Clemente Rebora, la poetica della ricerca spirituale e la lirica agonizzante soffocata dalla società capitalista

Clemente Rebora nasce a Milano il 6 gennaio 1885 dal garibaldino e massone Enrico Rebora e dalla poetessa Teresa Rinaldi. Nel 1903 intraprende gli studi di medicina che presto abbandona per seguire i corsi di lettere presso l’Accademia Scientifico-letteraria di Milano, dove si laurea nel 1910.

Fin dalla giovane età l’anima di Rebora sembra intrisa da profonde crisi spirituali; nel suo percorso accademico supera difficili momenti di depressione che lo portano sull’orlo del suicidio. Completati gli studi, dapprima, intraprende la via dell’insegnamento in istituti tecnici e scuole serali non tralasciando la passione per la scrittura; in questo periodo, infatti, collabora con numerose riviste fra cui ‘’La Voce’’, ‘’Diana’’ e ‘’Rivisita D’Italia’’.  Nel 1913 avviene il debutto letterario  con la pubblicazione del volume di poesie Frammenti lirici. Nel 1914 conosce  pianista russa Lydia Natus, l’unica donna che il amerà nel corso della sua esistenza.

Intanto scoppia la Prima Guerra Mondiale: l’episodio storico influirà nella vita di Rebora sia a livello personale che professionale, segnando la sua poetica. Dopo aver subito un trauma cranico sul Monte Calvario, a causa di una violenta esplosione, e il fermo dovuto a uno  stato di shock, il poeta milanese si riprende e annota le atroci esperienze belliche nella raccolta Poesie sparse, composta negli anni della Prima Guerra Mondiale ma pubblicata nel 1947.  Nella lirica Leggiadro vien nell’onda della sera, Rebora racconta questa sua dolorosa esperienza dove la ferita causata dallo scoppio di una granata lo porta ad errare lo porta a errare per ospedali psichiatrici e diagnosi di crisi nervose e disturbi post-traumatici da stress:

Leggiadro vien nell’onda della sera
un solitario pàlpito di stella:
a poco a poco una nube leggera
le chiude sorridendo la pupilla;

e mentre passa con veli e con piume,
nel grande azzurro tremule faville
nascono a sciami, nascono a ghirlande,
son nate in cento, sono nate in mille:

ma più io non ti vedo, stella mia.

 

Leggiadro vien nell’onda della sera ( Poesie sparse, 1947)

 

Il poeta, affascinato dalle stelle che spuntano all’imbrunire, scorge nella sera che avanza come un’onda che sommerge tutto un delicato palpito di stella: metafora di un cuore umano. L’astro che colpisce l’animo liliale dell’autore sparisce subito poiché oscurato da una nube leggera che all’etere regala faville scintillanti ma che, per sempre, ha celato ai suoi occhi l’astro amato: il palpito solitario che lo aveva colpito, adesso, lo ha abbandonato a sé stesso per sempre.

Dopo aver vagabondato da un ospedale all’altro, e in seguito a una diagnosi di infermità mentale, Rebora riprende la sua attività ma soprattutto si configura quello che, a tutti gli effetti, diventerà il tratto distintivo della sua poesia.

Rebora: le tematiche risorgimentali e la folgorazione religiosa

Nel 1922 pubblica la racconta Canti anonimi in cui Rebora si pone al cospetto di una quasi illuminazione spirituale; è una poesia di ricerca che possiede, all’interno della ritmicità e della semantica del verso, un retaggio culturale ben delineato.

Il poeta propende verso idee risorgimentali, costrutti di pensiero appresi dal retaggio paterno, e nello specifico alla figura di Giuseppe Mazzini di cui Rebora ammira le idee, intravedendo nell’operato del patriota una sorta di evangelismo laico dedito ai bisogni del popolo e alla giustizia sociale. Ma oltre le alte idee risorgimentali, la poesia di Rebora si caratterizza soprattutto come ricerca di fede e attestazione di quest’ultima.

Nel 1928, a tal proposito, il poeta subisce una folgorazione convertendosi al Cattolicesimo. Nel 1929 prende i sacramenti, mentre nel 1930 entra come novizio al Collegio Rosmini. Nel 1936, pronunciando i voti perpetui, viene ordinato sacerdote. Dall’improvvisa illuminazione religiosa nascerà la silloge Poesie religiose, i cui componimenti risalgono al periodo fra il 1936 e il 1947. Nel 1955 compone il Curriculm Vitae in cui  l’autore ripercorre la sua storia autobiografica mentre nell’ultima raccolta, Canti dell’infermità (1956), esplora l’aggravarsi della malattia che lo aveva condotto alla paralisi.

La poetica della ricerca spirituale e la critica alla società capitalista e industriale: la lirica soffocata dalla modernità

La raccolta Frammenti lirici rappresenta l’opera più vasta di Clemente Rebora  ma, soprattutto,  è la silloge in cui emerge l’attenzione del poeta verso i problemi esistenziali dell’uomo. La buona volontà, intesa come parte positiva dell’esistenza, e la depressione come contesto di connotazione negativa sono le tematiche principali che dominano la raccolta.

Ma è soprattutto la trasformazione della città che si riversa nel moderno, e il conseguente stato d’animo  dovuto al primo conflitto mondiale che imperversa nel popolo italiano, a fare da sfondo all’immagine poetica qui descritta da Rebora.

Il poeta cerca un compromesso esistenziale nell’indifferenza della vita cittadina voltata, ormai, al progresso moderno; la società industriale e il capitalismo diventano ombra della poesia autentica che Rebora immagina fagocitata da una modernità che avanza. La poesia è agonizzante: sommersa dalla società industriale e dalle masse che si piegano a un consumismo sempre più dilagante. Nella visione di Rebora, in questo senso, il poeta è adesso solo con il proprio Io; mentre cerca di non annaspare nel mare dell’opportunismo si rivolge a una visione metafisica nel tentativo di un’amara consolazione che è, in realtà, un’illusione per sopravvivere.

 

O pioggia feroce che lavi ai selciati
lordure e menzogne
nell’anime impure,
scarnifichi ad essi le rughe
e ai morti viventi, le rogne!
Quando è sole, il pattume
e le pietre dei corsi
gemme sembrano e piume,
e fra genti e lavoro
scintilla il similoro
di tutti, e s’empiono i vuoti rimorsi;
ma in oscura meraviglia
fra un terror di profezia
tu, per la tenebra nuda
della cruda grondante tua striglia,
rodi chi visse di baratto e scoria:
annaspa egli nella memoria,
o si rimescola agli altri rifiuti,
o va stordito ai rìvoli di spurghi
che tu gli spazzi via.

Pioggia feroce ( Frammenti lirici, 1913)

 

Gli antichi valori sono ormai sparsi, mentre aleggia nell’anima del mondo una profonda vacuità. Peculiarità di questa raccolta è la massiccia presenza di rimandi danteschi. Le raccolte Canti anonimi (1920-1922), le Poesie sparse pubblicate nel 1947e le Prose liriche (1915-1917) sono uno sviluppo tematico della prima opera che risente non solo del periodo bellico e dell’ansia della guerra, ma anche della rottura del rapporto con la pianista Lydia Natus.

La visione del mondo, in queste sillogi, si fa cruda; Rebora descrive l’esistenza umana come composta da infinite pieghe di infelicità e smarrimento. L’uomo, secondo queste concezioni, è costretto a vivere non solo in una condizione di isolamento ma anche in un estremo contesto di violenza dovuto a un’umanità superficiale, vuota e futile. Solo la morte rimane come consolazione; morire, per Rebora, è l’unico modo che ha l’uomo  per sfuggire alla ferocia della guerra, nonché l’unico sollievo.

Il poeta, però, conferisce alla morte anche un altro significato tutto pedagogico; la morte è l’unico mezzo che hanno i soldati, protagonisti degli atti più efferati e criminosi che si possano compiere in guerra, di comprendere l’antico concetto di Pietas; una pietà che, in vita, non potrebbero mai comprendere in quanto assoggettati alle oscure dinamiche di un mondo che ha smarrito l’etica e gli alti valori.

La visione della poetica reboriana successiva alla conversione: Poesia e Fede come compagne di sventura

La folgorazione religiosa di Rebora diventa, per il poeta milanese, una speranza a cui aggrapparsi; la fede cattolica, secondo questo nuovo modo di interiorizzare il suo percorso letterario, è la chiave della speranza utile alle angherie del mondo moderno: avere fede significa, soprattutto, essere coscienti che nonostante la perdizione terrena uno spiraglio di redenzione dell’animo umano esiste ancora.

La ricerca spirituale che muove la poetica di Clemente Rebora sembra, in un certo senso, conclusa con la conquista della fede. Un concetto che, tuttavia, farà traballare lo spirito reboriano poco dopo l’illusa certezza di aver trovato una strada spianata per la ricerca del proprio Io. In Canti dell’infermità (1956), dove l’autore è già gravemente malato, traspare tutta la sua sofferenza: colpito da ictus e affetto da paralisi, Rebora attraverso questa silloge pone al centro una profonda sofferenza fisica che sconfina nella disperazione e  che fa appurare al poeta che sia la poesia che la fede non sono altro che due compagne nella vita di un uomo. Una concezione che unisce tutta la produzione reboriana, come confermano alcuni versi contenuti in Curriculum vitae (1955):

Quando morir mi parve unico scampo,
varco d’aria al respiro a me fu il canto:
a verità condusse poesia.

Curriculum vitae, 1955

 

Nel componimento La poesia è un miele, scritta il 15 ottobre 1955, Clemente Rebora sottolinea come l’ars poetica sia arte, appunto, qui in terra ma vita in cielo.

La poesia è un miele che il poeta,
in casta cera e cella di rinuncia,
per sé si fa e pei fratelli in via;
e senza tregua l’armonia annuncia
mentre discorde sputa amaro il mondo.
Da quanto andar in cerca d’ogni parte,
in quanti fiori sosta, e va profondo
come l’ape il poeta!
L’ultime cose accoglie perché sian prime;
nettare, dolorando, dolce esprime,
che al ciel sia vita mentre è quaggiù sol arte.
Così porta bontà verso le cime,
onde in bellezza ognun scorga la mèta
che il Signor serba a chi fallendo asseta.

La poesia è un miele ( Canti dell’infermità,1956)

 

Risulta chiara, in questi versi, la tematica della fratellanza e dell’importanza della solidarietà degli uomini con Dio. Poesia e fede sono state per Rebora non solo compagne tacite di vita  ma dolci sorelle che lo hanno accompagnato, attraverso la sofferenza, in un mondo sempre più proiettato verso un futuro veloce, poco dedito all’attenzione e all’approfondimento, per lasciar spazio a una modernità che si configura nella praticità come valore essenziale e risolutivo. In questo senso Rebora è stato lungimirante: la poesia, salvo poche eccezioni, è stata soffocata dalla concezione moderna dell’uomo che si piega all’edonismo del consumo a discapito dell’autenticità della sua essenza.

 

Gian Pietro Lucini, poeta decadente e scapigliato

Gian Pietro Lucini è stato un poeta ribelle, animato da intenti rivoluzionari, insofferente all’ipocrisia e al perbenismo di facciata. Una sorta di anarchico-democratico si potrebbe dire, i cui versi trasudano sentimenti di vendicazione. Ma dietro l’outrance verbale di Lucini si percepisce un piglio sarcastico, un’ironia seria, amara, dolorosa. Dietro le sue parole composite e volgari si cela un’anima che pena, un cervello ardito, un cuore ferito che può sembrate crudele.

Tutta questa umanità attrasse non solo i futuristi pirotecnici ma anche dei giovani. Difatti Lucini fu invitato a scrivere su Quartiere latino, rivista che ebbe pochi numeri ma con un Lucini sempre in prima fila, lui che pure ha dato al primo futurismo, con il suo Verso Libero, probabilmente l’unico apporto teorico serio per giustificare il verso libero, servendosi di una conoscenza diretta e vastissima delle scuole poetiche francesi del Parnasse in poi, attraverso simbolismo e le correnti minori, Lucini non ha mai risparmiato ai suoi vecchi amici futuristi stoccate polemiche e prese in giro. Il poeta infatti non amava D’Annunzio, il borghese.

La poesia si Lucini raramente coglie momenti sereni, raggiungendo forse per caso uno stato poetico veramente limpido e liberato; il suo descrivere è minuzioso e insistito, dietro certe sue figure e aspetti di vita cittadina notturna, tra “cocotte” e rifiuti sociali, si sente il tono svagato, dolente e nevrotico della Scapigliatura. Quando la prosa di Lucini si pulisce, lascia qualcosa di avido e granuloso sebbene l’uomo in lui non è mai assente, anche quando la letteratura lo porta verso un gusto di rifiniture alessandrine. Certamente Lucini è un decadente, senza l’acuta coscienza critica verso l’opera propria dei veri decadenti. Ma è un decadente sui generis, con ideali sociali, politici, umani, che i decadenti non ebbero.

Lucini ha sempre pensato la letteratura come forza etica e, sebbene la sua etica fosse tutt’altro che serena di fronte alle passioni e alla storia, difatti, invece di dominare tali forze, il poeta si lasciava piuttosto dominare, ciò che in lui resta ancora vivo è una sorta di dolorosa energia, una vitalità sdegnosa che ricorda in lui ancora l’uomo del Risorgimento, quell’uomo che, se non aveva vissuto l’epoca di Cattaneo o di Nievo, pur nel sarcasmo frequente e nell’improvviso risentimento, recava in se ancora qualcosa di essa.

Da punto vista poetico l’arte di Lucini ha segnato una crisi e un passaggio: dalla scapigliatura alla poesia moderna, fuori da ogni schema di scuola. Più vicino a Dossi, Lucini ebbe curiosità ed esperienze più acute e larghe del suo maestro. Le Grazie, che tanto sorrisero a Foscolo, con greca purezza, consentendogli di decantare la sua stessa sensualità in un clima d’eliso, per Lucini furono matrigne; e, anche se lui se le figurò nel Carme di angoscia e di speranza, a lato le vide <<floscie, percosse, disfatte>>:

…il peplo azzurro infarinato,

il lembo macchiato di sangue…

 

Arti figurative, musicalità dei versi e richiami eterogenei nei misteriosi ‘Canti Orfici’ di Dino Campana

Storia vecchia come il mondo quella che associa i poeti ad una qualche forma di pazzia. Già Platone d’altronde era stato chiaro: un uomo è incapace di poetare o dare responsi se non è fuori di sé, invasato, finché la sua mente vacillante non c’è più. Dino Campana la fama del folle inizia a cucirsela addosso sin da giovanissimo con le azioni più che con l’inchiostro della penna: le fughe improvvise, il misterioso vagabondare tra i monti, i subitanei furori, la tormentata storia d’amore con Sibilla Aleramo, le minacce a Papini reo di aver perduto il suo prezioso manoscritto, tutti elementi che avrebbero presto portato a una precisa diagnosi e a una fatale condanna: schizofrenia, sia internato.

Il definitivo ricovero segna il punto di non ritorno: sul giovane poeta imbronciato di belle speranze cala un velo e lo stesso può dirsi per i suoi Canti Orfici, pubblicati dopo svariate peripezie soltanto nel 1914 e finanziati principalmente dalle sottoscrizioni dei pochi amici ed estimatori.
La critica si divide quasi immediatamente tra chi lo disprezza, da Papini fino a Saba che di lui dice che era matto e solo matto, e chi riesce, come Montale, a cogliere la novità di un’opera misteriosa e straniante, di un’arte tutta alienata dinanzi alle istituzioni letterarie, scriverà Sanguineti. Non c’è da stupirsi: sin dal titolo i Canti Orfici contengono un avvertimento. Se canti allude alla componente primigenia musicale della poesia, orfici, parola carica di misticismo, è sia un atto di fede che una restrizione del campo dei lettori: solo un’élite di iniziati come gli adepti del culto di Orfeo sarà capace di sciogliere il mistero, di leggere tra le righe, di apprezzare la grandezza dell’opera.

Dino Campana, da buon veggente, guarda al mondo che lo circonda con occhi diversi, coglie segrete corrispondenze, recepisce messaggi rivolti al suo io e li fissa sulla pagina. Di sicuro, in un periodo in cui si registra da più parti la crisi diffusa dei valori e delle forme con cui la letteratura ha fino ad allora saputo esprimersi, anch’egli tenta di percorrere nuove strade e lo fa con l’impeto del visionario. Nella sua esperienza unica e irripetibile il poeta toscano condensa la ricerca di un esclusivo e proficuo rapporto con le arti figurative, il lavoro sul ritmo e sulla musicalità del verso, la produzione di immagini e simboli disturbanti che strizzano l’occhio al mistero, le frequenti allusioni a qualcosa di inafferrabile, così vicino e così irrimediabilmente distante. Straordinariamente innovativo, il suo è un esperimento rischioso ed egli sa che può fallire, ma vi si dedica anima e corpo per l’intera vita, anzi, ne fa il senso ultimo della vita. Tutta colpa della follia?

Gli studi sui Canti Orfici, moltiplicatisi negli ultimi decenni e arricchiti dei contributi offerti da materiali inediti (ma raramente fuoriusciti dall’ambito accademico), ci restituiscono il ritratto di un autore estremamente lucido che compie scelte precise e consapevoli. I modelli da cui trarre ispirazione, sia a livello tecnico-formale che ideologico, sono tutti presenti nella raccolta, creano un amalgama eterogenea di richiami e reminiscenze che si moltiplicano e si compenetrano come in un complesso gioco di specchi. Si ritrovano allora i grandi maudits d’Oltralpe, in particolare Rimbaud, l’amato Whitman dal lento incedere al limite del prosastico, il Carducci classicheggiante intimo cantore di paesaggi, il Pascoli dell’allusività e del mistero, il D’Annunzio verlibrista passionale moltiplicatore di simboli e allegorie, il Dante della Commedia, sorta di fratello spirituale col suo pellegrinaggio dalle tenebre verso la luce, persino Nietzsche riecheggia in più punti.
E ancora, mentre viene celebrata la grandezza dell’arte rinascimentale (Leonardo, Michelangelo, Botticelli, Durer e gli altri “divini primitivi”), oggetti e ambienti assumono le tonalità evocative dell’Espressionismo, le spigolose sfaccettature del Cubismo, la dinamicità futurista e il fascino onirico del Surrealismo. Perché nell’estasi del furore creativo Dino Campana non ha bisogno di distruggere la tradizione tout court, gli basta piuttosto selezionare gli autori, i pensatori, gli artisti che costituiscono la “sua” tradizione e nel loro solco inserirsi per proseguire la ricerca. Nelle sue scelte, anzi, egli si riserva di attingere a piene mani da ciò che più gli va a genio in ciascuno di loro e questo spiega anche alcune sospette contraddizioni fra dichiarazioni autoriali e prassi (si pensi, ad esempio, a quel D’Annunzio definito “Vate grammofono” la cui lezione è, però, imprescindibile o alla contestazione del Futurismo sul piano letterario in quanto “senza armonie”, ma di cui sono condivisi diversi assunti teorici).

Fedeli all’ideale di una poesia totalizzante in cui far confluire la cultura in blocco abbracciandone le più svariate manifestazioni, i Canti Orfici puntano ad essere un “libro-tutto” e risultano invece un “libro-limite”, nel senso che mostrano tutti i limiti di un progetto già intrapreso da altri (Mallarmé e Lucini) e votato per sua stessa natura al fallimento. Lo sforzo di Dino Campana è eroico, la chimera “pallida-esangue” che insegue di fatto inafferrabile, l’opera cui attende richiede dedizione e sacrificio, ma allo stesso tempo condanna all’isolamento e all’incomprensione di un ambiente culturale coevo aperto si allo sperimentalismo, eppure anche pronto a condannare ciò che non comprende appieno. Il poeta accetta allora con coraggio il suo destino, amaramente lo prevede, rinuncia alla lotta e lancia il j’accuse finale nell’epigrafe del libro:

They were all torn and cover’d with the boy’s blood.

Sono parole scelte con cura, versi, opportunamente rimaneggiati, tratti dalla celebre Song of Myself di Walt Whitman: erano tutti stracciati e coperti col sangue del fanciullo.
Il fanciullo è lui, Dino Campana, innocente come tutti i poeti, una vita in lotta con se stesso e con il mondo alla ricerca di un equilibrio precario sempre sull’orlo dell’abisso; gli aguzzini sono coloro che hanno ucciso l’uomo e l’artista, che gli hanno tappato la bocca, che più o meno coscientemente ci hanno restituito il ritratto a tinte fosche di un povero pazzo da porre ai margini, forse perché già al di là della loro portata.
I Canti Orfici, affascinanti, misteriosi, sfuggenti nella loro eterogeneità, restano l’esperienza poetica sublimata e il testamento spirituale di un autore ridotto troppo a lungo, ingiustamente, al silenzio. Li si definisca come si vuole, ma non il parto di un folle.

Crepuscolo mediterraneo perpetuato di voci che nella sera si esaltano, di lampade che si accendono, chi t’inscenò nel cielo più vasta più ardente del sole notturna estate mediterranea? Chi può dirsi felice che non vide le tue piazze felici, i vichi dove ancora in alto battaglia glorioso il lungo giorno in fantasmi d’oro? (Da Crepuscolo mediterraneo)

Ricordo una vecchia città, rossa di mura e turrita, arsa su la pianura sterminata nell’Agosto torrido, con il lontano refrigerio di colline verdi e molli sullo sfondo. Archi enormemente vuoti di ponti sul fiume impaludato in magre stagnazioni plumbee: sagome nere di zingari mobili e silenziose sulla riva: tra il barbaglio lontano di un canneto lontane forme ignude di adolescenti e il profilo e la barba giudaica di un vecchio: e a un tratto dal mezzo dell’acqua morta le zingare e un canto, da la palude afona una nenia primordiale monotona e irritante: e del tempo fu sospeso il corso. (Da La notte)

Non so se tra rocce il tuo pallido Viso m’apparve, o sorriso Di lontananze ignote Fosti, la china eburnea Fronte fulgente o giovine Suora de la Gioconda: O delle primavere Spente, per i tuoi mitici pallori O Regina o Regina adolescente: Ma per il tuo ignoto poema Di voluttà e di dolore Musica fanciulla esangue, Segnato di linea di sangue Nel cerchio delle labbra sinuose, Regina de la melodia: Ma per il vergine capo Reclino, io poeta notturno Vegliai le stelle vivide nei pelaghi del cielo, Io per il tuo dolce mistero Io per il tuo divenir taciturno. Non so se la fiamma pallida Fu dei capelli il vivente Segno del suo pallore, Non so se fu un dolce vapore, Dolce sul mio dolore, Sorriso di un volto notturno: Guardo le bianche rocce le mute fonti dei venti E l’immobilità dei firmamenti E i gonfi rivi che vanno piangenti E l’ombre del lavoro umano curve là sui poggi algenti E ancora per teneri cieli lontane chiare ombre correnti E ancora ti chiamo ti chiamo Chimera. (Da La Chimera)

 

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