Ugo Tommei, proletario lacerbiano e futurista e gli scrittori di ‘Quaderno latino’

Contadino e lavoratore manuale, Ugo Tommei. Un vero e proprio autodidatta in un’epoca in cui la passione accesa e bruciante e il sacro fuoco del sapere e della conoscenza divampavano nelle menti e nei cuori dei proletari più coscienti e generosi. Visse a cavallo tra XIX e XX secolo, e fu una sorta di Lemmonio Boreo in carne ed ossa. Chissà se Ardengo Soffici nel redigere il suo giovanile, anticonvenzionale ed anarcoide romanzo del 1912 così intitolato, non si sia poi realmente ispirato ad un certo milieu da lui frequentato ed approfondito e nel quale alcuni personaggi come Tommei, così affini per l’appunto a Lemmonio Boreo, erano componenti preziose ma infine non così rare.

Ugo Tommei nacque a Firenze il 15 gennaio 1894 da Francesco e Teresa Linari. Tommei, pur da umilissime origini, si fece ben presto conoscere pubblicamente ed entrò in contatto con gran parte della cultura fiorentina dell’epoca, caratterizzata dalla straordinaria ed effimera “stagione delle riviste”. Strinse amicizia con i futuristi papiniani che in seguito partoriranno la rivista Lacerba (1913-1915) e con i vociani Soffici, Rosai, Meriano che lo apprezzarono e lo stimarono. Tra il Nostro e questi tre si realizzò una sincera osmosi culturale, uno scambio gratificante, costante e spiritualmente arricchente. Anarchico e futurista, Tommei decise di prendere una iniziativa personale fondando proprio nella sua città il quindicinale Quartiere Latino (1913-1914), sul quale scrisse anche il poeta Gian Pietro Lucini, e a cui collaborarono molti giovani autori, tra cui il siciliano Enrico Cardile, il pugliese Arcangelo Di Staso, l’abruzzese Giovanni Titta Rosa, il ligure Camillo Sbarbaro, il romagnolo Corrado Govoni, i triestini Giani Stuparich e Augusto Hermet.

La rivista fiorentina diede alla luce sette fascicoli, tutti di otto pagine in formato 22×32 cm, stampati presso la tipografia Vallecchi e usciti, due volte al mese, dal 24 ottobre 1913 al 28 febbraio 1914. Ugo Tommei era affiancato da Guido Pogni in qualità di gerente responsabile. La direzione era in via S. Antonino 5 a Firenze, il costo di ogni copia era di 10 centesimi. Il programma e i lavori ospitati sul periodico si orientarono immediatamente verso una sorta di nazionalismo popolare, sociale e neo-proletario molto rude ed indisciplinato, nonché politicamente scorretto. Come evidenzia lo studioso Ugo Piscopo nella post-fazione alla ristampa anastatica della rivista, il nome di Quartiere latino “si agganciava alle esperienze dei cenacoli dell’omonimo quartiere parigino, dove, a fine Ottocento, era circolata aria frizzante di etimo antiparlamentaristico, antidemocratico, antiriformistico, antilaicistico”. Dall’articolo programmatico apparso sul primo numero, si comprende che l’intitolazione della rivista di Tommei e dei suoi amici voleva essere inoltre un tributo alla latinità, intesa soprattutto come vigore, buona salute, certezza delle proprie origini, spirito indomito e ribelle. Punto di riferimento per tutto il gruppo che ruota attorno a “Quartiere latino” è indubbiamente il già ricordato Gian Pietro Lucini, precursore e insieme eversore dell’avanguardia, iniziatore e distruttore di “mode culturali”. Lucini in questa rivista esaltò il proprio anarchismo e la propria trasgressività, sottolineò la funzione civile assegnata alla poesia, il valore politico attribuito all’arte. Nello stesso tempo, si apprezzarono le sue audaci e rivoluzionarie sperimentazioni del verso libero, le originali interpretazioni delle tendenze simboliste, il suo gusto dissacratorio nei confronti dei valori e delle credenze ufficiali, la consapevolezza della crisi delle ideologie e della necessità del loro superamento attraverso una modalità attivistica, vitalistica, volontaristica di chiara origine soreliana. Grande fascino esercitò anche Corrado Govoni, scelto come secondo Nume Tutelare della rivista per la sua genuinità, la duttilità intellettuale e la libertà assoluta da ogni condizionamento, pur rispettando i supremi ed eterni valori letterari.

I giovani scrittori riuniti attorno a Tommei desideravano riportare la parola scritta alle sue funzioni peculiari, liberandola da contaminazioni e riconducendola al suo rigore tipografico. Da questo punto di vista è significativo il fatto che la rivista non conceda spazio alla grafica, alle illustrazioni, alle riproduzioni, diversamente da altri fogli contemporanei proiettati verso la modernità. Eccezione a questa “regola” fu fatta soltanto negli ultimi due numeri, in cui l’intitolazione acquistò più spazio e i caratteri si fecero più flessuosi. L’idea complessiva che accomunò tutti i collaboratori di “Quartiere latino” fu quella di accogliere le sollecitazioni allo svecchiamento del futurismo, ma senza sbilanciarsi troppo in avanti e prendendo le distanze dalle posizioni più estreme. La rivista volle essere moderna nell’attualità dei linguaggi e delle analisi, “fondandosi sulla concretezza e sulla specificità delle situazioni culturali e storiche presenti, ma non staticamente ferme”. Quest’idea, però, nella Firenze di quegli anni, dovette necessariamente fare i conti col papinianesimo, che esercitò un’intransigente egemonia sull’area futurista toscana. E infatti, per non restare tagliati fuori, Tommei, Di Staso, Titta Rosa si arruolarono come lacerbiani e futuristi, abbandonando tutte le riserve e le ambiguità precedentemente espresse in proposito e sospendendo le pubblicazioni di Quartiere latino col n. 8 del 28 febbraio 1914, ma garantendo in cambio agli abbonati la possibilità di ricevere i fascicoli di “Lacerba”, la rivista fondata e animata da Giovanni Papini tra il 1913 e il 1915, così importante nella storia letteraria italiana di cui Ugo Tommei divenne collaboratore piuttosto attivo.

Nelle prime settimane del 1915, Ugo Tommei, già impegnato nella propaganda “guerraiola”, scriveva a Giovanni Papini, rimasto l’unico direttore di Lacerba dopo il disimpegno di Ardengo Soffici all’inizio dell’anno, questa lettera:

“Caro Papini, come sta? Non le ho mai scritto sperando di vederla da un momento all’altro a Firenze, dove io dirigevo fino a pochi mesi fa il mio Quartiere Latino. Come correrei, se potessi, fra i francesi! Che brutta cosa è la famiglia! Mai come ora n’ho sentito il peso. Ma se non c’è dato di muoverci, perché non si fa qualcosa in altro campo? Perché tocca bene a noialtri giovani a scuotere i restii e a propugnare la guerra ai barbari. Ho visto Lacerba rossa: non le pare che dovrebbe essere il vero giornale della guerra? Dopo il suo bell’articolo sui fatti di Giugno tutti aspettano da lei un’esplicazione di gran genio – scusi l’espressione – al minuto. Un’indelebilità, un’opera duratura, resistente al tempo, ottenuta colla trattazione dell’attualità. Lei, poi, che sente così fortemente l’anima francese moderna, sono convinto che farebbe grandi cose. Se potessi persuaderlo! Lacerba dovrebbe diventare l’organo dei giovani intelligenti, svegli, ragionatori come sognatori – e liberi, soprattutto. La redazione dovrebbe essere un ufficio arruolamenti, la sua tipografia dovrebbe comporre da mattina a sera manifesti uso ’48! Tutti i quotidiani danno notizie incerte, stupide, tagliate; articoli balordi, gravi danze di regime, matrimoni degli Ulivi. Se no ci sono le cronachine illustrate da due soldi l’una. Occorrerebbe un vero diario-notizie importanti sintetiche, impressioni di amici partecipanti, inchieste, rivelazioni di dessous politici sporchi-articoletti personali e violenti. Lacerba dovrebbe essere il suo pamphlet. Un grande scrittore trova sempre la vita nell’attualità. Il giornalismo è un sudiciume perché i giornalisti italiani non costano un cazzo e c’entrano come in un rifugio. Ma lei m’insegna che proprio i francesi eccellono in questa letteratura del momento. Bisogna dare delle opinioni al pubblico. Non fare gli spettatori. Questa guerra è stata una rovina, è vero. Ma chi l’ha voluta? I tedeschi. E ormai addietro non si torna. Se tutti si fermassero sarebbe la vera rovina. Dunque buttiamoci anche noi. Non abbiamo mica paura. Del resto nessuno c’impedirebbe di dire le parole della nostra verità. Lacerba dovrebbe uscire anche straordinariamente ad ogni avvenimento straordinario. Come un quotidiano. Sarebbe un’anticipazione insperata del progetto cui stavamo dietro per l’anno nuovo. Si farebbero grandi tirature, da scaraventare fin dove la posta arriva. All’uscita si farebbero varare da una squadra di giovanotti strilloni: Lacerba! Lacerba! Lacerba! Papini capitano dei giovanotti coraggiosi! Papini non invecchia mai! Il suo amore per l’Italia e per l’Anarchia non è una bella frase da quindicinale artistico! È anche un pugno di ferro contro chi non vi acconsente! Viva la guerra: solo questo le dico io che pure non mi son sentito mai tanto anarchico come ora. Quella rivoluzione che da tanto si sollecita e si vitupera dovrebbe scoppiare proprio ora integrata ad una difesa dai nemici stranieri. Morte ai tiranni di dentro e a quelli di fuori. Lei crede che non ci sarebbero abbastanza persone da dedicare tempo a questo Rinnovamento Lacerbiano? Io mi offro fin d’ora a tutto quello che possa occorrere: articoli, correzioni di bozze, tazze di caffè, fatiche amministrative, sgobbamenti di tutti i generi; corse da una parte all’altra della città, riscossioni. Tutto purché non si restasse fermi a guardare in un momento così eroico. E quando ci fosse la necessità piglierei anche il fucile, benché ci veda poco e benché uno sparo mi rintontisca. E quando Lacerba fosse diventata davvero la parola vera del popolo italiano, dopo, alla fine della guerra, non se l’immagina lei la grande autorità e la grande importanza e considerazione delle nostre teorie artistiche? Se no questa Lacerba può morire. Pochi la comprano, nessuno ci si interessa. I vecchi piglieranno l’occasione per osservare che è morta per pacatezza d’idee. Porco giuda, non ci mancherebbe altro! Mi scriva, se non le dispiace, e faccia, faccia, faccia. Se dorme è un parricida. La saluto caramente”.

La lettera va datata con certezza al principio del 1915 sulla base dell’inequivocabile “ho visto Lacerba rossa”: e Lacerba cominciò infatti ad uscire col titolo in rosso il 3 gennaio di quell’anno. Questa era la fase più aspra della battaglia per l’intervento italiano, che vedeva impegnata la quasi totalità delle giovani avanguardie italiche. Ugo Tommei aveva dunque accolto il futurismo ma nella sua singolare accezione papiniana, in parte ostile al marinettismo. Affascinato dalla mistura antiborghese e antidemocratica lacerbiana, egli era il consapevole esponente di quella giovane generazione per cui inclinazione interventista e disposizione rivoluzionaria non furono affatto inconciliabili, ed anzi invocò proprio l’integrazione rivoluzione/guerra, anarchismo/interventismo: “morte ai tiranni di dentro e a quelli di fuori”, insomma.

Uno degli aspetti più rilevanti della lettera va individuato nella convinzione che Giovanni Papini potesse e dovesse assumere la leadership dell’intellettualità interventista e fare di Lacerba l’organo di una tale operazione politico-ideologica. Per Tommei, il carisma interventistico di Papini derivava direttamente dal suo carisma ribellistico. Il papinianesimo nel primo quindicennio del Ventesimo Secolo aveva fatto grazie ad esso numerosi proseliti nelle file anarchiche individualiste e questa realtà era confermata dalle abbondanti polemiche del “revisionista anarchico” Camillo Berneri contro l’individualismo libertario in rapporto a siffatto argomento. Carlo Molaschi parlò polemicamente di “lue futurista”; sempre quest’ultimo “per richiamare alla ragione gli sragionanti”, nel 1919 si scagliava retrospettivamente contro coloro che correvano “sulle orme di Papini per accettare i suoi scritti come Vangelo d’anarchismo”. Ma il sovversivismo individualista e antiborghese di “Lacerba”, a dispetto degli attacchi dei Sommi Pontefici dell’Anarchismo di scuola gradualista, era sincero: la rivista papiniana era giunta, ad esempio, al punto di offrire in omaggio ai suoi lettori i libri Cardi selvaggi e Aristocrazia operaia di Lorenzo Cenni, libertario, già direttore de La Blouse, singolare rivista di “letteratura operaia, compilata esclusivamente con scritti originali di autentici lavoratori del braccio” e stampata a Firenze, in pieno vocianesimo, tra il 1906 e il 1910.

L’anarchico interventista Ugo Tommei aveva già dimostrato quanto la sua ideologia fosse omologa a quella papiniana fin dai discorsi di quel personaggio-filo conduttore del “Quartiere Latino”, emblematico persino nel nome di “Maso il contadino”, cui Tommei stesso aveva affidato e delegato l’esposizione di talune proprie idee politiche e sociali. Maso – alter ego tommeiano – è infatti “contadino e poeta” e “nega partiti e padroni”, cosicché,  Antidemocratico, antiegualitario e panegotista, Maso il contadino detesta la borghesia ma anche le masse urbane – “il canagliume sbuccione” – pur amando vigorosamente il popolo, “che è ignorante, sì, crudo, testardo”: un amore per il popolo-campagna e un disprezzo per il popolo-città, dal sapore strapaesano, nel quale la borghesia e le masse operaie sono viste come componenti complementari, non conflittuali, della medesima civiltà produttiva. Né Maso-Tommei sopporta di venir classificato entro una linea politica determinata: anarchismo, per Tommei, vale rifiuto della Politica, anche se non nel senso dell’antipoliticità e del qualunquismo, quanto piuttosto in quello del superamento stesso della politica a vantaggio di una concezione artistico-totalizzante, una sorta di anarchismo radicale, socialista e patriottico. “Contadinità-arte-anarchismo” costituiscono insomma il tentativo di esplicarsi di una personalità contraddittoria ed ambivalente, naturale espressione di tutto un milieu minoritario ma ben visibile nei primi due decenni del Novecento Italiano.

Amico, come detto, di Ottone Rosai e a sua volta apologeta, come il pittore, del Teppismo, Tommei presenta dunque, in questa lettera a Papini appena riportata, proprio gli stati d’animo, le urgenze e i bisogni suoi, tipici ad un tempo di quella condizione generale esistenziale e di una ben determinata fase: ovvero, da un lato la domanda d’aggregazione, dall’altra la spinta all’eversione. Guerra e Rivoluzione si mescolano e si confondono, “Lacerba” viene trasformata da giornale d’arte in strumento di agglutinazione politica e Papini da scrittore d’assalto a capo ideologico: intervento bellico o Settimana Rossa, per Tommei si trattava sempre di realizzare i modi di una via estetico-politica all’eversione, di fomentare la tendenza allo spirito scissionistico come fenomeno di massa. In piena guerra, poco prima di morire al fronte, Tommei ribadirà sul maggior foglio del futurismo combattente, L’Italia Futurista, queste pulsioni, che avranno il loro culmine nella sua ultima visionaria proposta: quella per l’abolizione della Storia, una provocazione che in tempi ben diversi e più recenti verrà rilanciata da Carmelo Bene. In campo futurista, in seguito alla rottura fra la direzione di Lacerba e il gruppo fedele a Filippo Tommaso Marinetti, la scelta di Tommei per il lacerbismo fu operata senza alcuna remora e condivisa a Firenze da un nucleo di giovani intellettuali noti come “Cerebralisti” e capitanati da Mario Carli, successivo protagonista dell’Impresa di Fiume, ed Emilio Settimelli, che ritroveremo, anch’egli, con D’Annunzio nella Fiume “città di vita”.

Arte come sublimazione della politica, illogicità delle forme come provocazione sociale: il deflagrare bellico tanto auspicato prima, e celebrato poi, diventa per questi giovani rivoluzionari il terreno di prova e di preparazione per un anarchismo “intellettuale” scopertamente connotato dai segnali sovversivi e fiammeggianti della rossa bandiera e del fantastico fuoco. Per settori non indifferenti, soprattutto sul piano qualitativo, del sovversivismo, la Grande Guerra del 1914-1918 o Prima Guerra Mondiale fu l’occasione per esprimere una certa tendenza vitalistica, superomistica, energetica, attivistica, edonistica, estetizzante che si contrapponeva ad ogni Sinedrio, fosse pure rivoluzionario, e rifiutava ogni dogmatismo, giudicandoli come prodromici all’accettazione di un riformismo inerte, funzionale alle esigenze del capitalismo. I militi sovversivi aderirono a questa battaglia con l’impellente desiderio di mettersi alla prova, in discussione, in questione, di attuare nei fatti e non soltanto a parole il precetto nicciano “vivere pericolosamente”. Il caso personale di Tommei fu dunque emblematico di una intera generazione: egli cadde da eroe in guerra, sul Monte Asolone, presso Caporetto, a soli ventiquattro anni, il 18 gennaio 1918, sacrificando così la sua esistenza ai nobili ideali della Patria, del Socialismo e della Rivoluzione, coniugati peraltro in maniera personalissima e paradossale, in assoluta sintonia con i vissuti materialmente lontanissimi e al contempo spiritualmente contigui dei suoi commilitoni di provenienza sovversiva e di fede interventista.

 

Fonte: Ugo Tommei-L’intellettuale dissidente

Aldo Palazzeschi, scrittore futurista…ma non solo

Personalità eccentrica, Aldo Palazzeschi ha rappresentato uno dei primi motivi di rottura nella letteratura italiana di inizio novecento. Nonostante il suo nome sia legato prevalentemente ad opere riguardanti il filone futurista, non risulta esauriente incardinare Palazzeschi in un’unica categoria di appartenenza.

Nato nel 1885 esordisce come poeta nel 1905 con il libretto di versi “I cavalli bianchi”. Nel 1909, dopo la pubblicazione della terza raccolta di versi, “Poemi”, che gli procura fra l’altro l’amicizia con Marinetti, aderisce al Futurismo (di cui Marinetti è il deus-ex-machina) e, nel 1913, inizia le sue collaborazioni con <<Lacerba>>, la storica rivista di quella corrente letteraria.

Nell’estate del 1916 è richiamato alla leva militare, ma fu quasi per niente coinvolto nelle manovre militari. Si ritrovano i ricordi di quel periodo nei suoi bozzetti di “Vita militare” e nel libro autobiografico “Due imperi… mancati” (1920). Durante gli anni del fascismo, Palazzeschi non partecipa alla cultura ufficiale nonostante gli sforzi intrapresi in questo senso da Filippo Tommaso Marinetti; compie qualche viaggio a Parigi e dal 1926 collabora a <<Il Corriere della sera>>.

Dei futuristi ne ammira la lotta contro le convenzioni, contro il passato recente intriso di fumoserie, gli atteggiamenti di palese provocazione tipici del gruppo, le forme espressive che prevedono la “distruzione” della sintassi, dei tempi e dei verbi (per non parlare della punteggiatura) e propongono “le parole in libertà”.

La vetta massima che raggiunge nella sua epoca futurista è costituita da “Il codice Perelà”, nel 1911. In realtà la sua adesione al futurismo non dura tanto: la sua personalità indipendente e la sua posizione pacifista entrano in rotta di collisione con la campagna per l’intervento in guerra dei futuristi, evento che lo porta anche a riavvicinarsi a forme più tradizionali di scrittura di cui ne è esempio il sarcastico e teatrale romanzo di successo “Sorelle Materassi”.

Vive le tribolazioni studentesche degli anni sessanta sostanzialmente come un “classico rimasto in vita”, cioè da ottantenne: prende con ironico distacco gli allori che i poeti della neoavanguardia innalzano di fronte al suo nome, riconoscendolo come precursore. Scrive infatti a Sanguineti: <<Coloro che furono avanguardisti cinquant’anni fa, saranno i più acerrimi nemici degli avanguardisti d’oggi, giacché la loro avanguardia è passata alla storia senza che se ne siano accorti, e a quella come ostriche sono rimasti attaccati. E dunque, caro Sanguineti, che cos’è mai questa avanguardia?>>

Palazzeschi mette in atto una versificazione giocata sul piacere, irragionevole ed impudente, della pura sonorità. Basta citare la canzonetta “E lasciatemi divertire!” della raccolta “L’incendiario” per capirlo:

“Infine io ò pienamente ragione,
i tempi sono molto cambiati,
gli uomini non dimandano
più nulla dai poeti,
e lasciatemi divertire!”

Viene maliziosamente da pensare se questo modo di concepire il ruolo e la condizione del poeta non sia dovuto, in realtà, ad una mancaza di talento poetico, per cui l’autore si giustifica adducendo come causa dell’assenza di una “vera”( tradizionale) poetica al mutamento dei tempi e dei gusti del pubblico…

Secondo il poeta e scrittore il pubblico non è più interessato alle ragioni della poesia che perde di valore sociale ( un pò come avviene in D’Annunzio): non c’è più domanda e di conseguenza cambia l’offerta poetica che non può essere più quella tradizionale. E si fanno avanti le buffonerie, il grottesco, il divertimento, la presa in giro, il paradosso, il motto di spirito ; il poeta è un clown che sollecita gli sberleffi, smantellando l’io lirico:

“Chi sono?
Il saltimbanco dell’anima mia”

L’animo del poeta, che viene messa a nudo, è una maschera che riduce a merce la propria arte. Come ha notato il Professor Antonio Saccone nel saggio “Qui vive/sepolto/un poeta”, Palazzeschi non è interessato a trarre dal trattamento burlesco delle opere tradizionali di pensare e di sentire indicazioni volte a rifondare le tavole della poesia e del mondo. Il senso alienato, irrigidito, svuotato di quelle opere, è mandato in frantumi e snaturato in non-sense, il richiamo al pubblico intelligente, sollecitato ad esercitare il riso dissacratore sugli stereotipi culturali, a smascherarne, le convenzionalità, distanzia sensibilmente Palazzeschi dalle argomentazioni marinettiane, in cui quella componente fondamentale che è la partecipazione del pubblico funziona nel senso dello scontro permanente.

A differenza di Corazzini che patisce un luttuoso vittimismo, Palazzeschi potrebbe essere definito un nichilista giocoso come dimostrano i seguenti versi:

“Avete dei pensieri neri?
Veniteli a svagare
dentro i cimiteri”.

Fra le sue ultime opere uscite dalla sua penna all’alba degli ottant’anni troviamo “Il buffo integrale” (1966) in cui lo stesso Italo Calvino riconosce un modello per la propria scrittura, la favola surreale “Stefanino” (1969), “Il Doge” (1967) e il romanzo “Storia di un’amicizia” (1971). Negli ultimi anni della sua vita è insignito di numerosi premi e riconoscimenti, a testimonianza del grande esempio che aveva rappresentato per intere generazioni di letterati. Muore quasi novantenne nel 1974 a Roma.

Palazzeschi non si è mai sentito completamente di appartenere ora a questa ora a quest’altra corrente. Meravigliose e molto indicative per la sua poetica, sono però queste parole che affidò alla rivista <<Lacerba>>: <<bisogna abituarsi a ridere di tutto quello di cui abitualmente si piange, sviluppando la nostra profondità. L’uomo non può essere considerato seriamente che quando ride… Bisogna rieducare al riso i nostri figli, al riso più smodato, più insolente, al coraggio di ridere rumorosamente…>>.
Palazzeschi in fondo è stato questo: ironico, beffardo, sognatore, disimpegnato. Futurista, ma non solo.

 

 

Dino Campana: tra follia e poesia

Nato a Marradi in provincia di Firenze, Dino Campana(Marradi, 20 agosto 1885- Scandicci, 1 marzo 1932), trascorre l’infanzia in modo apparentemente sereno ma, fin da giovane inizia a dare segni di squilibrio mentale, favoriti dalla religiosità bigotta della madre infelice che lo accusa di essere l’anticristo.

Dino Campana

La sua vita è un alternarsi di momenti di lucidità e di furore violento, per questo è a più riprese internato in un manicomio sino al ricovero definitivo del 1918. Destabilizzante e turbolenta  si è rivelata la sua relazione con la poetessa Sibilla Aleramo.

Le crisi nervose si acutizzano, come pure i frequenti sbalzi di umore, a causa dei difficili rapporti con la famiglia, soprattutto con la madre, e  della vita monotona del paese natio.

Dino Campana esprime il suo “male oscuro” con un irrefrenabile bisogno di fuggire e dedicarsi a una vita errabonda. La prima reazione della famiglia, e poi dell’autorità pubblica, è quella di considerare le stranezze del poeta come segni lampanti della sua pazzia. A ogni sua fuga, che si realizza con viaggi in paesi stranieri dove si dedica ai mestieri più disparati per sostentarsi, segue, da parte della polizia (in conformità con il sistema psichiatrico di quei tempi), il ricovero in manicomio.

Nel 1913 consegna ai direttori della rivista “Lacerba” il manoscritto di poesie “Il lungo giorno” ma questi lo smarriscono e il poeta riscriverà i versi a memoria, pubblicandoli poi sulle riviste “La Voce” e “Lacerba“. Muore in manicomio nel 1932 dopo 14 anni di internamento trascorsi a dettare al suo medico curante notizie autobiografiche e riflessioni.

Da molti considerato il “poeta visionario” italiano per eccellenza, da altri ridimensionato a semplice <<poeta visivo>> (Contini), Dino  Campana è un poeta discusso, coinvolgente e suggestivo. Nell’ambito della linea “vociana”, in cui può esser fatto rientrare almeno marginalmente, rappresenta una sintesi originale di simbolismo ed espressionismo. L’ansia di liberazione e realizzazione esistenziale, è uno dei tempi ricorrenti nella poesia di Campana.

Le sue opere sono  pervase da due tendenze apparentemente inconciliabili: da una parte l’immediatezza esistenziale nel rapporto con la realtà e dall’altra invece l’influenza di modelli importanti come Carducci e Nietzsche. Anche la follia di Campana è stata interpretata in due modi opposti ma che coesistono: essa rappresenta l’incapacità di compromessi sociali e l’adesione al modello culturale di poeta maledetto (rifacendosi a Rimbaud). Alla base della psicologia dell’arte del poeta c’è un sentimento lacerante di esclusione e disarmonia. In questo senso di disadattamento Campana esprime in modo personale l’instabile condizione dell’intellettuale novecentesco. La reazione dell’autore, però, è differente rispetto agli altri poeti contemporanei, per la sua tendenza a resistere disperatamente alla nuova condizione, negandola. e  tentando  disperatamente di reintegrare l’io nell’armonia generale delle cose.

La sua controversa collocazione critica e i giudizi non certo unanimi hanno contribuito a formare attorno a questa figura un alone di mistero, per cui, quando si parla di  Dino Campana, si tende sempre a dare credito all’immagine del “poeta maledetto”.

La follia però, per il poeta, non è un presupposto della sua produzione; semmai è considerabile un punto d’approdo la libertà sterminata, distruttiva e disgregatrice di ogni coerenza, figlia del tempo in cui Nietzsche aveva decretato “la morte di dio”.

Eugenio Montale fu tra i primi estimatori ufficiali, il più autorevole a oggi, delle composizioni di Dino Campana, tanto da dedicargli una poesia o meglio un omaggio a chi meglio di lui aveva saputo piegare le parole fino a renderle ancora più oscure.

La poesia di questo poeta visionario è una poesia nuova nella quale sono presenti i suoni, i colori e la musica in una trasfigurazione reale del simbolismo onirico. Il verso è indefinito e i valori classici e una grande modernità si compenetrano in una forma e purezza irripetibili.

Campana afferma di voler <<nel paesaggio collocare dei ricordi>> e sul paesaggio, fondamentale nella sua poesia, aleggia un alone di misteriosa lontananza. Nei suoi scritti sentiamo il fascino delle ore crepuscolari, della luna sui campi, del canto che si perde nelle strade solitarie, della finestra illuminata nel buio della notte mediterranea.

La partenza e il ritorno sono i temi fondamentali della poetica campaniana; un figliol prodigo che desidera la casa paterna, ma che odia al contempo; è possibile confrontarlo con la figura di Ulisse, nella misura in cui possiamo considerare che il poeta ha una reale volontà di ritornare a casa.

Un altro tema fondamentale della sua poetica è “l’oscurità tra il sogno e la veglia”, percepibile dal ripetersi degli aggettivi, che ritornano come se dettati durante un sogno.

Per comprendere meglio le qualità poetiche di Campana è utile servirci delle parole di Zanzotto, il quale afferma che <<una poesia come quella di Campana si configura come un flusso ininterrotto di armonie e di disarmonie, di serie melodiche e semantiche che si sovrappongono e s’intrecciano: proprio per questa ragione, la sua poesia risulta terribilmente difficile da cogliere. Il polverio delle discontinuità mentali di Campana giunge, in qualche oscuro modo, a fondersi al latteo suono, direi, dei suoi versi, a queste maree di armonie logiche e di armonie foniche che s’inseguono incessantemente, s’intersecano, si fondono e si differenziano per ricongiungersi ulteriormente, nelle sue poesie>>.

Canti Orfici

Dino Campana insegue una concezione alta e sublime della poesia come momento misterioso d’identificazione con la vita universale e dunque momento di assoluta verità. In questo senso va letto l’aggettivo orfico della prima e unica raccolta del poeta, “Canti Orfici” del 1914. Questo atteggiamento, sia nei riguardi dell’io che nei riguardai della poesia, è ben presente nella sua raccolta, che però cela un’altra verità: la condizione dell’emarginato. Il soggetto appare sulla scena nei panni di vagabondo e uomo sofferente tra la folla.  Sono riscontrabili  due tendenze prevalenti della sua poesia,  quello simbolistico. decadente e quello espressionistico.

Pensare nel languore
Catastrofi lontane
Mentre colle sue antenne
E le sue luci un grande
Cimitero il tuo porto
……………………….
Ne la città voluttuosa
Scuotevasi il mare profondo
Caldo ambiguo il silenzio sullo sfondo
Le navi inermi drizzavansi in balzi
Terrifici al cielo
Allucinate di aurora
Elettrica inumana,risplendente
A la poppa ne l’occhio incandescente.

 

In un momento
Sono sfiorite le rose
I petali caduti
Perché io non potevo dimenticare le rose

 

…………………………………………

Col nostro sangue e colle nostre lagrime facevamo le rose
Che brillavano un momento al sole del mattino.

 

Acqua di mare amaro
Che esali nella notte:
Verso le eterne rotte
Il mio destino prepara
Mare che batti come un cuore stanco
Violentato dalla voglia atroce
Di un Essere insaziato che si strugge…

(Poesie tratte dai “Canti Orfici”)

Altra tematica trattata da questa raccolta è la sessualità, rappresentata in termini sadici. La pulsione libica diventa il canale per esprimere la ribellione e la carica aggressiva del poeta.

AnchelLa ripetizione è una caratteristica fondamentale della poesia di Campana, il quale accuratamente studia le parole per ricavarne quella musicalità che tanto lo contraddistingue.

Tuttavia questae non crea ridondanza e monotonia, bensì contribuisce alla difficoltà e alla complessità del testo.Con  la sua instancabile ossessione a ripetere,  Dino Campana ha saputo rendere conto delle tensioni di un’epoca oltre che delle sue proprie, e insieme abbia dato voce ad una violenza psichica che fa parte in qualche misura di tutti noi.  La polisemia e l’ambiguità del testo mirano a produrre effetti musicali che, si fanno più intensi, proprio là dove il senso logico del discorso sembra rimanere sospeso. Se volessimo riferirci a Freud, è possibile affermare che l’oscuro significato delle parole, che porta alla sospensione del nesso logico, altro non è che l’effetto della rimozione che, per ubbidire al principio di realtà, trova nella sua espressione una formazione di compromesso tra l’impossibilità di esprime alcuni contenuti e la volontà di farlo.

La poesia, in questo senso, può essere dunque considerata un sintomo che esprime il disagio del poeta e di tutto un modello generazionale.

concludiamo  con il distico “Eterno” di Ungaretti che ci fa  comprendere a pieno la poesia di Campana:

Tra un fiore colto e l’altro donato

L’inesprimibile nulla.

Il contesto storico-culturale del Novecento

L’inizio del Novecento vive un periodo di grande espansione economica, grazie allo sfruttamento delle materie prime  nelle colonie, negli USA viene introdotta la catena di montaggio, mentre l’Italia conosce l’esperienza liberale e laica del governo giolittiano. Tuttavia la vera svolta storica si ha nel 1914 con l’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando D’Asburgo a Sarajevo che porta l’Austria a dichiarare guerra alla Serbia. L’Italia, facente parte della Triplice Alleanza con Germania e Austria, inizialmente si dichiara neutrale ma la politica interna induce il Paese a schierarsi contro i suoi vecchi alleati. L’esercito italiano subisce una grave sconfitta a Caporetto, Cadorna subentra a Diaz, gli Austriaci sono respinti lungo il Piave e saranno definitivamente sconfitti  nella battaglia di Vittorio Veneto. Contemporaneamente in Russia ha inizio la Rivoluzione Russa e sale al potere Lenin; i trattati di pace firmati a Versailles infliggono delle pesanti penalizzazioni agli sconfitti: l’Impero austro-ungarico viene sciolto e la Germania è costretta a pagare ingenti debiti di guerra, nascerà la Repubblica di Weimar e una grave crisi economica sconvolgerà l’Occidente. L’Italia ha il Trentino Alto Adige e la Venezia Giulia.

Si rafforzano il nazionalismo e l’imperialismo, nascono i movimenti socialisti e i partiti comunisti (Comune di Parigi, Prima, Seconda e Terza Internazionale). Il capitalismo è il sistema dominante nel Novecento e gli intellettuali da un lato propongono nuove teorie e forme di avanguardia, dall’altro non riescono ad uscire dal sistema culturale burocratico; ma la maggior influenza nella letteratura (soprattutto a Trieste) l’assume senza dubbio Freud investigando su un territorio già intuito da diversi poeti e scrittori, quello dell’inconscio e della psicoanalisi. D’Annunzio è ancora preso come modello anche se si sente l’esigenza da parte di alcuni poeti di abbandonare questo “divismo” per abbracciare la quotidianità della vita e l’inutilità della poesia stessa. La prima vera avanguardia nel Noveceto, si ha con il Futurismo che entra in forte polemica con il passato attraverso le riviste “La Voce” (i cui collaboratori sono per una poesia estremamente soggettiva , traboccante di neologismi, anacoluti e accostamenti insoliti di parole) e “Lacerba” (che rilancia la letteratura frammentaria ed esaltando l’anarchia del genio).

Tuttavia già dal 1920 si assiste ad una fase di tendenze contraddittorie, tra sperimentazione e ritorno alla tradizione , quasi fosse un richiamo all’ordine di fronte alla violenza della guerra , e proprio  per questo che la classicità viene ora intesa  non più come un peso morto ma come un’eredità da conquistare. Uno dei primi ad attuare quella che non sarebbe più stata solo una tendenza è Montale; mentre Stalin in Russia e Hitler in Germania cominciano a sopprimere ogni forma di espressione avanguardistica. Anche l‘Italia subirà poi le forti pressioni del regime fascista.

Dopo la Prima Guerra Mondiale i regimi liberali entrano in crisi i regimi liberali a causa delle lotte operaie e dell’affermazione dei partiti  socialisti ; in questo clima instabile, tuttavia, trovano strada facile i regimi totalitari come è stato già accennato precedentemente: Nazismo in Germania, Comunismo in Russia, Fascismo in Italia, mentre gli USA vivono un forte incremento industriale  che porta ad una grave crisi economica nel 1929. Nel 1939 ha inizio la Seconda Guerra Mondiale con l’invasione nazista della Polonia che induce Francia e Gran Bretagna a dichiarare guerra alla Germania. Anche l’Italia entra in guerra, ma si sottovalutano sia la Gran Bretagna che l’Unione  Sovietica. Le  sorti della guerra cominciano a cambiare quando gli USA si schierano contro la Germania dopo aver subito, un anno prima, l’attacco dei Giapponesi.

Nel 1943 Mussolini cade e viene imprigionato. Pochi mesi dopo viene siglato un armistizio con gli Alleati, e Hitler fa  nvadere l’Italia divenuto ormai paese nemico e Mussolini, una volta liberato, fonda la Repubblica di Salò. Nel 1944 gli alleati sbarcano in Normandia e piegano  la Germania . Hitler si suicida. La guerra si conclude con la resa del Giappone a seguito del bombardamento atomico per  opera degli Stati Uniti; Mussolini viene ucciso dai partigiani. Il mondo ora è  diviso in due blocchi: quello occidentale rappresentato dagli Stati Uniti e quello orientale dall’Unione Sovietica. Capitalismo contro Comunismo, entrambi alla ricerca di alleati  per avere il predominio. Tutto questo sconvolge la cultura letteraria ed artistica del novecento che vede davanti a sé arretrare sempre più la democrazia, l’affermarsi della società di massa, del consumismo e di conseguenza le disparità economiche e disuguaglianze sociali. La poesia, sopratutto in Gran Bretagna è impegnata, civile, unita alla raffinatezza formale. Nasce l’industria del cinema ad Hollywood che influenzerà non poco la letteratura.

Anche il panorama filosofico del Novecento appare complesso che vede contrapporsi due scuole di pensiero opposte: la filosofia analitica e quella continentale. Sia gli analitici che i continentali vogliono rompere con la metafisica e la sua impostazione fondazionalista della filosofia optando per una filosofia che rifletta su sè stessa. Tra gli analitici spiccano i nomi di Wittgenstein e di Popper, tra i continentali quello di Heidegger. “Il trattato logico filosofico” di W. ha fatto scuola nella filosofia della scienza del Novecento; secondo il filosofo viennese quello che noi chiamiano pensiero rispecchia perfettamente la realtà costituita da fatti atomici, composti a loro volta da oggetti semplici. Il modo migliore per verificare la veridicità dei fatti è l’empirismo rifiutando, come i neopositivisti, la metafisica. W. inoltre è alla ricerca di una formulazione di un linguaggio universale ed elabora una teoria di giochi linguistici per arrivare ad asserire che ciò che dà significato alle parole è l’uso che se ne fa nel linguaggio comune.

Popper prende in analisi i ragionamenti e le teorie e giunge alla conclusione che l’induzione non esiste o quantomeno non può portare a nulla:

“Il fatto che per ogni problema esiste sempre un’infinità di soluzioni logicamente possibili è uno dei fatti decisivi di tutta la scienza; è una delle  cose  che  fanno  della  scienza  un’avventura  così  eccitante.  Esso  infatti  rende inefficaci tutti i metodi basati sulla mera routine. Significa che, nella scienza, dobbiamo usare l’immaginazione e idee ardite, anche se l’una e le altre devono sempre essere temperate dalla critica e dai controlli più severi.”

Secondo P. infatti noi siano tabula plena non tabula rasa e la ricerca inizia proprio dai problemi che vanno risolti  attraverso la formulazione di ipotesi. Ma la nostra conoscenza scientifica è congetturale ed ipotetica , problematica e fallibile e le nostre teorie sono falsificabili. Per questa concezione fallibilistica P. è considerato il teorico della democrazia e della società aperta, un liberale progressista, un ingegnere olistico, un riformista.

Tra i continentali Heidgger elabora il metodo storico ermeneutico (Scuola di Francoforte); nel suo capolavoro “Essere e tempo” prende in questione l’essere il cui problema coincide con l’apparire agli altri, per cui l’uomo è sempre in situazione, è gettato in essa, in un rapporto aperto verso il mondo. Esistere vuol dire possibilità di agire, quindi per H. la prassi precede la conoscenza, il modo di essere dell’Esserci è la sua esistenza ed è anche un essere per la morte.

Tuttavia H. ci tiene a distinguere il suo pensiero da quello esistenzialista per cui l’uomo non deve essere pià padrone dell’ente ma il pastore dell’essere:

“l’uomo è piuttosto gettato dall’essere stesso nella verità dell’essere, in modo che, così esistendo, custodisca la verità dell’essere, affinché nella luce dell’essere l’ente appaia come quel che l’ente è.”

Durante il Novecento, l’ontologia diviene ermeneutica, ovvero interpretazione del linguaggio, (l’Essere si svela nel linguaggio) rifiutando il modello storicistico per quanto riguarda la concezione dell’arte, la quale per H. plasma l’epoca in cui si sviluppa.

Exit mobile version