Contadino e lavoratore manuale, Ugo Tommei. Un vero e proprio autodidatta in un’epoca in cui la passione accesa e bruciante e il sacro fuoco del sapere e della conoscenza divampavano nelle menti e nei cuori dei proletari più coscienti e generosi. Visse a cavallo tra XIX e XX secolo, e fu una sorta di Lemmonio Boreo in carne ed ossa. Chissà se Ardengo Soffici nel redigere il suo giovanile, anticonvenzionale ed anarcoide romanzo del 1912 così intitolato, non si sia poi realmente ispirato ad un certo milieu da lui frequentato ed approfondito e nel quale alcuni personaggi come Tommei, così affini per l’appunto a Lemmonio Boreo, erano componenti preziose ma infine non così rare.
Ugo Tommei nacque a Firenze il 15 gennaio 1894 da Francesco e Teresa Linari. Tommei, pur da umilissime origini, si fece ben presto conoscere pubblicamente ed entrò in contatto con gran parte della cultura fiorentina dell’epoca, caratterizzata dalla straordinaria ed effimera “stagione delle riviste”. Strinse amicizia con i futuristi papiniani che in seguito partoriranno la rivista Lacerba (1913-1915) e con i vociani Soffici, Rosai, Meriano che lo apprezzarono e lo stimarono. Tra il Nostro e questi tre si realizzò una sincera osmosi culturale, uno scambio gratificante, costante e spiritualmente arricchente. Anarchico e futurista, Tommei decise di prendere una iniziativa personale fondando proprio nella sua città il quindicinale Quartiere Latino (1913-1914), sul quale scrisse anche il poeta Gian Pietro Lucini, e a cui collaborarono molti giovani autori, tra cui il siciliano Enrico Cardile, il pugliese Arcangelo Di Staso, l’abruzzese Giovanni Titta Rosa, il ligure Camillo Sbarbaro, il romagnolo Corrado Govoni, i triestini Giani Stuparich e Augusto Hermet.
La rivista fiorentina diede alla luce sette fascicoli, tutti di otto pagine in formato 22×32 cm, stampati presso la tipografia Vallecchi e usciti, due volte al mese, dal 24 ottobre 1913 al 28 febbraio 1914. Ugo Tommei era affiancato da Guido Pogni in qualità di gerente responsabile. La direzione era in via S. Antonino 5 a Firenze, il costo di ogni copia era di 10 centesimi. Il programma e i lavori ospitati sul periodico si orientarono immediatamente verso una sorta di nazionalismo popolare, sociale e neo-proletario molto rude ed indisciplinato, nonché politicamente scorretto. Come evidenzia lo studioso Ugo Piscopo nella post-fazione alla ristampa anastatica della rivista, il nome di Quartiere latino “si agganciava alle esperienze dei cenacoli dell’omonimo quartiere parigino, dove, a fine Ottocento, era circolata aria frizzante di etimo antiparlamentaristico, antidemocratico, antiriformistico, antilaicistico”. Dall’articolo programmatico apparso sul primo numero, si comprende che l’intitolazione della rivista di Tommei e dei suoi amici voleva essere inoltre un tributo alla latinità, intesa soprattutto come vigore, buona salute, certezza delle proprie origini, spirito indomito e ribelle. Punto di riferimento per tutto il gruppo che ruota attorno a “Quartiere latino” è indubbiamente il già ricordato Gian Pietro Lucini, precursore e insieme eversore dell’avanguardia, iniziatore e distruttore di “mode culturali”. Lucini in questa rivista esaltò il proprio anarchismo e la propria trasgressività, sottolineò la funzione civile assegnata alla poesia, il valore politico attribuito all’arte. Nello stesso tempo, si apprezzarono le sue audaci e rivoluzionarie sperimentazioni del verso libero, le originali interpretazioni delle tendenze simboliste, il suo gusto dissacratorio nei confronti dei valori e delle credenze ufficiali, la consapevolezza della crisi delle ideologie e della necessità del loro superamento attraverso una modalità attivistica, vitalistica, volontaristica di chiara origine soreliana. Grande fascino esercitò anche Corrado Govoni, scelto come secondo Nume Tutelare della rivista per la sua genuinità, la duttilità intellettuale e la libertà assoluta da ogni condizionamento, pur rispettando i supremi ed eterni valori letterari.
I giovani scrittori riuniti attorno a Tommei desideravano riportare la parola scritta alle sue funzioni peculiari, liberandola da contaminazioni e riconducendola al suo rigore tipografico. Da questo punto di vista è significativo il fatto che la rivista non conceda spazio alla grafica, alle illustrazioni, alle riproduzioni, diversamente da altri fogli contemporanei proiettati verso la modernità. Eccezione a questa “regola” fu fatta soltanto negli ultimi due numeri, in cui l’intitolazione acquistò più spazio e i caratteri si fecero più flessuosi. L’idea complessiva che accomunò tutti i collaboratori di “Quartiere latino” fu quella di accogliere le sollecitazioni allo svecchiamento del futurismo, ma senza sbilanciarsi troppo in avanti e prendendo le distanze dalle posizioni più estreme. La rivista volle essere moderna nell’attualità dei linguaggi e delle analisi, “fondandosi sulla concretezza e sulla specificità delle situazioni culturali e storiche presenti, ma non staticamente ferme”. Quest’idea, però, nella Firenze di quegli anni, dovette necessariamente fare i conti col papinianesimo, che esercitò un’intransigente egemonia sull’area futurista toscana. E infatti, per non restare tagliati fuori, Tommei, Di Staso, Titta Rosa si arruolarono come lacerbiani e futuristi, abbandonando tutte le riserve e le ambiguità precedentemente espresse in proposito e sospendendo le pubblicazioni di Quartiere latino col n. 8 del 28 febbraio 1914, ma garantendo in cambio agli abbonati la possibilità di ricevere i fascicoli di “Lacerba”, la rivista fondata e animata da Giovanni Papini tra il 1913 e il 1915, così importante nella storia letteraria italiana di cui Ugo Tommei divenne collaboratore piuttosto attivo.
Nelle prime settimane del 1915, Ugo Tommei, già impegnato nella propaganda “guerraiola”, scriveva a Giovanni Papini, rimasto l’unico direttore di Lacerba dopo il disimpegno di Ardengo Soffici all’inizio dell’anno, questa lettera:
“Caro Papini, come sta? Non le ho mai scritto sperando di vederla da un momento all’altro a Firenze, dove io dirigevo fino a pochi mesi fa il mio Quartiere Latino. Come correrei, se potessi, fra i francesi! Che brutta cosa è la famiglia! Mai come ora n’ho sentito il peso. Ma se non c’è dato di muoverci, perché non si fa qualcosa in altro campo? Perché tocca bene a noialtri giovani a scuotere i restii e a propugnare la guerra ai barbari. Ho visto Lacerba rossa: non le pare che dovrebbe essere il vero giornale della guerra? Dopo il suo bell’articolo sui fatti di Giugno tutti aspettano da lei un’esplicazione di gran genio – scusi l’espressione – al minuto. Un’indelebilità, un’opera duratura, resistente al tempo, ottenuta colla trattazione dell’attualità. Lei, poi, che sente così fortemente l’anima francese moderna, sono convinto che farebbe grandi cose. Se potessi persuaderlo! Lacerba dovrebbe diventare l’organo dei giovani intelligenti, svegli, ragionatori come sognatori – e liberi, soprattutto. La redazione dovrebbe essere un ufficio arruolamenti, la sua tipografia dovrebbe comporre da mattina a sera manifesti uso ’48! Tutti i quotidiani danno notizie incerte, stupide, tagliate; articoli balordi, gravi danze di regime, matrimoni degli Ulivi. Se no ci sono le cronachine illustrate da due soldi l’una. Occorrerebbe un vero diario-notizie importanti sintetiche, impressioni di amici partecipanti, inchieste, rivelazioni di dessous politici sporchi-articoletti personali e violenti. Lacerba dovrebbe essere il suo pamphlet. Un grande scrittore trova sempre la vita nell’attualità. Il giornalismo è un sudiciume perché i giornalisti italiani non costano un cazzo e c’entrano come in un rifugio. Ma lei m’insegna che proprio i francesi eccellono in questa letteratura del momento. Bisogna dare delle opinioni al pubblico. Non fare gli spettatori. Questa guerra è stata una rovina, è vero. Ma chi l’ha voluta? I tedeschi. E ormai addietro non si torna. Se tutti si fermassero sarebbe la vera rovina. Dunque buttiamoci anche noi. Non abbiamo mica paura. Del resto nessuno c’impedirebbe di dire le parole della nostra verità. Lacerba dovrebbe uscire anche straordinariamente ad ogni avvenimento straordinario. Come un quotidiano. Sarebbe un’anticipazione insperata del progetto cui stavamo dietro per l’anno nuovo. Si farebbero grandi tirature, da scaraventare fin dove la posta arriva. All’uscita si farebbero varare da una squadra di giovanotti strilloni: Lacerba! Lacerba! Lacerba! Papini capitano dei giovanotti coraggiosi! Papini non invecchia mai! Il suo amore per l’Italia e per l’Anarchia non è una bella frase da quindicinale artistico! È anche un pugno di ferro contro chi non vi acconsente! Viva la guerra: solo questo le dico io che pure non mi son sentito mai tanto anarchico come ora. Quella rivoluzione che da tanto si sollecita e si vitupera dovrebbe scoppiare proprio ora integrata ad una difesa dai nemici stranieri. Morte ai tiranni di dentro e a quelli di fuori. Lei crede che non ci sarebbero abbastanza persone da dedicare tempo a questo Rinnovamento Lacerbiano? Io mi offro fin d’ora a tutto quello che possa occorrere: articoli, correzioni di bozze, tazze di caffè, fatiche amministrative, sgobbamenti di tutti i generi; corse da una parte all’altra della città, riscossioni. Tutto purché non si restasse fermi a guardare in un momento così eroico. E quando ci fosse la necessità piglierei anche il fucile, benché ci veda poco e benché uno sparo mi rintontisca. E quando Lacerba fosse diventata davvero la parola vera del popolo italiano, dopo, alla fine della guerra, non se l’immagina lei la grande autorità e la grande importanza e considerazione delle nostre teorie artistiche? Se no questa Lacerba può morire. Pochi la comprano, nessuno ci si interessa. I vecchi piglieranno l’occasione per osservare che è morta per pacatezza d’idee. Porco giuda, non ci mancherebbe altro! Mi scriva, se non le dispiace, e faccia, faccia, faccia. Se dorme è un parricida. La saluto caramente”.
La lettera va datata con certezza al principio del 1915 sulla base dell’inequivocabile “ho visto Lacerba rossa”: e Lacerba cominciò infatti ad uscire col titolo in rosso il 3 gennaio di quell’anno. Questa era la fase più aspra della battaglia per l’intervento italiano, che vedeva impegnata la quasi totalità delle giovani avanguardie italiche. Ugo Tommei aveva dunque accolto il futurismo ma nella sua singolare accezione papiniana, in parte ostile al marinettismo. Affascinato dalla mistura antiborghese e antidemocratica lacerbiana, egli era il consapevole esponente di quella giovane generazione per cui inclinazione interventista e disposizione rivoluzionaria non furono affatto inconciliabili, ed anzi invocò proprio l’integrazione rivoluzione/guerra, anarchismo/interventismo: “morte ai tiranni di dentro e a quelli di fuori”, insomma.
Uno degli aspetti più rilevanti della lettera va individuato nella convinzione che Giovanni Papini potesse e dovesse assumere la leadership dell’intellettualità interventista e fare di Lacerba l’organo di una tale operazione politico-ideologica. Per Tommei, il carisma interventistico di Papini derivava direttamente dal suo carisma ribellistico. Il papinianesimo nel primo quindicennio del Ventesimo Secolo aveva fatto grazie ad esso numerosi proseliti nelle file anarchiche individualiste e questa realtà era confermata dalle abbondanti polemiche del “revisionista anarchico” Camillo Berneri contro l’individualismo libertario in rapporto a siffatto argomento. Carlo Molaschi parlò polemicamente di “lue futurista”; sempre quest’ultimo “per richiamare alla ragione gli sragionanti”, nel 1919 si scagliava retrospettivamente contro coloro che correvano “sulle orme di Papini per accettare i suoi scritti come Vangelo d’anarchismo”. Ma il sovversivismo individualista e antiborghese di “Lacerba”, a dispetto degli attacchi dei Sommi Pontefici dell’Anarchismo di scuola gradualista, era sincero: la rivista papiniana era giunta, ad esempio, al punto di offrire in omaggio ai suoi lettori i libri Cardi selvaggi e Aristocrazia operaia di Lorenzo Cenni, libertario, già direttore de La Blouse, singolare rivista di “letteratura operaia, compilata esclusivamente con scritti originali di autentici lavoratori del braccio” e stampata a Firenze, in pieno vocianesimo, tra il 1906 e il 1910.
L’anarchico interventista Ugo Tommei aveva già dimostrato quanto la sua ideologia fosse omologa a quella papiniana fin dai discorsi di quel personaggio-filo conduttore del “Quartiere Latino”, emblematico persino nel nome di “Maso il contadino”, cui Tommei stesso aveva affidato e delegato l’esposizione di talune proprie idee politiche e sociali. Maso – alter ego tommeiano – è infatti “contadino e poeta” e “nega partiti e padroni”, cosicché, Antidemocratico, antiegualitario e panegotista, Maso il contadino detesta la borghesia ma anche le masse urbane – “il canagliume sbuccione” – pur amando vigorosamente il popolo, “che è ignorante, sì, crudo, testardo”: un amore per il popolo-campagna e un disprezzo per il popolo-città, dal sapore strapaesano, nel quale la borghesia e le masse operaie sono viste come componenti complementari, non conflittuali, della medesima civiltà produttiva. Né Maso-Tommei sopporta di venir classificato entro una linea politica determinata: anarchismo, per Tommei, vale rifiuto della Politica, anche se non nel senso dell’antipoliticità e del qualunquismo, quanto piuttosto in quello del superamento stesso della politica a vantaggio di una concezione artistico-totalizzante, una sorta di anarchismo radicale, socialista e patriottico. “Contadinità-arte-anarchismo” costituiscono insomma il tentativo di esplicarsi di una personalità contraddittoria ed ambivalente, naturale espressione di tutto un milieu minoritario ma ben visibile nei primi due decenni del Novecento Italiano.
Amico, come detto, di Ottone Rosai e a sua volta apologeta, come il pittore, del Teppismo, Tommei presenta dunque, in questa lettera a Papini appena riportata, proprio gli stati d’animo, le urgenze e i bisogni suoi, tipici ad un tempo di quella condizione generale esistenziale e di una ben determinata fase: ovvero, da un lato la domanda d’aggregazione, dall’altra la spinta all’eversione. Guerra e Rivoluzione si mescolano e si confondono, “Lacerba” viene trasformata da giornale d’arte in strumento di agglutinazione politica e Papini da scrittore d’assalto a capo ideologico: intervento bellico o Settimana Rossa, per Tommei si trattava sempre di realizzare i modi di una via estetico-politica all’eversione, di fomentare la tendenza allo spirito scissionistico come fenomeno di massa. In piena guerra, poco prima di morire al fronte, Tommei ribadirà sul maggior foglio del futurismo combattente, L’Italia Futurista, queste pulsioni, che avranno il loro culmine nella sua ultima visionaria proposta: quella per l’abolizione della Storia, una provocazione che in tempi ben diversi e più recenti verrà rilanciata da Carmelo Bene. In campo futurista, in seguito alla rottura fra la direzione di Lacerba e il gruppo fedele a Filippo Tommaso Marinetti, la scelta di Tommei per il lacerbismo fu operata senza alcuna remora e condivisa a Firenze da un nucleo di giovani intellettuali noti come “Cerebralisti” e capitanati da Mario Carli, successivo protagonista dell’Impresa di Fiume, ed Emilio Settimelli, che ritroveremo, anch’egli, con D’Annunzio nella Fiume “città di vita”.
Arte come sublimazione della politica, illogicità delle forme come provocazione sociale: il deflagrare bellico tanto auspicato prima, e celebrato poi, diventa per questi giovani rivoluzionari il terreno di prova e di preparazione per un anarchismo “intellettuale” scopertamente connotato dai segnali sovversivi e fiammeggianti della rossa bandiera e del fantastico fuoco. Per settori non indifferenti, soprattutto sul piano qualitativo, del sovversivismo, la Grande Guerra del 1914-1918 o Prima Guerra Mondiale fu l’occasione per esprimere una certa tendenza vitalistica, superomistica, energetica, attivistica, edonistica, estetizzante che si contrapponeva ad ogni Sinedrio, fosse pure rivoluzionario, e rifiutava ogni dogmatismo, giudicandoli come prodromici all’accettazione di un riformismo inerte, funzionale alle esigenze del capitalismo. I militi sovversivi aderirono a questa battaglia con l’impellente desiderio di mettersi alla prova, in discussione, in questione, di attuare nei fatti e non soltanto a parole il precetto nicciano “vivere pericolosamente”. Il caso personale di Tommei fu dunque emblematico di una intera generazione: egli cadde da eroe in guerra, sul Monte Asolone, presso Caporetto, a soli ventiquattro anni, il 18 gennaio 1918, sacrificando così la sua esistenza ai nobili ideali della Patria, del Socialismo e della Rivoluzione, coniugati peraltro in maniera personalissima e paradossale, in assoluta sintonia con i vissuti materialmente lontanissimi e al contempo spiritualmente contigui dei suoi commilitoni di provenienza sovversiva e di fede interventista.