Sergio Corazzini: il poeta piangente

"Piccolo libro inutile"
“Piccolo libro inutile”

Sergio Corazzini (1886-1907) nasce a Roma da una famiglia poco benestante, tant’è che per ristrettezze economiche dovette abbandonare gli studi e lavorare in una compagnia d’assicurazioni. Colpito da una grave forma di tubercolosi muore nel 1907 a soli 21 anni. Le sue poesie pubblicate tra i 18 anni e la morte mostrano una lucida consapevolezza della malattia e della sua condanna ad una morte precoce: il poeta non nasconde la sua debolezza anzi la esibisce rendendo essa stessa la sua vera poetica.

Il novecento letterario è segnato dal nome di Sergio Corazzini: poeta di una sola stagione, quella crepuscolare, che rappresenta la sua veste più lacrimosa e lamentevole, ma che vive con profonda serietà e autenticità.

Piccolo libro inutile” (1906) è la quarta raccolta che, riassume indistintamente le caratteristiche della poesia di Sergio Corazzini e la sua poetica, infatti, domina uno spirito tragico, religioso, pessimistico e quasi mistico.

Ne “La Desolazione del povero poeta sentimentale”, prima poesia della raccolta “Piccolo libro inutile”, emerge il Sergio Corazzini più flebile che, con accenni vittimistici parla della propria tristezza, del proprio dolore, indulge alle lacrime e al pianto:

Perché tu mi dici: poeta?

Io non sono un poeta.

Io non sono che un piccolo fanciullo che piange

Vedi: non ho che le lagrime da offrire al Silenzio.

Perché tu mi dici: poeta?

Già nel titolo della poesia è possibile evincere che Sergio Corazzini contrappone l’idea, allora diffusa, di un poeta che aspira a esercitare un ruolo pubblico, si pensi a Carducci, Pascoli o al recente mito dannunziano, con l’immagine di un poeta “privato” che non ha in nessun modo funzioni di vate.

Sono presenti già nei primi cinque versi tutti i temi tipicamente crepuscolari: il pianto, la tristezza, la malinconia. È bene porre l’accento sulla parola “silenzio”, messa in maiuscolo, che risulta il contrario di parola e quindi di poeta. Tutto il componimento è possibile definirlo come un’unica litote, in cui Gozzano nega di essere un poeta, per affermare, però, la nascita di un nuovo modo di fare poesia.

In soli cinque versi Corazzini capovolge completamente l’idea di poeta e di poesia: non crede che la poesia sia utile, né aspira a manie di grandezza per essere riconosciuto pubblicamente. La sua arte è solo un piccolo libro inutile. Non esiste più il poeta guida o romantico in grado di esprimere sentimenti difficilmente esprimibili per i più. Il poeta ora è consapevole della crisi che vive, è desolato e non sa che dire se non parole sentimentali vane.

II

Le mie tristezze sono povere tristezze comuni.

Le mie gioie furono semplici,

semplici così, che se io dovessi confessarle a te arrossirei.

Oggi io penso a morire.

 

III

Io voglio morire, solamente, perché sono stanco;

solamente perché i grandi angioli

su le vetrate delle cattedrali

mi fanno tramare d’amore e d’angoscia;

solamente perché, io sono, oramai,

rassegnato come uno specchio,

come un povero specchio melanconico.

Vedi che io non sono un poeta:

sono un fanciullo triste che ha voglia di morire.

 

IV

Oh, non maravigliarti della mia tristezza!

E non domandarmi;

io non saprei dirti che parole così vane,

Dio mio, così vane,

che mi verrebbe di piangere come se fossi per morire.

Le mie lagrime avrebbero l’aria

di sgranare un rosario di tristezza

davanti alla mia anima sette volte dolente,

ma io non sarei un poeta;

sarei, semplicemente, un dolce e pensoso fanciullo

cui avvenisse di pregare, così, come canta e come dorme.

 

V

Io mi comunico del silenzio, cotidianamente, come di Gesù.

E i sacerdoti del silenzio sono i romori,

poi che senza di essi io  non avrei cercato e trovato il Dio.

 

VI

Questa notte ho dormito con le mani in croce.

Mi sembrò di essere un piccolo e dolce fanciullo

dimenticato da tutti gli umani,

povera tenera preda del primo venuto;

e desiderai di essere venduto,

di essere battuto

di essere costretto a digiunare

per potermi mettere a piangere tutto solo,

disperatamente triste,

in un angolo oscuro.

 

VII

Io amo la vita semplice delle cose.

Quante passioni vidi sfogliarsi, a poco a poco,

per ogni cosa che se ne andava!

Ma tu non mi comprendi e sorridi.

E pensi che io sia malato.

 

VIII

Oh, io sono, veramente malato!

E muoio, un poco, ogni giorno.

Vedi: come le cose.

Non sono, dunque, un poeta:

io so che per essere detto: poeta, conviene

viver ben altra vita!

Io non so, Dio mio, che morire.

Amen.

Il tono dimesso, lamentoso e incline al pianto esprime una scelta di tipo avanguardistico: rappresenta il rifiuto per la tradizione letteraria aulica e solenne, espresso con una scelta stilistica semplice, priva di aulicismi e metriche tradizionali, con il ricorso a un linguaggio semplice e al verso libero. Attraverso una sorta di litote “io non sono un poeta” e il “rifiuto” dei modelli precedenti è visibile l’auspicio corazziniano della nascita di un nuovo modello poetico.

La sua poesia si scontra fortemente con quella dannunziana: mentre il poeta abruzzese aveva teorizzato la sovrapposizione tra arte e vita intesa come sublime, Corazzini rovescia la sua sovrapposizione. Per il poeta romano la vita è quella reale, non sublime, di un giovane malato. La sua poesia non aspira al sublime ma all’autenticità, sita nella sofferenza. La negazione di essere un poeta, spinge Corazzini a sostenere di essere un piccolo fanciullo che piange. Il fanciullo inevitabilmente ci porta a Pascoli, ma con due realtà e definizioni diverse.” Il fanciullino” pascoliano è di natura letteraria e ha come fine quello di trasmettere il messaggio secondo cui per raggiungere la verità bisogna guardare la vita con occhi da fanciullo. È inteso da Pascoli come “adamo”, il primo uomo che guardando per la prima volta le cose, ne attribuisce un nome. È il fanciullo che gioca con le parole, che in un senso ludico dà voce all’inconscio.

In Corazzini invece il “fanciullo che piange” non è altro che il riflesso di una condizione reale e negativa, non potrebbe essere altrimenti per un uomo che esprime nelle sua poesia “il male di vivere”.

Dino Campana: tra follia e poesia

Nato a Marradi in provincia di Firenze, Dino Campana(Marradi, 20 agosto 1885- Scandicci, 1 marzo 1932), trascorre l’infanzia in modo apparentemente sereno ma, fin da giovane inizia a dare segni di squilibrio mentale, favoriti dalla religiosità bigotta della madre infelice che lo accusa di essere l’anticristo.

Dino Campana

La sua vita è un alternarsi di momenti di lucidità e di furore violento, per questo è a più riprese internato in un manicomio sino al ricovero definitivo del 1918. Destabilizzante e turbolenta  si è rivelata la sua relazione con la poetessa Sibilla Aleramo.

Le crisi nervose si acutizzano, come pure i frequenti sbalzi di umore, a causa dei difficili rapporti con la famiglia, soprattutto con la madre, e  della vita monotona del paese natio.

Dino Campana esprime il suo “male oscuro” con un irrefrenabile bisogno di fuggire e dedicarsi a una vita errabonda. La prima reazione della famiglia, e poi dell’autorità pubblica, è quella di considerare le stranezze del poeta come segni lampanti della sua pazzia. A ogni sua fuga, che si realizza con viaggi in paesi stranieri dove si dedica ai mestieri più disparati per sostentarsi, segue, da parte della polizia (in conformità con il sistema psichiatrico di quei tempi), il ricovero in manicomio.

Nel 1913 consegna ai direttori della rivista “Lacerba” il manoscritto di poesie “Il lungo giorno” ma questi lo smarriscono e il poeta riscriverà i versi a memoria, pubblicandoli poi sulle riviste “La Voce” e “Lacerba“. Muore in manicomio nel 1932 dopo 14 anni di internamento trascorsi a dettare al suo medico curante notizie autobiografiche e riflessioni.

Da molti considerato il “poeta visionario” italiano per eccellenza, da altri ridimensionato a semplice <<poeta visivo>> (Contini), Dino  Campana è un poeta discusso, coinvolgente e suggestivo. Nell’ambito della linea “vociana”, in cui può esser fatto rientrare almeno marginalmente, rappresenta una sintesi originale di simbolismo ed espressionismo. L’ansia di liberazione e realizzazione esistenziale, è uno dei tempi ricorrenti nella poesia di Campana.

Le sue opere sono  pervase da due tendenze apparentemente inconciliabili: da una parte l’immediatezza esistenziale nel rapporto con la realtà e dall’altra invece l’influenza di modelli importanti come Carducci e Nietzsche. Anche la follia di Campana è stata interpretata in due modi opposti ma che coesistono: essa rappresenta l’incapacità di compromessi sociali e l’adesione al modello culturale di poeta maledetto (rifacendosi a Rimbaud). Alla base della psicologia dell’arte del poeta c’è un sentimento lacerante di esclusione e disarmonia. In questo senso di disadattamento Campana esprime in modo personale l’instabile condizione dell’intellettuale novecentesco. La reazione dell’autore, però, è differente rispetto agli altri poeti contemporanei, per la sua tendenza a resistere disperatamente alla nuova condizione, negandola. e  tentando  disperatamente di reintegrare l’io nell’armonia generale delle cose.

La sua controversa collocazione critica e i giudizi non certo unanimi hanno contribuito a formare attorno a questa figura un alone di mistero, per cui, quando si parla di  Dino Campana, si tende sempre a dare credito all’immagine del “poeta maledetto”.

La follia però, per il poeta, non è un presupposto della sua produzione; semmai è considerabile un punto d’approdo la libertà sterminata, distruttiva e disgregatrice di ogni coerenza, figlia del tempo in cui Nietzsche aveva decretato “la morte di dio”.

Eugenio Montale fu tra i primi estimatori ufficiali, il più autorevole a oggi, delle composizioni di Dino Campana, tanto da dedicargli una poesia o meglio un omaggio a chi meglio di lui aveva saputo piegare le parole fino a renderle ancora più oscure.

La poesia di questo poeta visionario è una poesia nuova nella quale sono presenti i suoni, i colori e la musica in una trasfigurazione reale del simbolismo onirico. Il verso è indefinito e i valori classici e una grande modernità si compenetrano in una forma e purezza irripetibili.

Campana afferma di voler <<nel paesaggio collocare dei ricordi>> e sul paesaggio, fondamentale nella sua poesia, aleggia un alone di misteriosa lontananza. Nei suoi scritti sentiamo il fascino delle ore crepuscolari, della luna sui campi, del canto che si perde nelle strade solitarie, della finestra illuminata nel buio della notte mediterranea.

La partenza e il ritorno sono i temi fondamentali della poetica campaniana; un figliol prodigo che desidera la casa paterna, ma che odia al contempo; è possibile confrontarlo con la figura di Ulisse, nella misura in cui possiamo considerare che il poeta ha una reale volontà di ritornare a casa.

Un altro tema fondamentale della sua poetica è “l’oscurità tra il sogno e la veglia”, percepibile dal ripetersi degli aggettivi, che ritornano come se dettati durante un sogno.

Per comprendere meglio le qualità poetiche di Campana è utile servirci delle parole di Zanzotto, il quale afferma che <<una poesia come quella di Campana si configura come un flusso ininterrotto di armonie e di disarmonie, di serie melodiche e semantiche che si sovrappongono e s’intrecciano: proprio per questa ragione, la sua poesia risulta terribilmente difficile da cogliere. Il polverio delle discontinuità mentali di Campana giunge, in qualche oscuro modo, a fondersi al latteo suono, direi, dei suoi versi, a queste maree di armonie logiche e di armonie foniche che s’inseguono incessantemente, s’intersecano, si fondono e si differenziano per ricongiungersi ulteriormente, nelle sue poesie>>.

Canti Orfici

Dino Campana insegue una concezione alta e sublime della poesia come momento misterioso d’identificazione con la vita universale e dunque momento di assoluta verità. In questo senso va letto l’aggettivo orfico della prima e unica raccolta del poeta, “Canti Orfici” del 1914. Questo atteggiamento, sia nei riguardi dell’io che nei riguardai della poesia, è ben presente nella sua raccolta, che però cela un’altra verità: la condizione dell’emarginato. Il soggetto appare sulla scena nei panni di vagabondo e uomo sofferente tra la folla.  Sono riscontrabili  due tendenze prevalenti della sua poesia,  quello simbolistico. decadente e quello espressionistico.

Pensare nel languore
Catastrofi lontane
Mentre colle sue antenne
E le sue luci un grande
Cimitero il tuo porto
……………………….
Ne la città voluttuosa
Scuotevasi il mare profondo
Caldo ambiguo il silenzio sullo sfondo
Le navi inermi drizzavansi in balzi
Terrifici al cielo
Allucinate di aurora
Elettrica inumana,risplendente
A la poppa ne l’occhio incandescente.

 

In un momento
Sono sfiorite le rose
I petali caduti
Perché io non potevo dimenticare le rose

 

…………………………………………

Col nostro sangue e colle nostre lagrime facevamo le rose
Che brillavano un momento al sole del mattino.

 

Acqua di mare amaro
Che esali nella notte:
Verso le eterne rotte
Il mio destino prepara
Mare che batti come un cuore stanco
Violentato dalla voglia atroce
Di un Essere insaziato che si strugge…

(Poesie tratte dai “Canti Orfici”)

Altra tematica trattata da questa raccolta è la sessualità, rappresentata in termini sadici. La pulsione libica diventa il canale per esprimere la ribellione e la carica aggressiva del poeta.

AnchelLa ripetizione è una caratteristica fondamentale della poesia di Campana, il quale accuratamente studia le parole per ricavarne quella musicalità che tanto lo contraddistingue.

Tuttavia questae non crea ridondanza e monotonia, bensì contribuisce alla difficoltà e alla complessità del testo.Con  la sua instancabile ossessione a ripetere,  Dino Campana ha saputo rendere conto delle tensioni di un’epoca oltre che delle sue proprie, e insieme abbia dato voce ad una violenza psichica che fa parte in qualche misura di tutti noi.  La polisemia e l’ambiguità del testo mirano a produrre effetti musicali che, si fanno più intensi, proprio là dove il senso logico del discorso sembra rimanere sospeso. Se volessimo riferirci a Freud, è possibile affermare che l’oscuro significato delle parole, che porta alla sospensione del nesso logico, altro non è che l’effetto della rimozione che, per ubbidire al principio di realtà, trova nella sua espressione una formazione di compromesso tra l’impossibilità di esprime alcuni contenuti e la volontà di farlo.

La poesia, in questo senso, può essere dunque considerata un sintomo che esprime il disagio del poeta e di tutto un modello generazionale.

concludiamo  con il distico “Eterno” di Ungaretti che ci fa  comprendere a pieno la poesia di Campana:

Tra un fiore colto e l’altro donato

L’inesprimibile nulla.

Clemente Rebora, espressionista morale

Nato a Milano nel 1885Clemente Rebora abbandona gli studi di medicina per quelli letterari. Grazie alla laurea in lettere insegna in diverse scuole, sia pubbliche che private.

Clemente Rebora

Contemporaneamente collabora con la rivista <<la Voce>> sulla quale pubblica nel 1913 la raccolta “Frammenti lirici” , e alcuni articoli riguardanti il problema dell’educazione dei ragazzi di ceti più umili, e altri invece rivolti ai suoi amici letterati, ai quali rimprovera un eccessivo intellettualismo, indicando la necessità di un avvicinamento ai problemi reali e alla quotidianità.

Partecipa alla prima guerra mondiale, fino all’esplosione di una bomba che gli provoca uno shock nervoso per il quale è congedato.

Nel 1919 abbandona l’insegnamento istituzionale, per insegnare nelle scuole serali dei quartieri più poveri della città: fu la sua prima scelta vocazionale. Da quel momento Rebora si dedica alla carità, aiutando i barboni e le persone bisognose del quartiere in cui vive.

Pur non avendo un’educazione religiosa, i suoi continui interrogativi, che vanno dalla fiducia nell’opera dell’uomo al disgusto per il mondo, lo portano, ben preso, alla conversione, diventando sacerdote. Approdando così alla fede, egli riesce a trovare una via d’uscita ai suoi quesiti.

Clemente Rebora nutre una visione pessimistica della vita, scaturita dal comportamento degli uomini e dalla volontà di una classe intellettuale volta a propagandare dottrine, principi egoistici e immorali, capaci poi di allontanare la gente comune dalla morale cristiana.

La corruzione umana pertanto si esprime soprattutto nella città, <<affollata solitudine>>, sentita, in opposizione alla sana campagna. In Rebora la città non è un luogo del mito, ma del contemporaneo e della civiltà delle macchine. La reazione del poeta non è il recupero del mito, o di paradisi perduti simbolisti, ma si traduce in un’aggressione sarcastica nei confronti del mondo e una riflessione morale, sulla certezza di un trionfo finale della bontà. Per questo motivo la reazione di Clemente Rebora non fu quella di un isolamento, di un ripiegamento in se stesso, o di una rinuncia al colloquio con il mondo, bensì quella di una volontà d’intervento e di testimonianza della possibile via al bene.

Nell’ambito dei poeti vociani, Clemente Rebora rappresenta l’espressione più alta di quella tendenza espressionistica che, assieme a una forte coscienza morale, arriva alla concezione della poesia come manifestazione di un impegno esistenziale.

Frammenti lirici

Le scelte formali del poeta milanese sono forti e violente e colpiscono il lettore: il lessico è originale e selezionato in base alla durezza fonica, gli enjambement creano rotture brusche così come l’alternanza di versi brevi e lunghi. Le sue scelte sono riconducibili alla tradizione lombarda (da Dossi a Gadda) e a Dante dal quale riprende l’ansia religiosa di assoluto. Egli più di tutti ha trasformato in poesia esistenzialità e moralità, rappresentando il caos dell’esistenza nella sua contraddizione, cercando di riportare nella realtà ordine e razionalità.

Il poeta si sforza di attribuire ai suoi testi un significato proprio, tendendo all’allegoria: gli oggetti del mondo non hanno più valore in se stessi come per il simbolismo, ma sta al soggetto assegnarglielo. Per questo si può parlare del poetare di  Rebora come di un ” atletismo agonistico”, cioè una sfida solitaria nell’affrontare la vita cercando di darle un ordine e un significato.

E in rapporto a se stesso la poesia è un mezzo di salvazione.

Ci sono forti richiami  al  concetto di “corrispondenza” tipico dei poeti decadenti che, però, non è più la volontà di mettere in relazione le cose, gli oggetti, bensì l’umano e il divino.

Per intendere meglio il pensiero poetico di Rebora può venire utile un passo di una sua lettera ricordato da Mengaldo: << Vorrei giovare ed elevare tutto e tutti, smarrirmi come persona per rivivere nel meglio e nel desiderio di ciascuno; esser un dio che non si vede perché è negli occhi medesimi di chi contempla, essere un’energia che non si avverte perché è nel divenire stesso d’ogni cosa che esiste, perché si crea in ogni attimo>>. Questo passo è utile per illustrare una generale tendenza della poesia reboriana, in altre parole l’oggettivazione, l’annullamento quasi, dell’io nella realtà esterna. Egli abbatte i confini tra l’io interno e realtà esterna, rappresenta l’uno e l’altra quasi fossero fusi. Proietta l’io nella realtà esterna.

I “Frammenti lirici” costituiscono la sua prima opera. Usciti nel 1913, sono costituiti da 72 liriche, che contengono numerose descrizioni paesaggistiche, ricordi della sua famiglia, figure femminili, interrogativi sull’esistenza dell’uomo, ed elementi di poetica.  Scritti in pieno clima vociano, ci riconducono alla poetica del frammentismo. Essi sono la grande avventura di un giovane che vuole misurarsi con il mondo degli affetti, delle idee, delle parole e dei suoni. Egli fonde tutti questi aspetti per esprimere una verità percepibile ma non sempre rivelabile. Ciò è rinvenibile sin dal primo frammento: <<Qui nasce, qui muore il mio canto: / E parrà forse vano / Accordo solitario; / Ma tu che ascolti, rècalo / Al tuo bene e al tuo male: / E non ti sarà oscuro>>.

È bene specificare che la caratteristica principale delle descrizioni paesaggistiche di Rebora, è quella di essere umanizzate, senza che però avvenga una vera metamorfosi in stile dannunziano. Leggiamo da Frammenti lirici:

E quasi sento un caldo alito umano / sul viso e dietro il collo un far di baci / e tra’ capelli morbida la mano / d’amante donna in carezze fugaci

Qui, dunque, il poeta si sente immerso nella natura che lo accarezza e lo bacia come un’amante farebbe con il suo amato.

Altro elemento tipico dei Frammenti lirici” è la figura della madre, ritratta come colei <<che nel donare il sangue fu serena>>, protettrice nei confronti dei figli, amorevole e paziente; nei confronti di tale donna il poeta non poté che scrivere parole di ringraziamento.

I “Canti anonimi” del 1920, scritti dopo l’esperienza della prima guerra mondiale, costituiscono una denuncia a tutti gli orrori della guerra, con la volontà di opporsi alle posizioni dei futuristi e di tutti i guerrafondai. La guerra non poteva che rappresentare una conferma della prevalenza cieca del dolore e della morte. Il poeta, comunque, ci mostra la speranza della bontà dell’uomo, verso un’azione di fede nel mondo, come testimonianza e pegno di assoluzione. Anche in questa raccolta emerge la figura del poeta, desideroso di giovare agli altri. Egli osserva lo spettacolo della vita messo in scena da individui chiusi nelle loro solitudini e nei loro egoismi.

Il tema delle illusioni è affiancato da un sentimento nostalgico della campagna che, certamente sincero, mostra la via della salvezza.

Curriculum vitae

La caratterizza principale di questa raccolta è una certa tendenza all’allegoria e al simbolismo, che creano con costanti richiami la speranza nei confronti del bene.

I “Canti dell’infermità”del 1947, come già il titolo dice, appartengono al periodo della malattia del poeta, la quale ne costituisce poi il tema principale. Clemente Rebora accetta serenamente il disfarsi del suo corpo, e dal suo soffrire nasce uno slancio mistico, di desiderio e congiunzione con Dio. È il periodo più importante per il poeta, che ci mostra l’immagine del poeta come di un’ape, e della poesia come miele, che il poeta produce e distribuisce ai suoi fratelli. Il poetare è diventato ormai un modo concreto di amare Dio e i fratelli. È in questa raccolta che esprime per la prima volta l’essenza della poesia cattolica, rimodellando il concetto simbolista dei richiami e delle concordanze, ora possibili tra cielo e terra. Ovviamente non manca in questa raccolta il tema della morta sentita cristianamente, come passaggio e ingresso a una nuova vita.

La raccolta intitolata “Curriculum vitae”del 1955 è ormai poesia della memoria che nasce dalla riconsiderazione di tutta la sua vita. Clemente Rebora rivive idealmente le stagioni della sua vita e in ognuna scopre un evento, un segno del suo destino sacerdotale.  Tutto, gli appare come un disegno già scritto, verso il momento cruciale della vocazione e della scelta sacerdotale. La visione di un mondo crudele e nefando, trova consolazione nell’idea che la poesia sia stata la strada per la salvezza. E, infine, la parte conclusiva è dedicata alla vocazione che per sempre ha cambiato la sua vita.

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