo stesso direttore Pasquale Binazzi a scrivere nel settembre 1904:

“Il poeta parla ad una nave immensa e forte, sventolante ai liberi venti dell’oceano le bandiere di tutte le glorie umane, che potrà simboleggiare per noi la rivoluzione; e la persuade a superare tutti gli ostacoli (le sirti) del viaggio, per giungere alla terra (l’Atlantide) che noi tutti sogniamo. Il sogno apparve così puro e distinto alla mente del poeta, che egli lo espresse con una semplicità di parole primitive. Quando il pensatore pensa così e il poeta così canta, il sogno non può tardare molto a convertirsi in realtà”.

A scanso di equivoci, preciseremo che qui si parla della poesia “La Nave”, presente nella raccolta Odi Navali (1893), e non dell’omonima e pur splendida tragedia dannunziana del 1908. Ma quel foglio si spinse molto più in là e arrivò a negare una delle verità di fede del movimento libertario indicando nella guerra “la via più breve” per giungere alla rivoluzione. “La via più breve” era proprio il titolo di un articolo apparso su “Il Libertario” del 25 agosto 1904 e redatto da Federico Uccelli, un giovane della stessa età di Cozzani, che si esprimeva in questi termini:

“E io sono quindi per la guerra: e noi dobbiamo esser per la guerra. Colla panacea delle riforme e dell’evoluzione non ridurremo mai la nostra gioventù a prepararsi per la vigilia delle armi. Ci vuole l’eccitamento che le sferzi le reni, poiché la fame non è bastata; o meglio l’odore della polvere che la tolga dal letargo e la faccia assai, assai starnutire tutta quell’infreddatura presa a godere bagasce nelle notti rabbiose. E l’odore della polvere i giovani italiani cominciano a sentirlo. Non cerchiamo che si disperda: ventiliamolo invece se è possibile sotto le narici che lo devono aspirare. Il popolo d’Italia ha necessità di rinnovarsi e non può farlo cantarellando l’inno dei lavoratori”.

Era questo il fervente clima nel quale si fece le ossa Ettore Cozzani. Non ci dobbiamo sorprendere di trovarlo quindi nell’aprile 1907 tra i curatori del numero unico pubblicato in occasione del varo della corazzata “Roma”, febbricitante di gioia impaziente nell’auspicare la grandezza nazionale e il risveglio militare dell’Italia. Per Pasquale Binazzi ciò equivalse ad un tradimento dell’anarchismo, per Cozzani invece si trattò di un riposizionamento all’interno della galassia antigiolittiana da mettere in stretta dipendenza con la ripresa di attrazione dell’Italianismo. Cozzani dell’Italianismo fece il suo programma d’azione, il metro del suo giudizio, il suo connotato identitario, infine una professione di fede religiosa che richiamava vagamente a Giuseppe Mazzini. A partire da quel momento Ettore Cozzani profuse tutto il suo impegno nelle attività di scrittore, di editore e di saggista animato dalla finalità di “risollevare la decadutissima arte del libro e difendere ed esaltare le forze della Poesia”.

Attraverso lo studio della letteratura si ripromise di diffondere un messaggio etico ed estetico che trasmettesse la coscienza del valore della tradizione ed educasse alla passione patriottica. E dell’amor patrio il concetto dell’Eroismo, centrale nel pensiero cozzaniano, è di certo l’espressione più alta, celebrata dalle arti di ogni tempo.
Il riconoscimento del valore e l’affermazione della giustizia furono i temi forti della poetica di Cozzani; il desiderio di giustizia era per lo spezzino la connotazione fondamentale dell’eroismo. E proprio da queste concezioni appena abbozzate germinò il nome che il ligure attribuì alla propria rivista di arte e letteratura; essa si appellò “L’Eroica”. Il suo fondatore la eternò con queste parole:

“S’era nel 1911 e alla Spezia, sul Golfo dei Poeti, nasceva, come Venere dalle schiume del mare, l’Eroica; nuda, vergine, ardente: chiamava con una sua voce di onde tra scogli i giovani poeti. Non se ne vedevano; eppure dovevano ben essercene per le terre d’Italia: essa li cercava affannata d’amore”.

“L’Eroica” poté vantare due serie: dal 1911 al 1917 e successivamente, con il trasferimento della sede della rivista a Milano, dal 1919 al 1943. La rassegna mensile contò complessivamente 310 numeri e fu senza dubbio una delle riviste artistico-letterarie più innovative della prima metà del Novecento, molto nota per l’utilizzo della tecnica xilografica che rendeva ogni numero un prezioso reperto d’arte dal pregio e dalla ricercatezza formidabile. Oggi la rivista è quasi introvabile e sono pochissime le biblioteche italiane che conservano l’intera collezione. Essa ebbe tra i suoi collaboratori Adolfo De Carolis e Franco Oliva, Eugenio Baroni e Adolf Wildt, Emilio Mantelli e Giovanni Governato, Primo Conti e Francesco Gamba insieme a molti altri. Parallelamente alla rivista, Cozzani diede vita ad una casa editrice omonima ispirata ai suoi principi etico-politici ed artistici che pubblicò molti volumi.

In una calda domenica estiva, il 30 luglio 1911, il primo numero venne distribuito in edicola; alcuni giorni prima Ettore Cozzani e Franco Oliva ne preannunciarono l’uscita con una lettera alla stampa:

“Si afferma da ogni parte che l’Italia non ha più poesia, che povera di poesia è la vita, poverissima l’arte: l’età nostra è della critica. I nostri artisti maggiori sono sfibrati; non appaiono ancora i nuovi o già traviano per imitazioni, flaccidezze, falsità: non ci resta che chiedere consolazione alla filosofia. Noi crediamo invece che la poesia viva in Italia la sua vita perenne: gli artisti maggiori non sono decaduti nella nostra venerazione, i nuovi preparano e lavorano. E’ bene cercare con un’ardente aspettativa, che sia amore per gli artisti esemplari, simpatia per le aspirazioni dei giovani: e frattanto operare noi stessi. Se la critica pur avesse sincera coscienza d’un temporaneo decadimento della poesia nella nostra vita e nella nostra arte, dovrebbe provocare la rinascita con il rispetto per chi fa e non con l’astio, con la fiducia verso chi tenta e non con il dileggio. La nostra rivista si occuperà quindi con uguale ardore di letteratura, pittura, scultura, architettura, musica: ma soltanto in quanto siano espressioni dell’unica poesia. Avrà una parte creativa e una parte critica: nella critica si studierà di costruire piuttosto che di distruggere, di comprendere piuttosto che di limitare; nella creativa, pur non costringendosi nell’ambito di speciali scuole, tendenze, tecniche, seguirà tutti i più arditi e seri movimenti moderni. Il titolo sarà L’Eroica. Eroica è invero la Poesia: unica espressione del divino nella vita umana”.

Il 27 giugno 1911 Ettore Cozzani si era premurato di scrivere a Gabriele D’Annunzio comunicandogli la novità:

“Maestro! Contro l’indegna baraonda di critici che hanno invasi i predii della poesia, spargendo per ogni dove la loro sozzura, si leva una rivista, L’Eroica, che si propone di annunciare, divulgare, esaltare la Poesia, comunque e dovunque essa nobilmente si manifesti, nelle cinque belle arti cioè, e nella vita. L’edizione sarà magnifica: ogni scritto ed ogni riproduzione o gruppo di riproduzioni avrà il suo frontespizio decorato di xilografie originali; il formato sarà molto grande, le tavole fuori testo d’una delicatezza unica: ovunque il respiro e il sospiro della Poesia. Vuole esser con noi, Ella che sa bene apprezzare il valor dell’entusiasmo e della fede nella gioventù nuova, che non è tutta inaridita e inebetita, e spersa per gli sterpeti della critica? Noi lo speriamo”.

E il venerato pontefice dei culti dell’Eroico Inimitabile dal volontario esilio di Francia rispose a Ettore Cozzani, inviando un messaggio di consentimento e di simpatia ai giovani “compagni di volontà e di speranza”. Nel suo libro Come giungemmo alla Sagra dei Mille, pubblicato soltanto nel 1963, l’intellettuale spezzino descrisse gli avvenimenti che portarono all’erezione del celebre monumento in bronzo sullo scoglio di Quarto, opera dello scultore Eugenio Baroni (1888-1935) e voluto dal Comune di Genova per il cinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia. Il contributo di Ettore Cozzani per rinverdire l’Epopea dei Mille fu notevole: egli si occupò in prima persona della cerimonia di inaugurazione del monumento e riuscì a convincere D’Annunzio a lasciare il suo esilio francese per pronunciare il 5 maggio 1915 uno dei suoi più memorabili discorsi, l’Orazione per la Sagra dei Mille, connotata da un tenacissimo ed incalzante richiamo rituale-ben note sono le vibranti e blasfeme beatitudini dannunziane ivi presenti di evangelica memoria, rovesciate in chiave interventistica-e da una commossa tensione patetica, che spingeranno lo scrittore francese Romain Rolland (1866-1944) a definire D’Annunzio dopo quella giornata, con l’intento di insolentirlo ma porgendogli invece un grande encomio, “un incrocio tra Robespierre e Tallien”.

Pochi giorni dopo, il 24 maggio, la nostra Nazione entrò in guerra e Cozzani scelse evidentemente di schierarsi dalla parte della barricata occupata dagli interventisti, “per la più Grande Italia”. Egli tenne discorsi e conferenze a sostegno della guerra molto efficaci e penetranti, caratterizzati da una oratoria travolgente e trascinante, talora indulgente ad una ingenua retorica, ma sempre sincera, pura ed appassionata, come ebbe a riconoscere Giuseppe Prezzolini. Nel 1916 Cozzani fondò “La Giovane Italia”, associazione nazionale di temperamento mazziniano con fini puramente patriottici, avulsa da qualsiasi legame con i partiti; il 10 giugno 1917 uscì un numero unico di saggio dallo stesso titolo, dedicato alla propaganda degli scopi dell’associazione, in un periodo molto difficile, mentre gli attacchi delle truppe italiane agli ordini di Luigi Cadorna sull’Isonzo provocavano gravi perdite umane e preludevano alla futura disfatta di Caporetto (ottobre-novembre 1917).
“La Giovane Italia”, ricordava Cozzani, “era sorta per rafforzare nell’animo del popolo la virtù della resistenza, poiché è nella resistenza l’anima della Vittoria”. Sempre del 1917 è l’orazione più famosa declamata dal ligure, che venne anche pubblicata dall’Editrice “L’Eroica”: il volumetto Orazione ai giovani sul Golfo dei Poeti riprendeva per l’appunto il testo di un discorso letto agli studenti delle scuole medie di La Spezia per la commemorazione del martirio di Guglielmo Oberdan. L’invocazione intensa ed accalorata alle giovani generazioni nella quale l’oratore sottolineava l’importanza del fronte interno così principiava:

“Io non vi dico parole sonanti per amor d’un bello stile. Io vi rammento un preciso dovere. Di quanti restano in patria, in quest’ora tragica che le sorti delle nazioni liberatrici pendono in bilico sulle bilance del destino con le forze del nemico usurpatore, e che sebbene il sacrifizio fosse voluto, sebbene l’ardore sia intenso, sebbene la fede rimanga intatta, non si può resistere a un brivido che di quando in quando ci coglie, voi siete della vita civica la parte più fresca, più sana, più ardita. Tocca a voi formare la colonna vertebrale della resistenza interna: voi siete i giovani sottotenenti di questa milizia che combatte sulla fronte meno curata, meno studiata e pur come l’altra lassù pericolosa ed importante. I guerrieri adolescenti, gli imberbi dalla voce non ancora virile, comandano lassù l’attacco alle schiere dei veterani e le portano alla vittoria; voi imponete qui la chiara vostra volontà e la vostra conscia certezza a queste altre schiere domestiche, che guai a noi tutti se titubassero, se si sbandassero, se si accasciassero un’ora sola!”

Dopo la Vittoria, nel primo dopoguerra Ettore Cozzani ritornò alla propria attività intellettuale ed editoriale; relativamente alla sua produzione, lo spezzino non verrà mai meno al filo rosso dell’adesione agli ideali eroici, che lo accompagneranno per tutta la vita, a partire dai suoi primi brevi scritti, come “Per un Eroe. A Giacomo Bove” (1909), nel quale egli, ispirato da un monumento realizzato ad Asti l’anno precedente dallo scultore Eugenio Baroni, rievoca la figura dell’esploratore che tentò la ricerca del mitico passaggio a Nord-Est tra i ghiacci dell’Artico, a bordo della nave Vega, nel 1878, nonché più tardi indomito perlustratore delle foreste del Congo, morto suicida nel 1884. All’epoca furono da molti ritenuti notevoli i suoi versi, improntati ad una velata vena di malinconia secondo stilemi tardo-romantici e decadentistici, come “I Poemetti Notturni” (1920), dedicati alla sacra e venerata memoria dei genitori, Valdemira Ricco e Leonardo Cozzani, e il più noto suo lavoro, “Il Poema del mare” (1928).

Cozzani non disdegnerà i tentativi nel campo della novellistica, con “I racconti delle Cinque Terre” e “Le strade nascoste”, entrambi del 1921, e del romanzo, con “Un uomo” (1934), “Ceriù” (1938) e “Destini” (1944).
Nel 1930 lo scrittore ottenne la cattedra di italiano e italianità al Politecnico di Milano e nel 1933 la stessa cattedra presso l’Università per stranieri di Perugia. Per i tipi de L’Eroica, frattanto, venne lanciata la collana “Vite di Artisti, di Pionieri e di Eroi”. Nel corso della sua vita, oltre alla capitale opera su Pascoli, la cuspide della sua complessa attività, egli pubblicò importanti saggi critici su Dante e Beatrice, Michelangelo Buonarroti, Ugo Foscolo, Giacomo Leopardi, Nazario Sauro. Venne la tempesta della Seconda Guerra Mondiale e il poeta spezzino, ispirato dai propri ideali eroico-nazionali, sostenne la Patria nello sforzo bellico. Alcuni numeri monografici della sua rivista furono dedicati alla giustificazione morale e politica dell’intervento italiano. Nel numero de L’Eroica del novembre-dicembre 1941, facendo il bilancio del trentennale della sua rivista, Ettore Cozzani poté a buon diritto rivendicare di aver contribuito alla “ascesa civile, sociale e politica dell’Italia” e rimarcò la propria immutata fedeltà alla “Grande Causa Italianista”, a cui aveva dedicato l’intera sua esistenza. Dopo il 1945, egli, in un clima ormai mutato, continuò nella sua attività di conferenziere e in virtù delle sue doti di oratore da tutti riconosciute proseguì fino all’ultimo in questo suo impegno, affrontando i temi, gli interessi, le passioni di tutta la sua vita animato dal nobile e romantico culto degli Eroi, sulla scia di Richard Wagner e di Thomas Carlyle, che caratterizzò il suo stile fin dalla sua ormai lontana militanza anarchica.

Egli morì a Milano il 22 giugno 1971, in casa di amici. L’amore per la Patria non lo abbandonerà mai, ma la Patria Ingrata si dimenticò di lui molto presto. I tempi ormai erano veramente cambiati: la prosa aveva preso il posto della poesia, il profitto aveva sostituito l’eroismo nei sogni di grandezza delle nuove generazioni, la civiltà materialista aveva spodestato l’amore della gloria cantato da Giacomo Leopardi ed Ettore Cozzani e i valori spirituali vennero messi in ombra dai disvalori liberal-capitalistici del denaro, del successo ad ogni costo e dell’arrivismo.

Fonti:

Gioacchino Volpe, Italia Moderna, Volume III, 1910-1914, Sansoni Editore, Firenze 1973, pagina 275.
Ettore Cozzani, Alcuni dei miei ricordi, Giardini Editori, Pisa 1978, pagina 24.
Ettore Cozzani, opera citata, pagina 25.

Novelle per un anno, i turbamenti dei personaggi di Pirandello

Luigi Pirandello scrisse le Novelle per un anno in seguito ad un contratto col <<Corriere della sera>>; in realtà egli ne scrisse solo 241 su un totale di 365. Altre 15 furono pubblicate postume. Il treno delle novelle pirandelliane si configura come luogo letterario, dove le fragili e dolenti vite dei protagonisti s’incontrano e si scontrano, in un processo dialettico culminante spesso nell’autocoscienza. A fare da sfondo alle vicende della raccolta Novelle per un anno, stazioni desolate e desolanti, all’interno delle quali prendono corpo le storie personali di personaggi, che, per singolarità e varietà, possono ben rappresentare tutto lo spettro dell’umano vivere.

Novelle per un anno: il treno come strumento della conoscenza di sé

L’avvento delle ferrovie annunciava la scomparsa graduale di un’epoca, cui ne sarebbe subentrata una nuova, dominata dal ferro e dall’acciaio, dal mito della velocità e dalla ricchezza.
In questo contesto di grandi cambiamenti, non stupisce il fatto che nella sfera letteraria il treno assurga a vero e proprio Personaggio, che si carica di volta in volta di valori positivi e/o negativi. Infatti, ora diviene strumento di dominio dell’uomo sulla natura, simbolo tout-court del progresso, poi strumento alienante, distruttivo, demoniaco, proprio perché espressione di quel particolare sviluppo socio -economico che vedeva l’industria occupare un posto prioritario rispetto all’agricoltura.
Scrittori come Carducci, Dostojevskyj, Tolstoj, Buzzati, tanto per citarne alcuni, hanno avuto un rapporto ambivalente col treno. Nel senso che, oltre ad evidenziarne le peculiarità esistenziali, ne hanno, con largo anticipo, paventato la portata destrutturante nei confronti della tradizione, ponendo inquietanti interrogativi sullo sviluppo tecnologico e sul progresso, di cui il treno, appunto, era inoppugnabile simbolo.

I vari personaggi della novellistica pirandelliana, ancora ignari, affollano turbati e confusi i predellini, si accomodano nelle carrozze anguste come le loro anime e iniziano il viaggio verso luoghi fisici ignoti, come la loro interiore dimensione spirituale: Il treno trascina dietro di sé i vagoni e dentro i vagoni trascina i personaggi delle Novelle per un anno di Pirandello, ciascuno verso il suo destino umano e narrativo. Come a dire che in questo percorso conoscitivo non esistono differenze sociali, perché l’intero campionario umano è accomunato dal medesimo destino.

La Balia: la vicenda di Annicchia

Il desiderio dei protagonisti di scappare dalle loro grigie esistenze, li porta spesso a tagliare i legami con la Terra Madre, il che, in alcuni casi, comporta la perdizione; è il caso di Annicchia nella Balia, che, per combattere la povertà, lascia il paese, il suo bimbo neonato e contro il volere della suocera che la maledice. Questa sorta di maledizione sembra colpire da subito la protagonista: il treno da Napoli viaggia in forte ritardo e il datore di lavoro, in stazione, distratto dalle cupe elucubrazioni familiari, finisce col cercare la donna con un’ora di ritardo. La trova “nell’ufficio della dogana, dove si visitano i bagagli, che piangeva seduta sul sacco”. Annicchia è basita, i doganieri non possono darle conforto, perché inadeguati a risolvere il suo problema di donna disorientata,  “perduta”, così come è perduta la sua vita precedente. L’ “oggetto – stazione”, dunque, fa da sfondo a questa che potremmo definire l’annullamento della precedente identità a favore di una nuova, che però ha bisogno del pagamento di un simbolico dazio (il commiato da una parte di sé) per essere sdoganata.

Il profilo comprovato di Annicchia, che si rivela superato, nella nuova realtà è costretto a fare i conti con un sé nuovo e discrepante. L’arrivo dell’avvocato Mori rassicura solo in parte la povera donna. Inconsciamente, infatti, lei sente di trovarsi in una realtà che non le appartiene, in cui si sente fuori posto; prova ne è che quando sale in vettura si rannicchia, per occupare il meno spazio possibile. Poi però, sfinita si lascia andare ai suoi pensieri “sentiva soltanto il sollievo d’esser giunta, finalmente; d’aver superato il terrore della traversata sul piroscafo da Palermo a Napoli…” La sensazione di sollievo è dettata dall’aver superato indenne lo Stretto di Messina e quindi di essere sopravvissuta all’acqua. L’acqua come elemento primordiale è tanto simbolo della vita quanto della morte. In questo caso, l’associazione di questo elemento al treno può essere letta e interpretata come la morte della vita precedente e il conseguente brutale trapasso (“lo sgomento della furia del treno”) in un’altra dimensione esistenziale.

Non può essere dimenticato, comunque, che l’ambiente ferroviario fa da sfondo anche a un altro processo di chiarificazione interiore, quello relativo all’avvocato Ennio Mori, che, finora, nell’economia interpretativa, è stato in un certo senso trascurato per fare spazio alla protagonista. Nondimeno, il suo personaggio compare per primo sulla banchina della stazione e, per i comportamenti impazienti che manifesta: “sbuffava […] o si grattava la faccetta ossuta […] o si aggiustava le lenti…”, si propone da subito come una figura molto stressata da conflitti e frustrazioni. In apparenza può sembrare solo infastidito, perché costretto a sbrigare una faccenda (il ricevimento della balia) che per banalità ne sminuisce il ruolo e, di conseguenza, la positiva percezione di sé. In realtà il suo malessere ha radici molto più profonde; perciò, quando apprende del ritardo del treno, e realizza che per il disbrigo dell’incombenza occorre più tempo del previsto, si lascia sfuggire quel “cose da pazzi!”, palese espressione delle sue contrastanti istanze interiori. A questo punto, l’avvocato si vede costretto a cercare in stazione un posto per aspettare, ma i sedili sono tutti occupati. Allora, si allontana per guadagnare un appoggio al muro “sotto l’orologio”, simbolo del tempo che passa, ma che l’avvocato, invece, compresso nelle sue riflessioni, riporta indietro attraverso la rivisitazione lucida e dissacrante del suo matrimonio.

Donna Mimma: la religione come ultimo appiglio

Anche nella novella Donna Mimma è il treno a determinare il cambiamento del destino della protagonista, intimamente radicata in un mondo arcaico e contadino, ove alla mammana si richiedeva non il titolo di studio, ma semplicemente perizia e umanità. In questa realtà ambientale, in cui il tempo sembra essersi fermato, l’orologio ricomincia a ticchettare con l’arrivo della bella e giovane ostetrica, ufficialmente abilitata alla professione, la “piemontesa”. A questo punto, diventa necessario per Donna Mimma prendere quel treno che deve condurla in città, sui banchi di scuola. Con queste premesse “l’intronamento e la vertigine del viaggio in ferrovia, il primo in vita sua”, rappresentano nient’altro che la proiezione del disagio psicologico di una donna non più giovane, costretta a interrompere la sua vita abituale per intraprendere un’avventura, scolastica e urbana, che, per profusione d’impegno e gap temporale, non le si attaglia. Risulta singolare che il flash back del viaggio cominci e finisca con l’invocazione a Gesù. In quell’iniziale “Gesù, la ferrovia!”, si coglie l’accostamento del sacro al profano; come se il primo potesse annullare gli effetti destabilizzanti del secondo. Come se la religione, vissuta come elemento di continuità col passato e la tradizione, potesse esorcizzare le incongruenze e le incognite di un presente da cui Donna Mimma vorrebbe fuggire, nel tentativo di recuperare le certezze e la stabilità emotiva precedenti all’arrivo della “piemontesa”.

In quest’ottica, il paesaggio che scorre fuori dal finestrino diventa la proiezione dell’ individuale modo di sentire della donna, ossia la percezione che l’ambiente a lei noto si sta dileguando, e con esso la stabilità del suo io più profondo. Ella avverte, seppure indistintamente, che il presente è scompaginato e tumultuoso, (“l’urto violento d’un palo telegrafico; fischi, scossoni”) e che il futuro, ambiguo come quel treno di cui non si intravede la sagoma, dovrà essere affrontato di volta in volta, nelle sue minacciose ed enigmatiche sfaccettature “e di tratto in tratto lo spavento dei ponti e delle gallerie, una dopo l’altra”. Frastornata dal carattere disarmonico del reale, e ancora incapace di realizzare ciò che le sta accadendo, Donna Mimma per non soccombere si aggrappa all’unico punto di riferimento rimastole, la religione “Gesù! Gesù!”.

Nelle Novelle per un anno, il viaggio in treno ha sbalzato la protagonista in una dimensione ambientale e sociale ingannevole e spersonalizzante, dalla quale ella cerca di difendersi, opponendo le sue piccole certezze di paesana. Ma la città, con la sua università, paradossalmente, la impoverisce nelle capacità e la irrigidisce in una “forma” in cui ella stessa non sa riconoscersi (Tremano, le sue manine, e non vedono più. Il professore ha dato a donna Mimma gli occhiali della scienza, ma le ha fatto perdere, irrimediabilmente, la vista naturale. E che se ne farà domani donna Mimma degli occhiali, se non ci vede più?”). La città, dunque, diventa “simbolo di un sapere arido, non sentito, fatto di formule e parole, contrapposto a un sapere senza formule né nomi, ma cresciuto con germinazione spontanea dal contatto con la vita, da un’esperienza lunga e serena, da un’attenzione semplice e amorosa alle cose”. Di ritorno al paese, la protagonista sarà rifiutata non solo dalle donne, che la percepiscono cambiata dal soggiorno cittadino, ma finanche dai suoi adorati bambini: “No: brutta donna Mimma! Non la vogliamo più”.

La veste: il drammatico viaggio di Didì

Molto più drammatico, invece, risulta il viaggio in treno per Didì, protagonista della novella La veste lunga, che, col fratello Cocò e il padre, parte da Palermo per raggiungere Zùnica, paesino dell’interno, dove l’aspetta il matrimonio con un uomo vecchio; matrimonio combinato dai suoi congiunti, contro il suo volere, per risolvere i problemi finanziari della famiglia.
Per l’occasione la donna ha dovuto dismettere l’abbigliamento abituale da ragazza sedicenne, e indossare “per la prima volta, una veste lunga”, simbolo del passaggio dall’infanzia alla maturità, o per meglio dire, dalla leggerezza innocente all’ obbligo di responsabilità che la vita adulta comporta ed esige. Da quel momento, la “veste lunga” avrebbe coperto, e per sempre, le sue gambette, le stesse che la sera prima Cocò, scherzando, “aveva salutato con ambo le mani”, a suggello della fine di una stagione della vita. Per tutta la notte, combattuta e angustiata, Didì aveva rimuginato su questa svolta esistenziale, di cui ignorava gli esiti, ma di cui, tuttavia, percepiva a istinto la negatività.

Al mattino però, la protagonista sembra aver raggiunto una condizione psicologica di rassegnata accettazione del nuovo ruolo, tant’è che si accomoda sul sedile del vagone ferroviario premurandosi di assumere una postura e un atteggiamento congrui al presente status da signora. A questa sua posa compunta, si contrappongono la postura “col capo abbandonato su la spalliera rossa […] tenendo gli occhi bassi e la sigaretta attaccata al labbro superiore” e il tono canzonatorio del fratello, le cui futili e quasi infantili provocazioni rimandano a una superficiale e vacua visione della vita, priva di ogni forma di sensibilità e, perciò, incapace di percepire i sentimenti altrui.Intanto il treno va, e, mentre il fratello si assopisce, la ragazza dà inizio a uno scandaglio interiore crudo e doloroso.

La donna comincia a osservare Cocò con gli occhi dell’anima, nel tentativo di far riemergere un passato felice, ma subito capisce che il dolce fratellino dell’infanzia ha lasciato il posto a un uomo cinico e arido, con sul volto i segni del cambiamento: “Le pareva ch’egli fosse come arso, dentro. E quest’arsura interna, di trista febbre, gliela scorgeva negli sguardi, nelle labbra, nell’aridità e nella rossedine della pelle, segnatamente sotto gli occhi”. Allora la ragazza,  ricerca il momento in cui ha avuto inizio questa metamorfosi e s’accorge, con orrore, che essa coincide con il periodo in cui Cocò ha indossato i “calzoni lunghi”, vale a dire, con la sua entrata in società. L’aver determinato la congiuntura temporale di quella radicale trasformazione, e, soprattutto, l’aver identificato nella sfera sociale la provenienza dei comportamenti abietti del fratello, produce in Didì, dapprima, sconcerto, poi paura di essere destinata alla stessa sorte. In quel momento, ella avverte il peso della “veste lunga”, simbolo della maturità, sui piedini di fanciulla. Questa innocente sensazione è sintomatica della sua inadeguatezza a entrare nel mondo dei grandi, per cui è meccanico e istintivo per la ragazza cercare con gli occhi il padre, da cui, inconsciamente, si aspetta rassicurazioni e protezione. Ma il padre, seduto dal lato opposto del vagone, attende serio ai suoi documenti di lavoro e non le rivolge neanche uno sguardo. Didì, allora prende atto, forse per la prima volta dalla morte della madre, della sua irreversibile solitudine. Solitudine che in quei tre anni, di mancanza dell’affetto e del supporto materno, aveva tentato inutilmente di affrontare e di arginare da sola, perché privata del sostegno morale degli uomini di casa, dediti alle loro vacue vite. Con gli occhi della memoria, la ragazza recupera mano a mano i ricordi e ne chiarisce il senso e la portata: alla morte della madre aveva fatto seguito un graduale e costante allontanamento del padre e del fratello dalla casa, intesa nella duplice accezione fisica ed emotiva. I due uomini avevano spostato il baricentro della loro vita fuori dalle mura domestiche, lasciandola preda del vuoto e della solitudine. Essi si erano mostrati interessati alla sua vita solo per proporle e imporle il matrimonio combinato e il conseguente viaggio. In un attimo, o forse in un’eternità, tutte le tessere del mosaico si erano ricomposte e Didì si trova nella crudele condizione di dover costatare il grigiore della sua vita, manipolata dal padre avido e interessato, sotto gli occhi indifferenti del fratello.

Intanto, il treno arranca su di una salita e procede lentissimamente “quasi ansimando”, ma in questo ansimare c’è la chiara allusione al doloroso processo di acquisizione di consapevolezza, esperito dalla protagonista, che ormai ha capito il gioco e, rifiutando di assumere la sua parte, si predispone a una lenta e solitaria agonia “per terre desolate, senza un filo d’acqua, senza un ciuffo d’erba, sotto l’azzurro intenso e cupo del cielo” .
In quell’opprimente atmosfera: “Non passava nulla, mai nulla davanti al finestrino della vettura; solo di tanto in tanto, lentissimamente, un palo telegrafico, arido anch’esso, coi quattro fili che s’avvallavano appena”. Ella, tradita dalle menzogne e dall’indifferenza dei suoi affetti più intimi e viscerali, non vede altra soluzione al suo problema se non la morte; cosicché, in un moto lucido e disperato, si avvelena, sottraendo una fialetta di medicinale al padre.

Il viaggio reale tra Palermo e Zùnica, dunque, è diventato viaggio interiore, oltre che promotore di una presa di coscienza della condizione della donna all’interno della famiglia. Famiglia, cellula basilare della società, ove si annidano solitudine e incomunicabilità. Luogo dove, spesso, si consumano vendette e si perpetrano soprusi, come quelli che, tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, Strindberg andava rappresentando nel suo teatro. Egli infatti aveva individuato nella famiglia tradizionale un ambito di studio ideale (come già le pièces di Ibsen avevano dimostrato) delle dinamiche in gioco nelle relazioni umane. Circa vent’anni prima delle indagini freudiane, e in modo più intenso rispetto al suo predecessore Ibsen, Strindberg aveva capito che la famiglia – “djävla familjen” (maledetta famiglia), come era solito chiamarla – era indiscutibilmente il luogo privilegiato di dispotismi ed egoismi.
La crisi della famiglia non risparmia, come si evince da questa vicenda di Novelle per un anno, neanche il nucleo familiare di paese, la cui sacralità, tanto cara a Verga, si frantuma alle lusinghe dell’interesse economico.
La protagonista, apparsa sin dall’inizio come vittima, si riscatta da questo status e, con un atto di volontà, successivo alla presa di coscienza, decide di rendersi artefice del proprio destino; da qui, il suicidio, che va inteso “come la colma concentrazione, di un’inesorabile esperienza”.

Prof.ssa Gina Forgione

Renato Serra, il critico umanista

Poco riconosciuto dalla cultura italiana fortemente influenzata dall‘ estetica crociana, Renato Serra (Cesena, 5 dicembre 1884 – Monte Podgora, 20 luglio 1915) durante la sua breve esistenza (mori’ a soli 31 anni, colpito a morte davanti al Podgora durante la prima guerra mondiale), ha anticipato la figura dell’intellettuale antifascista, che avrebbe preso il largo nei decenni successivi, distaccandosi dalle analisi di Benedetto Croce. Riconosciuto più come critico poetico che letterario, Serra, inizialmente convinto della superiorità dell’essere  un uomo di lettere  rispetto all’esistenza ordinaria, ha preso coscienza dei limiti che quella condizione offriva; consapevolezza maturata proprio con l’avvento della guerra, di fronte alla quale il letterato è solo un uomo illuso.

Nato da una famiglia benestante e di tradizione risorgimentale, Renato Serra si forma presso il Regio Liceo Ginnasio Vincenzo Monti di Cesena dove termina gli studi a  soli sedici anni, senza sostenere l’esame di maturità dati i voti altissimi. Si  iscrive  presso la Facoltà di Lettere e Filosofia di Bologna e segue le lezioni di insegnanti  celebri come  Carducci e Severino Ferrari, di quest’ultimo apprezza molto anche le idee socialiste. Si laurea  nel 1904 con una tesi sullo “Stile dei Trionfi del Petrarca”.

Qualche anno dopo Renato Serra torna a Cesena, dove svolge  il servizio militare di leva, l’anno successivo  si trasferisce a Torino, e collabora  con Luigi Ambrosini alla creazione di un dizionario Italiano-Latino e pubblica molti articoli per la rivista <<La Voce>> entrando in contatto anche con Croce. Diviene anche  direttore della Biblioteca Malatestiana di Cesena. Carducciano e tradizionalista, Serra dovrà fare ben presto i conti due eventi che lo sconvolgeranno, uno di portata mondiale, la prima guerra mondiale (come si è  già accennato), e l’altro, privato, ovvero il matrimonio della donna che amava con un altro uomo. Questi fatti incideranno fortemente anche sul pensiero critico di Serra.

Il critico  riflette ed espone le sue posizioni nella sua opera più importante, “Esame di coscienza di un letterato” del 1915; egli condanna la guerra e gli intellettuali di propaganda, difende il valore salvifico della letteratura e la letteratura stessa come fosse una fanciulla in pericolo e lo fa con tutta la passione che lo ha sempre contraddistinto; è convinto che si vada in guerra per dare un significato alla propria esistenza, non per la patria, e questa profonda motivazione inizialmente ha spinto anche lui ad arruolarsi abbandonando ogni razionalità, ogni ragione intellettuale. Come afferma egli stesso: << […] non ho distrutto quello che era nella mia carne mortale, che è più elementare e irriducibile, la forza che mi stringe il cuore. È la passione.>>

Esame di coscienza di un letterato

Renato Serra parte per il fronte ma dopo aver compiuto il suo esame di coscienza, dopo essersi confessato, dopo aver oscillato tra la voglia essere nella storia e di partecipare agli eventi e il desiderio, proprio degli intellettuali, di isolarsi dal mondo, contrapponendo alle barbarie del mondo la bellezza e la purezza della letteratura. Prevarrà la concezione ungarettiana della guerra come occasione per riscoprire il senso di umanità, la fratellanza tra gli uomini, un modo per rigenerarsi. Non c’è più alcuna superiorità intellettuale, nessun rifugio dalla storia (Serra ne rifiuta la concezione provvidenzialista-razionalista hegeliana), ma solo bisogno di sentirsi fratelli gli uni con gli altri, di condividere passioni (intese come pathos, sofferenza).

La poesia non può e non deve contemplare la bellezza ma  essere un mezzo per  promuovere un ‘esistenza  autentica e vera; con questo invito Serra preannuncia la stagione neorealista, la stagione dell’impegno sociale, strada che deve essere sempre percorsa da chi si dichiara uomo di cultura.  A differenza di Croce che pare non scandalizzarsi di fronte alle tragedie delle vita, non soffrire davanti alle sofferenze che la guerra porta, Serra è “umano”, come Carducci, il quale <<eleva l’arte all’uomo>>, e non è un caso  che il critico accosterà Croce a D’Annunzio.

Un critico da riscoprire e per molti da scoprire, da prendere come modello da tutti gli intellettualoidi odierni che si atteggiano a depositari della verità, sterili, imbrigliati nella retorica, senza aver compreso il valore rivoluzionario delle parole, il cui scopo è scrivere per convincere, estraneo al critico emiliano.

Se oggi fosse in vita, Renato Serra parlerebbe di “educazione al cambiamento”, e di “rivoluzione della coscienza” in un’epoca dove la critica letteraria “sembra” scomparsa.

 

 

Dino Campana: tra follia e poesia

Nato a Marradi in provincia di Firenze, Dino Campana(Marradi, 20 agosto 1885- Scandicci, 1 marzo 1932), trascorre l’infanzia in modo apparentemente sereno ma, fin da giovane inizia a dare segni di squilibrio mentale, favoriti dalla religiosità bigotta della madre infelice che lo accusa di essere l’anticristo.

Dino Campana

La sua vita è un alternarsi di momenti di lucidità e di furore violento, per questo è a più riprese internato in un manicomio sino al ricovero definitivo del 1918. Destabilizzante e turbolenta  si è rivelata la sua relazione con la poetessa Sibilla Aleramo.

Le crisi nervose si acutizzano, come pure i frequenti sbalzi di umore, a causa dei difficili rapporti con la famiglia, soprattutto con la madre, e  della vita monotona del paese natio.

Dino Campana esprime il suo “male oscuro” con un irrefrenabile bisogno di fuggire e dedicarsi a una vita errabonda. La prima reazione della famiglia, e poi dell’autorità pubblica, è quella di considerare le stranezze del poeta come segni lampanti della sua pazzia. A ogni sua fuga, che si realizza con viaggi in paesi stranieri dove si dedica ai mestieri più disparati per sostentarsi, segue, da parte della polizia (in conformità con il sistema psichiatrico di quei tempi), il ricovero in manicomio.

Nel 1913 consegna ai direttori della rivista “Lacerba” il manoscritto di poesie “Il lungo giorno” ma questi lo smarriscono e il poeta riscriverà i versi a memoria, pubblicandoli poi sulle riviste “La Voce” e “Lacerba“. Muore in manicomio nel 1932 dopo 14 anni di internamento trascorsi a dettare al suo medico curante notizie autobiografiche e riflessioni.

Da molti considerato il “poeta visionario” italiano per eccellenza, da altri ridimensionato a semplice <<poeta visivo>> (Contini), Dino  Campana è un poeta discusso, coinvolgente e suggestivo. Nell’ambito della linea “vociana”, in cui può esser fatto rientrare almeno marginalmente, rappresenta una sintesi originale di simbolismo ed espressionismo. L’ansia di liberazione e realizzazione esistenziale, è uno dei tempi ricorrenti nella poesia di Campana.

Le sue opere sono  pervase da due tendenze apparentemente inconciliabili: da una parte l’immediatezza esistenziale nel rapporto con la realtà e dall’altra invece l’influenza di modelli importanti come Carducci e Nietzsche. Anche la follia di Campana è stata interpretata in due modi opposti ma che coesistono: essa rappresenta l’incapacità di compromessi sociali e l’adesione al modello culturale di poeta maledetto (rifacendosi a Rimbaud). Alla base della psicologia dell’arte del poeta c’è un sentimento lacerante di esclusione e disarmonia. In questo senso di disadattamento Campana esprime in modo personale l’instabile condizione dell’intellettuale novecentesco. La reazione dell’autore, però, è differente rispetto agli altri poeti contemporanei, per la sua tendenza a resistere disperatamente alla nuova condizione, negandola. e  tentando  disperatamente di reintegrare l’io nell’armonia generale delle cose.

La sua controversa collocazione critica e i giudizi non certo unanimi hanno contribuito a formare attorno a questa figura un alone di mistero, per cui, quando si parla di  Dino Campana, si tende sempre a dare credito all’immagine del “poeta maledetto”.

La follia però, per il poeta, non è un presupposto della sua produzione; semmai è considerabile un punto d’approdo la libertà sterminata, distruttiva e disgregatrice di ogni coerenza, figlia del tempo in cui Nietzsche aveva decretato “la morte di dio”.

Eugenio Montale fu tra i primi estimatori ufficiali, il più autorevole a oggi, delle composizioni di Dino Campana, tanto da dedicargli una poesia o meglio un omaggio a chi meglio di lui aveva saputo piegare le parole fino a renderle ancora più oscure.

La poesia di questo poeta visionario è una poesia nuova nella quale sono presenti i suoni, i colori e la musica in una trasfigurazione reale del simbolismo onirico. Il verso è indefinito e i valori classici e una grande modernità si compenetrano in una forma e purezza irripetibili.

Campana afferma di voler <<nel paesaggio collocare dei ricordi>> e sul paesaggio, fondamentale nella sua poesia, aleggia un alone di misteriosa lontananza. Nei suoi scritti sentiamo il fascino delle ore crepuscolari, della luna sui campi, del canto che si perde nelle strade solitarie, della finestra illuminata nel buio della notte mediterranea.

La partenza e il ritorno sono i temi fondamentali della poetica campaniana; un figliol prodigo che desidera la casa paterna, ma che odia al contempo; è possibile confrontarlo con la figura di Ulisse, nella misura in cui possiamo considerare che il poeta ha una reale volontà di ritornare a casa.

Un altro tema fondamentale della sua poetica è “l’oscurità tra il sogno e la veglia”, percepibile dal ripetersi degli aggettivi, che ritornano come se dettati durante un sogno.

Per comprendere meglio le qualità poetiche di Campana è utile servirci delle parole di Zanzotto, il quale afferma che <<una poesia come quella di Campana si configura come un flusso ininterrotto di armonie e di disarmonie, di serie melodiche e semantiche che si sovrappongono e s’intrecciano: proprio per questa ragione, la sua poesia risulta terribilmente difficile da cogliere. Il polverio delle discontinuità mentali di Campana giunge, in qualche oscuro modo, a fondersi al latteo suono, direi, dei suoi versi, a queste maree di armonie logiche e di armonie foniche che s’inseguono incessantemente, s’intersecano, si fondono e si differenziano per ricongiungersi ulteriormente, nelle sue poesie>>.

Canti Orfici

Dino Campana insegue una concezione alta e sublime della poesia come momento misterioso d’identificazione con la vita universale e dunque momento di assoluta verità. In questo senso va letto l’aggettivo orfico della prima e unica raccolta del poeta, “Canti Orfici” del 1914. Questo atteggiamento, sia nei riguardi dell’io che nei riguardai della poesia, è ben presente nella sua raccolta, che però cela un’altra verità: la condizione dell’emarginato. Il soggetto appare sulla scena nei panni di vagabondo e uomo sofferente tra la folla.  Sono riscontrabili  due tendenze prevalenti della sua poesia,  quello simbolistico. decadente e quello espressionistico.

Pensare nel languore
Catastrofi lontane
Mentre colle sue antenne
E le sue luci un grande
Cimitero il tuo porto
……………………….
Ne la città voluttuosa
Scuotevasi il mare profondo
Caldo ambiguo il silenzio sullo sfondo
Le navi inermi drizzavansi in balzi
Terrifici al cielo
Allucinate di aurora
Elettrica inumana,risplendente
A la poppa ne l’occhio incandescente.

 

In un momento
Sono sfiorite le rose
I petali caduti
Perché io non potevo dimenticare le rose

 

…………………………………………

Col nostro sangue e colle nostre lagrime facevamo le rose
Che brillavano un momento al sole del mattino.

 

Acqua di mare amaro
Che esali nella notte:
Verso le eterne rotte
Il mio destino prepara
Mare che batti come un cuore stanco
Violentato dalla voglia atroce
Di un Essere insaziato che si strugge…

(Poesie tratte dai “Canti Orfici”)

Altra tematica trattata da questa raccolta è la sessualità, rappresentata in termini sadici. La pulsione libica diventa il canale per esprimere la ribellione e la carica aggressiva del poeta.

AnchelLa ripetizione è una caratteristica fondamentale della poesia di Campana, il quale accuratamente studia le parole per ricavarne quella musicalità che tanto lo contraddistingue.

Tuttavia questae non crea ridondanza e monotonia, bensì contribuisce alla difficoltà e alla complessità del testo.Con  la sua instancabile ossessione a ripetere,  Dino Campana ha saputo rendere conto delle tensioni di un’epoca oltre che delle sue proprie, e insieme abbia dato voce ad una violenza psichica che fa parte in qualche misura di tutti noi.  La polisemia e l’ambiguità del testo mirano a produrre effetti musicali che, si fanno più intensi, proprio là dove il senso logico del discorso sembra rimanere sospeso. Se volessimo riferirci a Freud, è possibile affermare che l’oscuro significato delle parole, che porta alla sospensione del nesso logico, altro non è che l’effetto della rimozione che, per ubbidire al principio di realtà, trova nella sua espressione una formazione di compromesso tra l’impossibilità di esprime alcuni contenuti e la volontà di farlo.

La poesia, in questo senso, può essere dunque considerata un sintomo che esprime il disagio del poeta e di tutto un modello generazionale.

concludiamo  con il distico “Eterno” di Ungaretti che ci fa  comprendere a pieno la poesia di Campana:

Tra un fiore colto e l’altro donato

L’inesprimibile nulla.

Grazia Deledda: l’essenza della vita nella sua tragicità

Grazia Deledda (Nuoro il 27 settembre 1871 Roma ,15 agosto 1936) nasce in una famiglia decisamente benestante: il padre, infatti, è un procuratore legale e dedito al commercio del carbone. Già all’età di diciassette anni pubblica, sulla rivista “ultima moda” il suo primo racconto dal titolo “sangue sardo”, storia di un amore mai corrisposto, dove la protagonista uccide l’uomo di cui è innamorata. Tuttavia, l’opera con cui si “tuffa” nel mondo letterario e che le darà un certo successo iniziale è “Nell’azzurro”, pubblicato nel 1890. E’ a Roma che scrive “Anime oneste” e “il vecchio della montagna”. Le maggiori, poi, fra le quali ricordiamo “Elias Portolu” (1900), “Cenere” (1904), “Canne al vento” (1913), “Un uomo solitario” (1914), “Marianna Sirca” (1915), possono leggersi come lo sviluppo e la discussione di casi di coscienza. Altre opere si succederanno, con una crescente intenzione autobiografica e introspettiva, e sempre con fortuna di pubblico, fino alla scomparsa dell’autrice, avvenuta a Roma nel 1936. Lascerà un’opera incompiuta: “Cosima”, che i curatori pubblicheranno col significativo sottotitolo di “Quasi Grazia”.

Gli scritti di Grazia Deledda risentono di un clima tardo romantico, esprimendo in termini convenzionali e privi di spessore psicologico un amore vissuto come fatalità ineluttabile. E’ anche, per lei, un’epoca di sogni sentimentali, più che di effettive relazioni: uomini che condividono le sue stesse aspirazioni artistiche sembrano avvicinarla, ma per lo più un concreto progetto matrimoniale viene concepito da lei sola. Ora, però, soffermiamoci in particolar modo sul suo più celebre romanzo, ossia “Canne al vento” (1912).

Ambientato quasi interamente a Galtellì. Alla base del romanzo c’è, secondo uno schema che si ritrova in altre sue opere, una situazione di vita fondata su norme arcaiche e oppressive, talvolta violate dalla trasgressione che genera rimorsi e sensi di colpa. Espiazione e restaurazione dell’ordine infranto chiudono il cerchio. Il romanzo è raccontato attraverso la figura del protagonista, Efix, il servo delle Dame Pintor, che di questa famiglia ha conosciuto il tempo della potenza e della ricchezza e quello del rapido declino. Ora Efix coltiva l’ultimo podere rimasto, i frutti del poveretto sono gli unici proventi delle nobili sorelle: Ruth, Ester e Noemi. Il 10 settembre 1926 le viene assegnato il Nobel per la letteratura: è il secondo autore in Italia, preceduta solo da Carducci vent’anni prima; resta finora l’unica scrittrice italiana premiata. L’ultimo romanzo “La chiesa della solitudine” è del 1936. La protagonista è, come l’autrice, ammalata di tumore.

Sempre e comunque ricordare la sua Sardegna, la sua saggezza, la sua autenticità, e le sue verità  che hanno fatto ipotizzare un accostamento a Verga per quanto riguarda la stagione verista e a D’Annunzio per il decadentismo. Ma la Deledda non può essere etichettata, come ha fatto parte delle critica, in quella che è stata definita con un certo snobismo, la letteratura della Sardegna, il suo automodello sardo è universale, intriso di poesia e tragicità tipicamente russa (la lotta tra bene e male in primis)la sua terra è resa un luogo mitologico e misterioso, dove la natura è un microcosmo psichico (perfettamente in linea con la concezione della natura degli altri grandi scrittori del Novecento) all’interno del quale si consumano i drammi dell’essere umano, il quale però può trovare nuova linfa nella fede, e soprattutto nella pietas cristiana, nella partecipazione alla mortalità, naturalmente non senza correre dei rischi.

Anche il particolare uso della lingua che fa la scrittrice, ha aperto dibattiti e riflessioni; La Deledda fa emergere la distanza tra la cultura nazionale e quella locale, ma fondamentalmente perché lei stessa sente di appartenere maggiormente a quest’ultima, al dialetto sardo e ai suoi toni colloquiali, in quanto la stesura in italiano presentava per lei non pochi problemi.

Non aveva il dono della “buona lingua” Grazia Deledda ma proprio per questo ha inaugurato una nuova fase narrativa, quella che rifiuta l’omologazione e conserva la propria identità, portando ad una stratificazione della lingua che fanno di questa straordinaria donna ed autrice dal volto autorevole,una personalità  fuori dal comune, contemporaneamente dentro e fuori  il contesto letterario novecentesco europeo.

 

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