Maigret, la serie tv: l’idea di una giustizia compassionevole

Mr. Bean torna sotto forma del commissario Maigret nato dalla penna di George Simenon. Torna perché c’è la stessa malinconia di fondo di Rowan Atkinson. Questo nuovo Maigret interpretato da Atkinson pone lo spettatore, assettato di velocità seriale, plasmato da episodi prodotti con il fordismo industriale, in una nuova dimensione della giustizia: quella della compassione.

Tutto comincia, più che con gli omicidi, con la compassione che Maigret ne prova, chino sulle vittime, sulle loro vite spente, non semplici corpi, comune e ormai inerte materia, ma vite spente, ormai concetti su cui riflettere, anime su cui piangere, così questo Maigret immensamente malinconico vive la sua professione. In una scena di intensissima drammaticità, il commissario così potentemente umano decide di seguire il corpo della vittima, già morta, come se fosse una Beatrice dantesca che deve assicurarsi l’accesso in Paradiso del defunto innocente.

Compassione che ritorna significato letterale, quando addirittura sostituisce la vita della vittima insieme alla propria moglie per tendere una trappola ai colpevoli, ma nel farlo l’immedesimazione assume i tratti di una capacità di entrare dentro la vita del sostituito e farne proprie le esigenze, i desideri, le speranze, i dolori.
La sua è una giustizia lenta, mai urlata, gli episodi ne sono l’espressione, lunghi un’ora e mezza circa. Che significa giustizia lenta? Significa che il suo procedere, le sue indagini, possiedono non la forza delle armi, il grido eclatante dell’azione muscolare e audace. Non c’è mostra di spettacolarità, quanto triste e inesorabile attuazione delle misure della dea bendata. Questo Maigret vive in lunghi silenzi le sue riflessione sulla condizione umana, sul senso di ciò che accade. Tutto qui è interiore, le stesse armi, poco usate, sono nascoste in quei grandi cappotti da uomo, come se fossero sentimenti che il pudore e la compostezza di un tempo impongono di celare, di utilizzare con taciuto dolore, taciuto, ma vissuto. Lenta la giustizia si diceva, perché il male impone profonda e attenta riflessione.

La compassione è il principale motore di questa giustizia lenta ma inesorabile, efficace, definitiva, seppur non esauriente sulle domande umane circa il dolore e il male. Compassione che Maigret prova per la vittime e i colpevoli, arrivando fino a far portare i fiori nella stanza dell’assassina, perché aveva appena partorito: era una madre con suo figlio e la stanza era fredda, i fiori l’avrebbero resa più umana. Un procedere lento, i morti stessi sembrano lenti ad andarsene, trattenuti in questo mondo dalla malinconia di Maigret che non accetta mai definitivamente l’ingiustizia della loro condizione di vittime innocenti, nulla passa dunque, al contrario del pantha rei classico, qui c’è un parmenideo immobilismo, un’impassibile resistenza della vita, che eternizza i morti non nell’aldilà, ma nella tristezza del vivo Maigret, nell’attesa della giustizia da riportare. Solo in un momento sembra perdere l’amore per l’uomo: di fronte ad un giustificabilissimo vigliacco, che balbetta titubante le informazioni per paure di essere ucciso, solo di fronte a queste esitazione Maigret diventa duro, ma lo fa per la giustizia che è al di sopra anche di lui, lenta sì, ma che non ammette ostacoli, la giustizia che tutto oltrepassa e su tutto cala, in questo mondo in cui la violenza non può essere evitata ma “giustiziata”. Maigret non è altro allora che il braccio di questa compassionevole giustizia, vestita con abiti umani, piena di malinconica comprensione, triste disincanto e immensa moralità. Questa serie ha poco a che fare con il thriller, ci porta su un piano metafisico, è filosofia della giustizia, è religione.

I dialoghi di Maigret con i colpevoli sono quasi monologhi, non su che cose sia giusto, ma su quanto sia ingiusto quello che i colpevoli hanno fatto, in un elenco di colpe che ricorda una litania epica, un’epica della morte ingiusta, che ricorda i canti omerici sulla guerra di Troia e la tristezza della morte che aleggia sui guerrieri.
L’ambientazione non è che l’espressione materiale di questo visione, vissuta con gli abiti che solo la sua epoca sapeva portare con compostezza ed eleganza, sempre in giacca e cravatta, sempre con il cappotto, non quello alla moda di Sherlock, attillato dalla vanità, o quello ampio, ma trasandato di schiavone, simbolo di umanità nichilisticamente sgualcita, ma quello comodo e soprattutto semplice, come l’umanità dovrebbe essere, che indossa ancora il cappello, alla cui ombra sembra nascondersi la malinconia di questo Maigret. Abiti in cui correre è difficile e anche non voluto, proprio perché qui la giustizia si attua sussurrando la forza, più che imponendola; giustizia che porta con sé la consapevolezza che il bene, nella sua calma superiorità, ce la farà. Si corre, forse, ma mai Maigret, si spara, ma mai Maigret, si vince, e vince sempre Maigret, vince sempre la giustizia e la compassione.

Le musiche sono funzionali a questa espressione malinconica, non c’è mai la musica gloriosa della vittoria napoleonica, mai quella cadenzata dell’azione in corso, ma sempre quella lenta e nostalgica del mondo come avrebbe dovuto essere… più giusto, e che con Maigret almeno sarà meno ingiusto.
Maigret è malinconico come una poesia nata dall’infelicità, e soprattutto è giusto come solo la forza della compassione riuscirebbe ad essere. E’ il primo poliziotto a dirci che giustizia e saggezza sono la stessa e identica virtù.

“L’assassino”: l’arguta psicologia di George Simenon

Georges Joseph Christian Simenon (1903-1989) è autore di numerosi romanzi, noto al grande pubblico come ideatore del personaggio Jules Maigret, commissario di polizia francese. Prolifico scrittore, inizia la sua carriera a poco meno di sedici anni, a Liegi, come giornalista nella sua città natale. Trasferitosi a Parigi negli anni venti, diventa autore di narrativa popolare ottenendo grandi successi. Negli anni ’70 produce un considerevole numero di romanzi (gialli e non), tale da renderlo uno degli autori più letti e tradotti del XX secolo.

“L’assassino” (in originale francese “L’assassin”), è appunto uno dei suoi romanzi, edito nel 1937 da Gallimard e pubblicato in italiano nel 2011 dalla casa editrice Adelphi ,tradotto da Raffaella Fontana.

Hans Kupérus è un medico, ma anche un uomo corpulento, metodico, abitudinario, riservato. Ha da sempre un’ambizione frustrata: quella di diventare presidente dell’unico posto di ritrovo del piccolo paese in cui è cresciuto: il circolo del biliardo. È un martedì di gennaio e Kupérus è ad Amsterdam per una periodica riunione medica dove è solito fermarsi anche a dormire per tornare il giorno successivo, ma al convegno questa volta non si presenta. Entra in un’armeria e compra una pistola anche se non sa ancora cosa farne, poi riprende il treno per tornare in paese a Sneek.

È ormai trascorso un anno da quando un biglietto anonimo l’aveva messo al corrente che la moglie, quando lui andava in città, passava la notte fuori casa tradendolo proprio con la persona che da sempre veniva eletto tacitamente, per la sua altolocata posizione, presidente del circolo impedendogli di coronare il suo modesto sogno. Non lontano dalla stazione d’arrivo, il treno improvvisamente si ferma e Kuperus prende una decisione. Scende di nascosto e si reca nel capanno dove è certo di trovare i due amanti. Colti sul fatto, li uccide. Poi getta i corpi nel lago che, ghiacciando, li occulterà per tutto l’inverno. Quindi rientra in paese e passa al solito caffè, chiacchiera con gli amici e torna a casa. Al rientro Neel, la domestica, gli comunica che la moglie è andata a trovare dei parenti e che sarebbe rientrata il giorno dopo. Kuperus, come se fosse la cosa più normale, ordina a Neel, sulla quale aveva da sempre fantasticato, senza mai osare nulla, di raggiungerlo in camera da letto. Dopo un debole tentativo di dissuasione lei cede alle sue richieste. Da quella volta, Kuperus rinnova ogni sera la pretesa che viene silenziosamente soddisfatta, divenendo sempre più  coinvolto in questo strano menage. Così comincia questo romanzo noir , intrigante e  gelido come il suo protagonista, in cui Simenon segue la discesa nell’abisso di uno dei suoi eroi più tipici: uno di quelli che osano “passare la linea” e ne pagano il prezzo.

Pur utilizzando uno stile narrativo asciutto e poco incline a estetismi letterari, le opere di Simenon dimostrano una notevole capacità di ritrarre con arguta psicologia vicende dal sapore profondamente umano. Si parla addirittura di borghesizzazione del racconto giallo: uomini umili appartenenti alla borghesia, si trovano coinvolti in vicende drammatiche, passando sotto la lente di un osservatore attento e analitico, che nelle sue opere non si dilunga in descrizioni favolistiche, ma anzi ad esse dedica poche ed esaustive righe. Tutto è realtà e naturalmente anche il bigottismo e l’ipocrisia della società perbenista che condanna senza pietà l’assassino. Simenon attraverso la vicenda criminale e la discesa nelle tenebre della coscienza di Kuperus, dà grande prova di conoscere profondamente l’ambiente di provincia (in questo caso quella olandese ma è universale).

Molti dei romanzi di Simenon sono diventati film, sceneggiati e serie televisive. “L’assassino” è stato portato sullo schermo da Ottokar Runze, in un film tedesco dal titolo “Der Mörder”, uscito nel 1979.

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