Arti figurative, musicalità dei versi e richiami eterogenei nei misteriosi ‘Canti Orfici’ di Dino Campana

Storia vecchia come il mondo quella che associa i poeti ad una qualche forma di pazzia. Già Platone d’altronde era stato chiaro: un uomo è incapace di poetare o dare responsi se non è fuori di sé, invasato, finché la sua mente vacillante non c’è più. Dino Campana la fama del folle inizia a cucirsela addosso sin da giovanissimo con le azioni più che con l’inchiostro della penna: le fughe improvvise, il misterioso vagabondare tra i monti, i subitanei furori, la tormentata storia d’amore con Sibilla Aleramo, le minacce a Papini reo di aver perduto il suo prezioso manoscritto, tutti elementi che avrebbero presto portato a una precisa diagnosi e a una fatale condanna: schizofrenia, sia internato.

Il definitivo ricovero segna il punto di non ritorno: sul giovane poeta imbronciato di belle speranze cala un velo e lo stesso può dirsi per i suoi Canti Orfici, pubblicati dopo svariate peripezie soltanto nel 1914 e finanziati principalmente dalle sottoscrizioni dei pochi amici ed estimatori.
La critica si divide quasi immediatamente tra chi lo disprezza, da Papini fino a Saba che di lui dice che era matto e solo matto, e chi riesce, come Montale, a cogliere la novità di un’opera misteriosa e straniante, di un’arte tutta alienata dinanzi alle istituzioni letterarie, scriverà Sanguineti. Non c’è da stupirsi: sin dal titolo i Canti Orfici contengono un avvertimento. Se canti allude alla componente primigenia musicale della poesia, orfici, parola carica di misticismo, è sia un atto di fede che una restrizione del campo dei lettori: solo un’élite di iniziati come gli adepti del culto di Orfeo sarà capace di sciogliere il mistero, di leggere tra le righe, di apprezzare la grandezza dell’opera.

Dino Campana, da buon veggente, guarda al mondo che lo circonda con occhi diversi, coglie segrete corrispondenze, recepisce messaggi rivolti al suo io e li fissa sulla pagina. Di sicuro, in un periodo in cui si registra da più parti la crisi diffusa dei valori e delle forme con cui la letteratura ha fino ad allora saputo esprimersi, anch’egli tenta di percorrere nuove strade e lo fa con l’impeto del visionario. Nella sua esperienza unica e irripetibile il poeta toscano condensa la ricerca di un esclusivo e proficuo rapporto con le arti figurative, il lavoro sul ritmo e sulla musicalità del verso, la produzione di immagini e simboli disturbanti che strizzano l’occhio al mistero, le frequenti allusioni a qualcosa di inafferrabile, così vicino e così irrimediabilmente distante. Straordinariamente innovativo, il suo è un esperimento rischioso ed egli sa che può fallire, ma vi si dedica anima e corpo per l’intera vita, anzi, ne fa il senso ultimo della vita. Tutta colpa della follia?

Gli studi sui Canti Orfici, moltiplicatisi negli ultimi decenni e arricchiti dei contributi offerti da materiali inediti (ma raramente fuoriusciti dall’ambito accademico), ci restituiscono il ritratto di un autore estremamente lucido che compie scelte precise e consapevoli. I modelli da cui trarre ispirazione, sia a livello tecnico-formale che ideologico, sono tutti presenti nella raccolta, creano un amalgama eterogenea di richiami e reminiscenze che si moltiplicano e si compenetrano come in un complesso gioco di specchi. Si ritrovano allora i grandi maudits d’Oltralpe, in particolare Rimbaud, l’amato Whitman dal lento incedere al limite del prosastico, il Carducci classicheggiante intimo cantore di paesaggi, il Pascoli dell’allusività e del mistero, il D’Annunzio verlibrista passionale moltiplicatore di simboli e allegorie, il Dante della Commedia, sorta di fratello spirituale col suo pellegrinaggio dalle tenebre verso la luce, persino Nietzsche riecheggia in più punti.
E ancora, mentre viene celebrata la grandezza dell’arte rinascimentale (Leonardo, Michelangelo, Botticelli, Durer e gli altri “divini primitivi”), oggetti e ambienti assumono le tonalità evocative dell’Espressionismo, le spigolose sfaccettature del Cubismo, la dinamicità futurista e il fascino onirico del Surrealismo. Perché nell’estasi del furore creativo Dino Campana non ha bisogno di distruggere la tradizione tout court, gli basta piuttosto selezionare gli autori, i pensatori, gli artisti che costituiscono la “sua” tradizione e nel loro solco inserirsi per proseguire la ricerca. Nelle sue scelte, anzi, egli si riserva di attingere a piene mani da ciò che più gli va a genio in ciascuno di loro e questo spiega anche alcune sospette contraddizioni fra dichiarazioni autoriali e prassi (si pensi, ad esempio, a quel D’Annunzio definito “Vate grammofono” la cui lezione è, però, imprescindibile o alla contestazione del Futurismo sul piano letterario in quanto “senza armonie”, ma di cui sono condivisi diversi assunti teorici).

Fedeli all’ideale di una poesia totalizzante in cui far confluire la cultura in blocco abbracciandone le più svariate manifestazioni, i Canti Orfici puntano ad essere un “libro-tutto” e risultano invece un “libro-limite”, nel senso che mostrano tutti i limiti di un progetto già intrapreso da altri (Mallarmé e Lucini) e votato per sua stessa natura al fallimento. Lo sforzo di Dino Campana è eroico, la chimera “pallida-esangue” che insegue di fatto inafferrabile, l’opera cui attende richiede dedizione e sacrificio, ma allo stesso tempo condanna all’isolamento e all’incomprensione di un ambiente culturale coevo aperto si allo sperimentalismo, eppure anche pronto a condannare ciò che non comprende appieno. Il poeta accetta allora con coraggio il suo destino, amaramente lo prevede, rinuncia alla lotta e lancia il j’accuse finale nell’epigrafe del libro:

They were all torn and cover’d with the boy’s blood.

Sono parole scelte con cura, versi, opportunamente rimaneggiati, tratti dalla celebre Song of Myself di Walt Whitman: erano tutti stracciati e coperti col sangue del fanciullo.
Il fanciullo è lui, Dino Campana, innocente come tutti i poeti, una vita in lotta con se stesso e con il mondo alla ricerca di un equilibrio precario sempre sull’orlo dell’abisso; gli aguzzini sono coloro che hanno ucciso l’uomo e l’artista, che gli hanno tappato la bocca, che più o meno coscientemente ci hanno restituito il ritratto a tinte fosche di un povero pazzo da porre ai margini, forse perché già al di là della loro portata.
I Canti Orfici, affascinanti, misteriosi, sfuggenti nella loro eterogeneità, restano l’esperienza poetica sublimata e il testamento spirituale di un autore ridotto troppo a lungo, ingiustamente, al silenzio. Li si definisca come si vuole, ma non il parto di un folle.

Crepuscolo mediterraneo perpetuato di voci che nella sera si esaltano, di lampade che si accendono, chi t’inscenò nel cielo più vasta più ardente del sole notturna estate mediterranea? Chi può dirsi felice che non vide le tue piazze felici, i vichi dove ancora in alto battaglia glorioso il lungo giorno in fantasmi d’oro? (Da Crepuscolo mediterraneo)

Ricordo una vecchia città, rossa di mura e turrita, arsa su la pianura sterminata nell’Agosto torrido, con il lontano refrigerio di colline verdi e molli sullo sfondo. Archi enormemente vuoti di ponti sul fiume impaludato in magre stagnazioni plumbee: sagome nere di zingari mobili e silenziose sulla riva: tra il barbaglio lontano di un canneto lontane forme ignude di adolescenti e il profilo e la barba giudaica di un vecchio: e a un tratto dal mezzo dell’acqua morta le zingare e un canto, da la palude afona una nenia primordiale monotona e irritante: e del tempo fu sospeso il corso. (Da La notte)

Non so se tra rocce il tuo pallido Viso m’apparve, o sorriso Di lontananze ignote Fosti, la china eburnea Fronte fulgente o giovine Suora de la Gioconda: O delle primavere Spente, per i tuoi mitici pallori O Regina o Regina adolescente: Ma per il tuo ignoto poema Di voluttà e di dolore Musica fanciulla esangue, Segnato di linea di sangue Nel cerchio delle labbra sinuose, Regina de la melodia: Ma per il vergine capo Reclino, io poeta notturno Vegliai le stelle vivide nei pelaghi del cielo, Io per il tuo dolce mistero Io per il tuo divenir taciturno. Non so se la fiamma pallida Fu dei capelli il vivente Segno del suo pallore, Non so se fu un dolce vapore, Dolce sul mio dolore, Sorriso di un volto notturno: Guardo le bianche rocce le mute fonti dei venti E l’immobilità dei firmamenti E i gonfi rivi che vanno piangenti E l’ombre del lavoro umano curve là sui poggi algenti E ancora per teneri cieli lontane chiare ombre correnti E ancora ti chiamo ti chiamo Chimera. (Da La Chimera)

 

Dino Campana: tra follia e poesia

Nato a Marradi in provincia di Firenze, Dino Campana(Marradi, 20 agosto 1885- Scandicci, 1 marzo 1932), trascorre l’infanzia in modo apparentemente sereno ma, fin da giovane inizia a dare segni di squilibrio mentale, favoriti dalla religiosità bigotta della madre infelice che lo accusa di essere l’anticristo.

Dino Campana

La sua vita è un alternarsi di momenti di lucidità e di furore violento, per questo è a più riprese internato in un manicomio sino al ricovero definitivo del 1918. Destabilizzante e turbolenta  si è rivelata la sua relazione con la poetessa Sibilla Aleramo.

Le crisi nervose si acutizzano, come pure i frequenti sbalzi di umore, a causa dei difficili rapporti con la famiglia, soprattutto con la madre, e  della vita monotona del paese natio.

Dino Campana esprime il suo “male oscuro” con un irrefrenabile bisogno di fuggire e dedicarsi a una vita errabonda. La prima reazione della famiglia, e poi dell’autorità pubblica, è quella di considerare le stranezze del poeta come segni lampanti della sua pazzia. A ogni sua fuga, che si realizza con viaggi in paesi stranieri dove si dedica ai mestieri più disparati per sostentarsi, segue, da parte della polizia (in conformità con il sistema psichiatrico di quei tempi), il ricovero in manicomio.

Nel 1913 consegna ai direttori della rivista “Lacerba” il manoscritto di poesie “Il lungo giorno” ma questi lo smarriscono e il poeta riscriverà i versi a memoria, pubblicandoli poi sulle riviste “La Voce” e “Lacerba“. Muore in manicomio nel 1932 dopo 14 anni di internamento trascorsi a dettare al suo medico curante notizie autobiografiche e riflessioni.

Da molti considerato il “poeta visionario” italiano per eccellenza, da altri ridimensionato a semplice <<poeta visivo>> (Contini), Dino  Campana è un poeta discusso, coinvolgente e suggestivo. Nell’ambito della linea “vociana”, in cui può esser fatto rientrare almeno marginalmente, rappresenta una sintesi originale di simbolismo ed espressionismo. L’ansia di liberazione e realizzazione esistenziale, è uno dei tempi ricorrenti nella poesia di Campana.

Le sue opere sono  pervase da due tendenze apparentemente inconciliabili: da una parte l’immediatezza esistenziale nel rapporto con la realtà e dall’altra invece l’influenza di modelli importanti come Carducci e Nietzsche. Anche la follia di Campana è stata interpretata in due modi opposti ma che coesistono: essa rappresenta l’incapacità di compromessi sociali e l’adesione al modello culturale di poeta maledetto (rifacendosi a Rimbaud). Alla base della psicologia dell’arte del poeta c’è un sentimento lacerante di esclusione e disarmonia. In questo senso di disadattamento Campana esprime in modo personale l’instabile condizione dell’intellettuale novecentesco. La reazione dell’autore, però, è differente rispetto agli altri poeti contemporanei, per la sua tendenza a resistere disperatamente alla nuova condizione, negandola. e  tentando  disperatamente di reintegrare l’io nell’armonia generale delle cose.

La sua controversa collocazione critica e i giudizi non certo unanimi hanno contribuito a formare attorno a questa figura un alone di mistero, per cui, quando si parla di  Dino Campana, si tende sempre a dare credito all’immagine del “poeta maledetto”.

La follia però, per il poeta, non è un presupposto della sua produzione; semmai è considerabile un punto d’approdo la libertà sterminata, distruttiva e disgregatrice di ogni coerenza, figlia del tempo in cui Nietzsche aveva decretato “la morte di dio”.

Eugenio Montale fu tra i primi estimatori ufficiali, il più autorevole a oggi, delle composizioni di Dino Campana, tanto da dedicargli una poesia o meglio un omaggio a chi meglio di lui aveva saputo piegare le parole fino a renderle ancora più oscure.

La poesia di questo poeta visionario è una poesia nuova nella quale sono presenti i suoni, i colori e la musica in una trasfigurazione reale del simbolismo onirico. Il verso è indefinito e i valori classici e una grande modernità si compenetrano in una forma e purezza irripetibili.

Campana afferma di voler <<nel paesaggio collocare dei ricordi>> e sul paesaggio, fondamentale nella sua poesia, aleggia un alone di misteriosa lontananza. Nei suoi scritti sentiamo il fascino delle ore crepuscolari, della luna sui campi, del canto che si perde nelle strade solitarie, della finestra illuminata nel buio della notte mediterranea.

La partenza e il ritorno sono i temi fondamentali della poetica campaniana; un figliol prodigo che desidera la casa paterna, ma che odia al contempo; è possibile confrontarlo con la figura di Ulisse, nella misura in cui possiamo considerare che il poeta ha una reale volontà di ritornare a casa.

Un altro tema fondamentale della sua poetica è “l’oscurità tra il sogno e la veglia”, percepibile dal ripetersi degli aggettivi, che ritornano come se dettati durante un sogno.

Per comprendere meglio le qualità poetiche di Campana è utile servirci delle parole di Zanzotto, il quale afferma che <<una poesia come quella di Campana si configura come un flusso ininterrotto di armonie e di disarmonie, di serie melodiche e semantiche che si sovrappongono e s’intrecciano: proprio per questa ragione, la sua poesia risulta terribilmente difficile da cogliere. Il polverio delle discontinuità mentali di Campana giunge, in qualche oscuro modo, a fondersi al latteo suono, direi, dei suoi versi, a queste maree di armonie logiche e di armonie foniche che s’inseguono incessantemente, s’intersecano, si fondono e si differenziano per ricongiungersi ulteriormente, nelle sue poesie>>.

Canti Orfici

Dino Campana insegue una concezione alta e sublime della poesia come momento misterioso d’identificazione con la vita universale e dunque momento di assoluta verità. In questo senso va letto l’aggettivo orfico della prima e unica raccolta del poeta, “Canti Orfici” del 1914. Questo atteggiamento, sia nei riguardi dell’io che nei riguardai della poesia, è ben presente nella sua raccolta, che però cela un’altra verità: la condizione dell’emarginato. Il soggetto appare sulla scena nei panni di vagabondo e uomo sofferente tra la folla.  Sono riscontrabili  due tendenze prevalenti della sua poesia,  quello simbolistico. decadente e quello espressionistico.

Pensare nel languore
Catastrofi lontane
Mentre colle sue antenne
E le sue luci un grande
Cimitero il tuo porto
……………………….
Ne la città voluttuosa
Scuotevasi il mare profondo
Caldo ambiguo il silenzio sullo sfondo
Le navi inermi drizzavansi in balzi
Terrifici al cielo
Allucinate di aurora
Elettrica inumana,risplendente
A la poppa ne l’occhio incandescente.

 

In un momento
Sono sfiorite le rose
I petali caduti
Perché io non potevo dimenticare le rose

 

…………………………………………

Col nostro sangue e colle nostre lagrime facevamo le rose
Che brillavano un momento al sole del mattino.

 

Acqua di mare amaro
Che esali nella notte:
Verso le eterne rotte
Il mio destino prepara
Mare che batti come un cuore stanco
Violentato dalla voglia atroce
Di un Essere insaziato che si strugge…

(Poesie tratte dai “Canti Orfici”)

Altra tematica trattata da questa raccolta è la sessualità, rappresentata in termini sadici. La pulsione libica diventa il canale per esprimere la ribellione e la carica aggressiva del poeta.

AnchelLa ripetizione è una caratteristica fondamentale della poesia di Campana, il quale accuratamente studia le parole per ricavarne quella musicalità che tanto lo contraddistingue.

Tuttavia questae non crea ridondanza e monotonia, bensì contribuisce alla difficoltà e alla complessità del testo.Con  la sua instancabile ossessione a ripetere,  Dino Campana ha saputo rendere conto delle tensioni di un’epoca oltre che delle sue proprie, e insieme abbia dato voce ad una violenza psichica che fa parte in qualche misura di tutti noi.  La polisemia e l’ambiguità del testo mirano a produrre effetti musicali che, si fanno più intensi, proprio là dove il senso logico del discorso sembra rimanere sospeso. Se volessimo riferirci a Freud, è possibile affermare che l’oscuro significato delle parole, che porta alla sospensione del nesso logico, altro non è che l’effetto della rimozione che, per ubbidire al principio di realtà, trova nella sua espressione una formazione di compromesso tra l’impossibilità di esprime alcuni contenuti e la volontà di farlo.

La poesia, in questo senso, può essere dunque considerata un sintomo che esprime il disagio del poeta e di tutto un modello generazionale.

concludiamo  con il distico “Eterno” di Ungaretti che ci fa  comprendere a pieno la poesia di Campana:

Tra un fiore colto e l’altro donato

L’inesprimibile nulla.

Sibilla Aleramo: la coscienza ‘femminista’ della poesia del ‘900

Sibilla Aleramo (nome d’arte di Rina Faccio) nacque il 14/08/1876 ad Alessandria, e trascorse la fanciullezza a Milano e l’adolescenza nelle Marche, presso un borgo marchigiano.

Negli anni lavorò come contabile nella fabbrica del padre, al quale fu sempre molto legata, ma quando la madre, soggetta a crisi depressive, tentò il suicidio, fu costretta a sostituirla nel governo della casa e a occuparsi di ogni responsabilità domestica, riuscendo sempre a scrivere racconti e articoli giornalistici.

Nel 1892 fu violentata da un impiegato della fabbrica paterna e costretta a sposarlo; dopo un aborto, dall’unione col seduttore nacque il figlio Walter.

Gli anni del suo matrimonio furono molto infelici, continuamente maltrattata dal marito che la sospettava di tradimento, finché nel 1896 tentò il suicidio.

Si riprese, nonostante le oppressioni del coniuge, e intensificò l’attività letteraria, scrivendo articoli di costume, sociologici e inerenti soprattutto alla questione femminile, e iniziando la stesura del suo primo romanzo, l’autobiografia “Una donna”, testimonianza esemplare della condizione femminile, uno dei primi libri femministi apparsi in Italia, che uscì nel 1906 e riscosse subito un grande successo.

Sibilla Aleramo denunciò la grettezza e il maschilismo provocatorio del suo tempo dove ipocrisia ed ignoranza la fanno da padrone, spingendo le donne a ribellarsi.

Nel 1902 abbandonò il marito e il figlio (che rivide solo dopo trent’anni, nonostante avesse a lungo lottato per ottenerne la custodia) e si trasferì a Roma, avviando, così, la ricostruzione della sua vita dedicandosi appassionatamente ad un’intensa produzione letteraria, in poesia ed in prosa, alle “Scuole dell’Agro Romano” per gli analfabeti, fondate insieme a Giovanni Cena, e approdando all’antifascismo e al comunismo.

Bella, intelligente, libera da schemi e pregiudizi, desiderata dagli uomini, Sibilla Aleramo ebbe molte e intense storie d’amore. Diceva: <<L’amore fu la ragione della mia esistenza e quella del mondo>>.

Ed infatti i suoi scritti traboccano di sensualità e passionalità, ma anche inquietudine, sussulto, come dimostrano le seguenti poesie:

GUARDO I MIEI OCCHI

Guardo i miei occhi cavi d’ombra

e i solchi sottili sulle mie tempie,

Guardo, e sei tu, mio povero stanco volto,

Così a lungo battuto dal tempo?

Mi grava l’ombra d’un occulto sogno.

Ah, che un ultimo fiore in me s’esprima!

Come un’opaca pietra

Non voglio morire fasciata di tenebra,

ma d’un tratto, dalla radice fonda,

alzare un canto alla ultima mia sera.

ROSE CALPESTAVA

Rose calpestava nel suo delirio e il corpo bianco che amava. Ad ogni lividura più mi prostravo, oh singhiozzo invano di creatura. Rose calpestava,  s’abbatteva il pugno e folle lo sputo sulla fronte che adorava. Feroce il suo male  più di tutto il mio martirio. Ma, or che son fuggita, ch’io muoia, muoia del suo male.

Sibilla Aleramo ebbe relazioni  con Cena, Papini, Cardarelli, Boccioni, Cascella, Boine, Campana, Quasimodo, Matacotta, ricordiamo che furono romantiche ed intense.

Una grande ma lacerante passione, di cui resta traccia nell’epistolario, fu quella che la legò al poeta Dino Campana, uomo difficile, scontroso, anticonformista, che cercava nella natura i valori dell’esistenza e che poi, afflitto da gravi disturbi psichici, fu internato in manicomio.

Il suo ultimo grande amore fu il poeta Franco Matacotta, lei sessantenne, lui ventenne; la loro relazione portò tutte le tensioni derivanti da questo rapporto complesso e difficile, in disparità anagrafica e differenza intellettuale, che pure durò dieci anni.

Sibilla Aleramo visse gli ultimi anni della sua vita lottando contro la povertà e la depressione, ma fino alla fine continuò a viaggiare, a incontrare amici e a scrivere. Morì a Roma il 13 gennaio del 1960

Mario Luzi: poeta “d’elezione” e “della pienezza”

Mario Luzi nasce a Castello di Firenze il 24 Ottobre del 1914. Dopo l’infanzia trascorsa nel luogo d’origine, si trasferisce a Siena, dove vive un breve periodo della sua vita e poi a Firenze, anni in cui frequenta il liceo classico e si diploma. Successivamente, si laurea in letteratura francese e da questo momento in poi stringe rapporti con numerosi intellettuali dell’epoca, dedicandosi al lavoro presso alcune riviste d’avanguardia, come Campo di Marte e Paragone.
La sua prima raccolta di poesie, intitolata La barca esce nel 1935. Pochi anni dopo, insegna alle scuole superiori di Parma e nel ’45 al liceo scientifico di Firenze. Durante questo periodo, vengono pubblicate le sue più importanti raccolte poetiche : Studio su Mallarmé, Onore del vero, Quaderno Gotico, Un brindisi. Durante questo periodo, insegna letteratura francese alla facoltà di scienze politiche.
Tra gli anni che vanno dal 63 alla fine degli anni 70 pubblica diverse opere tra cui Nel Magma, Reportage, Semiserie.

Mario Luzi viene nominato senatore a vita da Ciampi, il 14 Ottobre del 2004, proprio nel giorno del suo compleanno. Muore dopo qualche mese a Firenze, il 28 Febbraio 2005. Considerato sicuramente uno scrittore ermetico, le tematiche a lui più vicine sono quelle che riguardano l’autobiografia e ciò che pone l’uomo in conflitto con se stesso e con ciò che lo circonda. Possiamo dividere la poetica di Luzi in tre fasi.

La prima viene fatta cominciare con La barca nel 1935 e finisce con Quaderno gotico; ora il suo interesse è rivolto al cristianesimo e si rifà a determinati modelli sia per ciò che riguarda lo stile che i contenuti, come Mallarmé ma anche Dino Campana. A metà possiamo collocare Avvento notturno, dove è forte l’influenza del surrealismo e del decadentismo liberty.

La seconda fase della produzione poetica di Mario Luzi comprende le raccolte Onore del vero, Primizie del deserto, Dal fondo delle campagne e Su fondamenti invisibili.

Mosso dalla costante inquietudine che caratterizza i suoi lavori e da un pessimismo di fondo, approda alla terza fase, che vede alla luce Nel magma, Per il battesimo dei nostri frammenti e Al fuoco della nostra controversia; opere dove è chiaro il rimando al periodo dell’infanzia e dell’adolescenza. Sono gli stessi anni in cui, grazie alla poesia Fuoco della controversia vince, ricordiamo, il Premio Viareggio.

Per alcuni resta il poeta “della pienezza”, per altri ”d’elezione” , introverso e mite, per la sua predilezione per le poche parole che raccontano  la  salvezza da una vita apparentemente priva di ogni significato; in un continuo rinnovarsi di pensieri e prospettive,  emblema del tardo Novecento, come dimostra con le seguenti liriche:

Da Avvento notturno, Avorio:

Parla il cipresso equinoziale, oscuro e montuoso esulta il capriolo, dentro le fonti rosse le criniere dai baci adagio lavan le cavalle. Giù da foreste vaporose immensi alle eccelse città battono i fiumi lungamente, si muovono in un sogno affettuose vele verso Olimpia. Correranno le intense vie d’Oriente ventilate fanciulle e dai mercati salmastri guarderanno ilari il mondo. Ma dove attingerò io la mia vita ora che il tremebondo amore è morto? Violavano le rose l’orizzonte, esitanti città stavano in cielo asperse di giardini tormentosi, la sua voce nell’aria era una roccia deserta e incolmabile di fiori.

Da Al fuoco della controversia, Ridotto a me stesso?

Ridotto a me stesso? Morto l’interlocutore? O morto io, l’altro su di me padrone del campo, l’altro, universo, parificatore… o no, niente di questo: il silenzio raggiante dell’amore pieno, della piena incarnazione anticipato da un lampo? – penso se è pensare questo e non opera di sonno nella pausa solare del tumulto di adesso…   Natura. La terra e a lei concorde il mare e sopra ovunque un mare più giocondo per la veloce fiamma dei passeri e la via della riposante luna e del sonno dei dolci corpi socchiusi alla vita e alla morte su un campo; e per quelle voci che scendono sfuggendo a misteriose porte e balzano sopra noi come uccelli folli di tornare sopra le isole originali cantando: qui si prepara un giaciglio di porpora e un canto che culla per chi non ha potuto dormire sì dura era la pietra, sì acuminato l’amore.

Dal periodo dell’assenza della realtà e della storia  caratterizzato da un linguaggio prezioso a quello del manierismo della sublime eloquenza, dall’esistenzialismo intriso di inquietudine e di ricerca dell’identità, alla speranza per la l’immortalità dell’anima; il poeta d’elezione e di lungo corso Mario Luzi ha attraversato tutte le stagioni dell’anima, senza conoscere pigrizia, un vero modello di civiltà.

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