I libri di viaggio più appassionanti, per chi sogna di partire

Libri di viaggio, testi per sognare e scoprire, attraverso le pagine, mondi nuovi e spesso sconosciuti. La letteratura si dedica al tema del viaggio già dai tempi più antichi – basti pensare al Milione di Marco Polo– e oggi è più che mai attuale. Nel 2019, infatti, ricorre il 50° anniversario della morte di Jack Kerouac, lo scrittore simbolo della Beat Generation, idolo di un’intera generazione di giovani sognatori. Al viaggio è dedicata anche la Giornata Mondiale della Poesia, che a Verona ha ospitato la rassegna “Poesia e Viaggio”, in omaggio anche al libro di Eugenio Montale Fuori di casa.

Chi ama questo genere spesso desidera cimentarsi in qualche “viaggio letterario”, per andare alla scoperta dei Paesi che lo hanno più ispirato. A costoro abbiamo pensato di suggerire alcuni testi, classici e moderni, che possono essere lo spunto per un viaggio reale, sulle orme degli scrittori e delle loro suggestioni.

Sulla Strada e la mitica Route 66 – Jack Kerouac

Un tratto della Route 66 in Arizona, photo by Víťa Válka, License:Pixabay

Non potevamo che iniziare con Jack Kerouac, colui che ha donato al mondo un’immagine iconica e suggestiva del Mito americano. Sulla strada narra dei viaggi fatti da Kerouac attraverso gli Stati Uniti, spesso accompagnato dall’amico Neal Cassady, nel periodo che va dal 1947 al 1950. Il libro, scritto su un unico rullo di carta lungo ben 36 metri, racconta le idee e le impressioni che Kerouac ha raccolto durante il suo vagabondare. Tra i personaggi troviamo anche il poeta Allen Ginsberg e lo scrittore William S. Burroughs considerati fondatori, insieme a Kerouac, della Beat Generation, un movimento impegnato a condannare l’ipocrisia borghese. La prima parte del viaggio si svolge da New York alla California, passando attraverso la Route 66. Uno degli itinerari più popolari è quello che da Chicago passa per l’Iowa e il Nebraska e arriva a Denver, in Colorado. Da qui si prosegue attraverso Wyoming, Utah e Nevada fino a Mill City, ovvero San Francisco. Sono i percorsi suggestivi del mitico West, scanditi da paesaggi sconfinati e suggestivi, da canyon e aquile guizzanti. Un altro percorso possibile è quello che dalla Virginia arriva in California attraverso gli Stati del Sud, passando per New Orleans, El Paso in Texas e Tucson in Arizona.

Sull’acqua. Da Saint Tropez a Montecarlo – Guy de Maupassant

Uno scorcio di Cap Ferrat a Montecarlo.
Photo by Gianfilippo Maiga, License:Pixabay

In questo libro Maupassant narra di un viaggio rilassante fatto in aprile insieme a due marinai lungo la costa Azzurra, a bordo della barca chiamata ‘Bel Ami’. L’autore descrive in modo semplice gli spettacoli offerti dal paesaggio, che si intrecciano a riflessioni più generali sulla vita, la guerra, l’amore, le relazioni interpersonali. Un libro per chi desidera conoscere la costa francese, una delle più belle del Mediterraneo, che si conclude con l’arrivo a Montecarlo, città che vale sempre la pena visitare, se decidete di seguire le orme dello scrittore. Qui aveva da poco aperto i battenti anche il celebre casinò, che ai tempi di Maupassant probabilmente non aveva ancora raggiunto la fama odierna, e che oggi è sede di numerosi eventi di portata internazionale, come il concerto dei Beach Boys, o lo European Poker Tour del 25 aprile. Leggendo questo diario di viaggio viene subito il desiderio di seguire le orme dell’autore, di salire su una barca per ammirare la bellezza della costa Azzurra.

Un indovino mi disse – Tiziano Terzani

Tempio buddista sulle montagne del Laos.
Photo by Igor Mattio, License: Pixabay

Tutto parte da una profezia: un indovino aveva avvisato Terzani di non spostarsi in aereo nel 1993, per nessun motivo. Allora il giornalista, corrispondente dall’Asia per Der Spiegel, famoso settimanale tedesco, prendendo spunto da questo avvertimento inizia a girare il continente con ogni mezzo, tranne appunto l’aereo. Il risultato è un avvincente diario di viaggio e di avventura, che ci conduce alla scoperta di tradizioni, villaggi rurali e modernissime città. Il libro è un animato susseguirsi di leggende, aneddoti sulla vita quotidiana nei paesini dell’Asia e fa emergere molto bene la dicotomia tra aree in cui lo sviluppo è veloce, come la Cina, la Thailandia, o Singapore e quelli ancora saldamente ancorati alle tradizioni secolari, quali il Laos e la Birmania. Terzani descrive anche i diversi incontri che ha con astrologi e indovini, stregoni e santoni, uno per ciascuno dei Paesi che visita. Un libro sicuramente utile a capire nel profondo la cultura asiatica, le sue molte sfaccettature, per partire alla scoperta di questo continente.

Vado verso il Capo – Sergio Ramazzotti

Photo by Kgebel, License: Pixabay

Un diario di viaggio talmente famoso che è stato adottato come libro di testo nel corso di Sociologia del turismo all’Università Iulm di Milano. Nel 2016, a 20 anni dalla prima edizione, Feltrinelli lo ha ripubblicato nella collana digitale, con l’aggiunta di numerose foto inedite. Il lavoro di Ramazzotti parte da una sfida lanciata da Gilberto Milano, capo redattore di Auto Capital: percorrere l’intera l’Africa, da Algeri a Città del Capo, usando tutti i mezzi di trasporto disponibili e senza soldi per corrompere le autorità di frontiera. Ecco, allora, una narrazione che si dipana per 13.000 km percorsi con autobus affollati, treno, auto, camion, traghetti, barche, bicicletta e che attraversa il Sahara, la giungla e coinvolge in pieno il lettore. Tra le mete più affascinanti, lo Zambia e il Sudafrica, con i meravigliosi parchi naturali e le cascate imponenti: un viaggio tutto da sognare, in un continente misterioso e ricco di meraviglie.

‘Paterson’: quel dono di uno sguardo particolare sul mondo secondo Jarmusch

Paterson, New Jersey: Paterson si sveglia tutte le mattine tra le 6 e 10 e le 6 e 30, abbracciato alla moglie, nel letto che abbandona metodicamente per recarsi al lavoro; guida l’autobus n. 23 “Paterson“. Il surreale protagonista di una noiosa vita di cittadina ne porta lo stesso identico nome, Paterson. A ben pensarci, umoristicamente, il regista Jim Jarmusch ha scelto Adam Driver per guidare questo suo film del 2017: “driver” in inglese significa “colui che guida”. A connotare la quotidianità scandita dagli stessi ritmi e dalle stesse cose che si ripetono uguali a se stesse, anche il collega di origini indiane che immancabilmente ogni mattina si lamenta per qualcosa; la moglie, o il gatto col diabete o un fastidioso prurito alla schiena. Ma al suo “come va”? Paterson risponde sempre nella stessa maniera “Io? Tutto bene”.

Ma l’animo di Paterson non è così ordinario come potrebbe sembrare. Lui è nato nella città che ha dato i natali al poeta Williams Carlos Williams, e in cui crebbe Allen Ginsberg, insieme a molti altri, e come se ne sentisse l’influsso nell’aria, compone poesia. Ogni momento è buono, in autobus, nello scantinato di casa, mentre cammina o mentre osserva la cascata della cittadina, mentre sulle acque che scendono i caratteri del suo notebook segreto ne scandiscono il ritmo poetico.

Tutto per Paterson è poesia: ognuno crea, e che altro vuol dire “poesia” in greco se non “creazione”?
La creazione trasforma, e la poesia delle piccole cose diventa magia. La quotidianità non è più una gabbia da cui fuggire, sembra suggerire Jarmusch, ma nel vivere ogni piccolo dettaglio come straordinario e unico, il sogno può essere tradotto in realtà, come una semplice scatola di fiammiferi con la scritta che ricorda un megafono. La moglie di Paterson, interpretata da una dolce e bellissima Golshifteh Farahani –“About Elly” (2009), “Pollo alle prugne” (2011), “Come pietra paziente”, quest’ultimo diretto dallo scrittore Atiq Rahimi-, è anch’essa una creatrice instancabile, che utilizza il bianco e nero in modo poetico: sulle tende, sui tappeti, perfino per realizzare dei personalissimi cupcakes. A rallegrare le giornate dell’eccentrica coppia il cane bulldog Marwin, che si esprime a grugniti e fa qualche scherzetto. Proprio Marwin è il fedele compagno delle serate al bar di Paterson, dove alcune vicende tra cittadini prendono forma, come nelle conversazioni ascoltate a bordo del n. 23.

Le persone e le cose della vita si mescolano in unica dimensione, quella della poesia, come in una piccola rivoluzione interna, ma non alla Ginsberg ai tempi della beat generation, che scriveva in “Urlo” : “Ho visto le migliori menti della mia generazione distrutte dalla pazzia, affamate“ (…), descrivendone l’inquietudine del vivere.

Non ci sono più i poeti maledetti, non qui nello scorrere lento di Paterson, New Jersey. La trasformazione della scrittura nel creare immagini si fa in modo più intimo, anche se non per questo in modo meno radicale. Paterson con la sua calma esteriore e la continua positività in ogni situazione può essere un Candido “voltairiano” di stampo contemporaneo con un’anima creatrice, senza essere irrequieto. Ciò che vive ogni giorno gli basta, perché l’inesauribile fonte di rinnovato stupore sta nel suo vedere la vita come una splendida magia. E ha scoperto che essere felice per le piccole cose non è un limite.

Cose e parole dialogano in Paterson, un film costruito sulla figura dell’anafora e che non ci racconta di un genio incompreso, ma della poesia che ha il potere di cambiare ogni cosa, perché è il dono di uno sguardo particolare sul mondo.

“I poeti sono dannati ma non son ciechi, vedono gli occhi degli angeli”

 

Cinema&Photo

‘L’urlo’ di Allen Ginsberg: ribellione al conformismo e rinnovamento della poesia americana

Allen Ginsberg è nato a Paterson, nel New Jersey, nel 1926. Frequentò la Columbia University ma ne venne presto espulso per indisciplina. Entrato in contatto con Kerouac, Borroughs e Corso, divenne insieme a loro uno dei maggiori esponenti della beat generation. Iniziò verso la metà degli anni Cinquanta la diffusione dei suoi messaggi di protesta contro la civiltà consumistica e partecipò a diverse manifestazioni contro la guerra e a difesa dei diritti civili. La sua opera più significativa, il poemetto L’urlo del 1956, fece enorme scalpore e fu censurata per oscenità; in seguito però divenne, insieme al romanzo di Kerouac Sulla strada, un best seller e uno dei manifesti della beat generation, Nell’opera il poeta critica la società materialistica contemporanea che disumanizza l’individuo, a cui non resta altro che la fuga, nella pazzia o nell’anarchia.

Altre raccolte poetiche di Ginsberg sono Kaddish, Sandwich di realtà, La caduta dell’America (America ti ho dato tutto e ora non sono nulla. America due dollari e ventisette centesimi 17 gennaio 1956. Non posso sopportare la mia mente.
America quando finiremo la guerra umana? Va’ a farti fottere dalla tua bomba atomica. Non sto bene non mi seccare.
Non scriverò la poesia finche’ non avrò la mente a posto. America quando sarai angelica? Quando ti toglierai i vestiti?
Quando ti guarderai attraverso la tomba? Quando sarai degna del tuo milione di Trotzkisti? America perché le tue biblioteche sono piene di lacrime? America quando manderai le tue uova in India?…
. Negli ultimi anni si dedicò alla scrittura di canzoni, di ballate, tenendo letture pubbliche dei propri versi presso gallerie d’arte, caffè, università e continuando le sue battaglie in favore della non violenza e di nuove etiche di comportamento ispirate al Buddismo.

Ginsberg si ribella al conformismo e tenta un rinnovamento della letteratura americana con opere trasgressive e provocatorie (celebre è il suo manifesto-incipit dell’Urlo: «Ho visto le menti migliori della mia generazione distrutte dalla pazzia, affamate nude isteriche, trascinarsi per strade di negri all’alba in cerca di droga rabbiosa, | hipsters dal capo d’angelo ardenti per l’antico contatto celeste con la dinamo stellata nel macchinario della notte, | che in miseria e stracci e occhi infossati stavano su partiti a fumare nel buio soprannaturale di soffitte a acqua fredda fluttuando sulle cime delle città contemplando jazz».

La poesia di Allen Ginsberg esplode in uno dei periodi più controversi della storia statunitense. La seconda guerra mondiale è appena terminata e la popolazione appare, nel medesimo tempo, euforica per il significato di quella vittoria, ma terrorizzata da un ipotetico sopravvento del pensiero comunista che avrebbe potuto travolgere le fondamenta democratiche di quel paese recante con sé tutti gli onori e gli oneri del porsi come modello di libertà e di uguaglianza per tutti i popoli. L’ombra del Maccartismo opprime silenziosamente la tanta declamata libertà di pensiero ambita dal popolo americano e, in quel clima di sospetto e persecuzione, cresce Allen Ginsberg.

Il termine “Beats” viene usato con disprezzo dai benpensanti di quel periodo che lo traducono con falliti, battuti e sconfitti a causa dell’uso uso, e talvolta abuso, di alcool e marijuana, della tormentata inquietudine e il dichiarato disprezzo nei confronti del sistema da parte di quel movimento giovanile. Tuttavia i beats non vengono mai sconfitti e affrontano l’opposizione dei conservatori a testa alta, fiduciosi della loro forza e sostenendosi a vicenda. Beat non significa sconfitta, sostiene Kerouac, beat si traduce con quel senso di beatitudine che accompagna coloro che dichiarano una guerra pacifica al sistema americano che segrega i neri, subordina le donne e opera discriminazioni basate sull’orientamento sessuale.
E quel movimento scuote l’America borghese e consumista che non si avvede del lento strangolamento delle spire del Maccartismo del senatore Mc Carthy volto a perseguitare qualsiasi americano sospettato di avere idee progressiste.

Nelle sue poesie, Ginsberg sottolinea la rovina delle menti più eccelse della sua generazione a causa del materialismo americano (“Moloch“, un hotel a forma di mostro che prende vita in una delle sue visioni) e utilizza come punto di riferimento una di quelle che considera vittime del sistema, il suo caro amico Carl Solomon, rinchiuso in manicomio.
Il poeta usa lo stile dei versetti biblici e la sua visione, del tutto innovativa, rappresenta una fusione tra l’immaginario religioso e quello tecnologico: la passione della sua generazione per la droga, per esempio, è «hipsters dal capo d’angelo ardenti per l’antico contatto celeste con la dinamo stellata nel macchinario della notte…»

L’hipster è un neologismo creato negli anni ’40 per descrivere i giovani di razza bianca appassionati di jazz e bebop che cercano di imitare lo stile di vita dei musicisti jazz afroamericani.
Il poeta usa un linguaggio colloquiale e non pochi sono i riferimenti alle droghe e ad atti sessuali sia etero che omo. Paura, follia, diversità e alienazione sono i temi predominanti di questo poema, ma il messaggio fondamentale lanciato da Ginsberg è che, nonostante i vizi, il becero consumismo e l’annientamento del pensiero creativo, la vita è sacra e vale la pena di essere vissuta proprio per intraprendere un cammino che ostacoli la guerra contro l’amore, l’amicizia e l’altruismo attuata da Moloch. Ginsberg desidera che la sua generazione prenda coscienza di quel lavaggio del cervello operato da quei pochi che vogliono disumanizzare la società, ma senza ricorrere a droghe o altre sostanze che riducono la capacità di discernimento, bensì diventando parte attiva di quella stessa società, portando nel mondo esempi di quell’amore e solidarietà che Moloch vuole scoraggiare.

Nonostante il poema di Ginsberg venga inizialmente ritirato, il processo si conclude a favore dell’editore e la sentenza che ne deriva rimarca la libertà di espressione e di stampa fondamentali elementi dei principi della costituzione americana.
Negli anni ’50, in un’America ancora sconvolta dalla recente guerra, una sentenza storica di questo genere rappresenta una rottura di grande rilievo nella benpensante e ottusa società conservatrice.

I versi del poeta americano esaltano appunto i vagabondaggi, l’abuso delle droghe, le esperienze mistiche in Oriente, gli atteggiamenti anarchici e pacifisti. Lo scrittore polemizza con i miti e i costumi della società materialistica e tecnologica, schiava del denaro che stravolge i rapporti di solidarietà e amore. In un brano molto significativo dell‘Urlo ad esempio, Ginsberg immagina di camminare in un supermarket in compagnia del poeta Walt Whitman, il padre spirituale della poesia americana, e cantare la libertà e le tradizioni democratiche del suo paese, e tra le file luccicanti di scatolame, sognare di viaggiare attraverso un’America che non esiste più e che forse non è mai esistita: quella mitica dell’amore. Il supermarket è il simbolo dell’opulenza e del consumismo che uccide la poesia, il sogno, la fantasia; proprio in questo luogo il poeta cerca nuove immagini, spinto dal desiderio di vedere e conoscere, ma trova solo cibo e confuse aberranti mogli negli avocados, bambini nei pomodori, che si confondono con i volti cari del suo itinerario poetico, come Lorca. Incerte sono quindi le scelte da compiere: continuare per strade solitarie o sognare con nostalgia la perduta America dell’amore.

Il linguaggio, libero da schemi letterari, aderisce alla materia trattata con particolare evidenza espressiva; il metro è originale: lunghi versi liberi, ritmati dalle parole o dalla ripresa delle stesse strutture sintattiche:

 

Come ti penso stasera, Walt Whitman, perché camminavo per piccole strade sotto gli alberi col mal di testa guardando consapevole la luna piena. Nella mia fatica affamata, e per comprare immagini, entrai nel supermarket di frutta al neon, sognando le tue enumerazioni.

Che pesche e che penombre! Intere famiglie a far provviste la sera! Corridoi pieni di mariti!

 

Senza dubbio Ginsberg ha contribuito a tagliare i ponti con i tradizionali modelli europei di versificazione, creando una nuova poesia americana con forme e ritmi propri, vicinissimi al dettato della prosa. La sua è una poesia sperimentale, nuovo è il linguaggio poetico, nuove le cadenze e la divisione dei sintagmi. Il poeta americano intende la poesia come messaggio orale, in cui le immagini si accostano legate solo attraverso la continuità ossessiva della visione. Con ricche e colorite metafore, Ginsberg popola la sua poesia di immagini dissacranti come le mogli negli avocados, i bambini nei pomodori, ecc…

Le interrogative sono presenti in tutta la poesia e sottolineano la condizione di dubbio e di incertezza, l’impossibilità di poter aderire o accettare la realtà consumistica, dove non c’è posto per la poesia. Il giro nel supermercato è un’odissea, un viaggio assurdo, il poeta vuole evadere insieme all’amico Whitman da quella realtà, per sognare un’America diversa.

 

Fonte:

http://lacapannadelsilenzio.it/lurlo-poetico-di-allen-ginsberg-e-ancora-attuale/

“Highway 61 Revisited”: la rivoluzione di Bob Dylan

Highway 61 Revisited- Columbia Records-1965

Ci sono album capaci di modificare il corso degli eventi, di influenzare il pensiero e le coscienze di intere generazioni cambiandone per sempre l’identità ed addirittura la storia. Highway 61 Revisited di Bob Dylan è uno di questi. S’impone nell’immenso caleidoscopio musicale degli anni ’60 grazie ad una, fino ad allora, inedita miscela sonora e a delle liriche che, per la prima volta, assumono dignità letteraria. Robert Zimmermann, in arte Bob Dylan, da Duluth, Minnesota, non è nuovo a queste cose. Dapprima infarcisce di poesia la canzone di protesta, il folk di monumenti quali Woody Guthrie e Pete Seeger, componendo classici senza tempo quali Blowin In The Wind o The Times They Are A- Changin’, in cui riesce nell’impresa di coniugare acuta critica sociale con metafore e surrealismo. Poi frequenta personaggi chiave della beat generation quali il poeta Allen Ginsberg, che gli insegna un nuovo uso delle parole ed un nuovo metodo di scrittura. Quindi stanco della sua immagine di “menestrello” tutto armonica e chitarra decide di mettere su un dannatissimo gruppo rock e spazzare via per sempre il folk. Con l’aiuto di musicisti quali Robbie Robertson, Levon Helm, Garth Hudson (futuri componenti del gruppo The Band) compone ed incide Bringing It All Back Home, primo storico capitolo della cosiddetta “trilogia elettrica”. Pubblicato nel marzo del 1965 è uno shock terribile per i fan della prima ora che non apprezzano assolutamente il nuovo corso dylaniano arrivando, perfino, a bollarlo come traditore. Ma Dylan va dritto per la sua strada e, dopo aver reclutato gente del calibro di Mike Bloomfield, Al Kooper, Harvey Brooks e Charlie McCoy, registra il secondo atto del suo personalissimo trittico. Pubblicato a soli cinque mesi di distanza dal lavoro precedente, Highway 61 Revisited è un attacco frontale alla musica Americana. Intitolato significativamente col nome dell’autostrada che collega il Minnesota (stato natale dell’autore) con la Louisiana (patria della musica nera per eccellenza), quest’album stupisce immediatamente pubblico e critica per i testi di altissimo livello poetico/concettuale ed un sound tipicamente rock pieno di venature blues.

“E’ inconcepibilmente buono….come può una mente umana fare questo?” (Phil Ochs– cantante e compositore-1965)

La geniale apertura di Like A Rolling Stone (che Bruce Springsteen definì “un colpo di rullante che suonava come se qualcuno ti avesse spalancato le porte della mente”) pianta un chiodo nel futuro. Bob Dylan snocciola la storia di una disadattata con uno stile che, pur richiamando il più tipico talking-blues, anticipa il futuro strizzando l’occhio al rap. Su tutto un ritornello ormai leggendario ed il memorabile riff organistico di Kooper.

Bob Dylan durante le session per Higway 61 Revisited

Le parole volano, si rincorrono, si trasformano nella voce di Dylan che persegue la sua lucida visione poetica in Tombstone Blues, in  It Takes a Lot to Laugh, It Takes a Train to Cry, nella tambureggiante From A Buick 6, nella dolente Ballad Of A Thin Man, nell’appassionata Queen Jane Approximately, nella divertente cavalcata Higway 61 Revisited, nella tenera Just Like Tom Thumb’s Blues, fino ad arrivare allo scarno ed apocalittico affresco di Desolation Row (unico brano interamente acustico presente nell’album) contenente uno dei testi più belli e significativi mai scritti nella storia della musica contemporanea. Si viene così a comporre uno straordinario mosaico fatto di citazioni colte, richiami biblici, solidità country, vertiginose iperboli, visioni estatiche, suoni insoliti, robustezza blues, rabbia folk, tormenti privati, pubbliche virtù, brillantezza pop che ha, per la cultura del ‘900, la stessa identica valenza di quadro di Picasso o di un romanzo di Hemingway.

Dylan è al culmine del suo genio e della sua sregolatezza (che lo porterà a pubblicare, meno di un anno dopo l’acclamatissimo capolavoro e primo doppio album del rock Blonde On Blonde) riuscendo a vedere quello che altri non vedono e a sentire cose che altri non sentono. Nessuna concessione al successo, alla critica ed al pubblico, solo la ferma intenzione di un artista a perseguire una sensazione, un sogno traslucido, una visione in barba a tutte le convenzioni socio-poetico-musicali. La consacrazione arriverà suo malgrado trasformando quest’album seminale e rivoluzionario in un autentico trionfo in grado di innalzare il suo autore a figura iconica del XX secolo.

Beat generation: la protesta contro la società e la tradizione idealistica

Il dopoguerra è un periodo fertilissimo per le correnti di pensiero antimilitari e pacifiste. La ferita lasciata dagli orrori della guerra era troppo grande e ancora fresca per tutte le società di quel tempo, una ferita che non si sarebbe rimarginata mai completamente. Tra tutte le correnti di pensiero nate subito dopo il dopoguerra, c’è ne è una, in particolare, che esprime in maniera magistrale il connubio tra educazione e letteratura e che si è resa capace di creare una vera rivoluzione culturale ed è stata la beat generation. La sua nascita è solitamente collegata alla Columbia University, e all’incontro di giovani studenti quali, Jack Kerouac, Allen Ginsberg, Lucien Carr. Essi si oppongono alla vecchia tradizione idealistica e letteraria che i loro professori tenevano in vita e volevano offrire al mondo un nuovo modo di pensare, una nuova “visione”.

Il gruppo negli anni cambia, si aggiungono successivamente Neal Cassady, che diverrà un importantissimo protagonista della cultura beat, Gregory Corso, Lawrence Ferlinghetti. La beat generation giunge anche in Italia attraverso le traduzioni di Fernanda Pivano a metà degli anni ’60.

Per capire il movimento beat molti critici e gli stessi scrittori appartenenti al modo di pensare beat si sono chiesti: cosa significa beat? Ma al contrario di quello che si può pensare, non è una semplice ricerca semantica quella che si rende necessaria per comprendere il termine, bensì una ricerca spirituale, che palesa nel suo significato l’intera espressione del movimento. Difficile stabilire se beat avesse un significato positivo, preso da “beatitudo”, quella dello spiritualismo zen o delle droghe più svariate, o beat come sconfitto in partenza. Il centro era stato New York, con Allen Ginsberg, Jack Kerouak e Neal Cassady, combattenti contro il capitalismo, la discriminazione sessuale e la crescita del potere dei media.

Il successo del libro di Kerouac, morto a soli 47 anni, On the road (Sulla strada) avrebbe dato vita al movimento dei figli dei fiori, alle lotte contro la guerra del Vietnam, al movimento studentesco.
Il viaggio intrapreso da rappresentanti della beat generation è verso il nulla, poiché l’importante non arrivare ma partire, muoversi nella speranza. Tale concezione che nasce da un desiderio di libertà di espressione, dinamismo vitale, spiritualità prorompente e una feroce contestazione alla società e ai suoi modi di imprigionare gli uomini nei suoi schemi spersonalizzanti, comprende l’universalità delle cose, una ricerca intima del tutto, ma attraverso tutti i mezzi, come l’alcol, la droga o l’ incontro carnale libero. Dice lo stesso Ginsberg:

“Ho visto le migliori menti della mia generazione /distrutte dalla pazzia, affamate, nude, isteriche/trascinarsi per strade di negri all’alba in cerca di droga rabbiosa…/ a fumare nel buio/soprannaturale di soffitte ad acqua/fredda fluttuando nelle cime delle città, contemplando jazz…/Ho visto le migliori menti della mia generazione che mangiavano fuoco in/hotel ridipinti…/che vagavano su e giù a mezzanotte per depositi ferroviari chiedendosi dove andare, e andavano, senza lasciare cuori spezzati.” (da Howl- Urlo di Allen Ginsberg).

I poeti e gli scrittori beat cercano un senso liberatorio e un rifugio contro la società che li opprime nei suoi costumi e nelle sue feroci imposizioni, sentono perciò il desiderio inconscio di scappare, di trovare un nuovo stile di vita ovunque si trovino, sono cosmopoliti universali, sono grandi sognatori e fedeli discepoli della strada, metafora del percorso vitale che ciascuno può intraprendere, oltre che talentuosi scopritori dell’animo umano.
Per il loro stile di vita è facile chiamarli “poeti maledetti” oltre che collegarli agli autori della distruttiva Lost Generation, da cui gli stessi autori beat ammettono di trarre ispirazione.
<<Sono bambini all’angolo della strada che parlano alla fine del mondo>> afferma Kerouac, e probabilmente questa è la definizione più giusta per gli autori beat, essi sono uomini, come tutti gli uomini, che professano libertà ed insofferenti alla guerra.
Solo dopo aver compreso tutto questo che la parola beat sembra acquisire un senso, beat come sconfitta, quella subita contro la società, contro i costumi sporchi di sangue ormai troppo radicati nella tradizione, beat come ritmo, come quel dinamismo che porta a non fermarsi mai e a continuare il viaggio liberatorio dell’ anima, beat come ascesi nella spiritualità più profonda del proprio io, una discesa nei meandri di se stessi e degli altri, attraverso viaggi mentali provocati dalle droghe, per scoprire, secondo gli esponenti della beat generation, il tutto universale.

Ma beat generation non è sinonimo di vandalismo e violenza, di tossico o di sbandato; gli scrittori beat sono in uno stato di beatitudine; provano  ad amare tutta la vita, ad essere pazienti e sinceri con tutti in questo pazzo e frenetico, ispirandosi al cattolicesimo, allo spiritualismo e al taoismo. Questo è il vero spirito della beat generation.

Per tutte queste “definizioni”, la cultura beat diventa popolare negli anni, acquistando sempre maggior riscontro nella generazione del dopoguerra, sfociando poi nei movimenti hippy, nelle manifestazioni pacifiche di massa contro la guerra del Vietnam, ma anche per la sua connotazione di gruppo ribelle, per gli attacchi che riceveva dai giornalisti, incapaci di operare quella rivoluzione che il movimento beat stava portando, per le contestazioni ricevute, per il bombardamento mediatico sotto cui vivevano. Come tutti i movimenti originali e influenzanti, anche la generazione beat ebbe la sua fine, il suo successo, che raggiunse l’apice negli anni 50′ e agli inizi degli anni 60′ andò poi lentamente perdendosi fino ad una conclusione che i critici datano intorno alla fine degli anni 60′ e agli inizi degli anni 70′.

Ancora oggi si possono trovare le influenze lasciate dalla cultura beat (spesso considerata e riproposta in maniera errata): dalla musica al cinema, dalla letteratura al modo di vestire. Quei viaggi fatti solo per il gusto di farlo, che ancora sono presenti in molti film, quella ricerca di un senso di pace universale che pervade ancora oggi molti romanzi, ma soprattutto l’immaginario di moltissimi autori.

E in definitiva possiamo raccogliere tutto quello finora detto con lo stesso titolo con cui John Clellon Holmes pubblicò il suo articolo,spesso definito manifesto della generazione beat, sul New York Times nel 1952, This is the beat generation!

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