‘Giurato numero 2 ‘, l’ambiguità morale secondo Clint Eastwood

Cinquant’anni dopo che Roland Barthes e Michel Foucault hanno avviato la demolizione del concetto di autore, sottolineandone l’inadeguatezza come fonte di significato, la critica cinematografica oscilla ancora tra approcci devoti e cauti alla questione. I primi, come se fossero improvvisamente liberati dalla repressione del loro entusiasmo, abbracciano con tutto il cuore l’autore come pratica euristica e propongono di usarlo come fonte di analisi esplicativa. I secondi, spesso allineati al pensiero post-strutturalista, cercano di delineare i modi in cui gli autori influenzano la circolazione della loro opera senza cadere nella trappola di difendere la reificazione borghese della loro posizione. Tra questi ci sono stati tentativi di affrontare i contesti storici e istituzionali degli autori, che hanno spesso ridotto la loro funzione a meri partecipanti alla commercializzazione del cinema, insieme a una ripresa di studi che si aggrappano ancora alla capacità dell’autore di mobilitare aspetti dell’identità, ad esempio, attivando fantasie sulla capacità degli spettatori di avere il controllo del significato ed   esprimersi.

In questo contesto il cinema dell’inossidabile Clint Eastwood  ha diviso e divide la critica in chi si crogiola in accuse di antisemitismo, razzismo, mascolinità eccessiva, autoritarismo, rudezza e chi esalta il coraggio del pluripremiato cineasta nel non essersi mai lasciato sedurre da sperimentalismi, continuando a proporre se stesso con grande rigore e autenticità.

Anche l’ultimo pregevole legal thriller di Eastwood si colloca nel solco del rigore stilistico e della classicità. Giurato numero 2 va dritto al punto senza giri di retorica: Verità/inno al ragionevole dubbio, giocando abilmente col motivo del visibile e dell’invisibile, dell’evidente e del nascosto: la sposa bendata, il protagonista abbacinato dal temporale, il testimone confuso dalla distanza, il pubblico ministero ‘accecato’ dalla carriera. Le zone d’ombre sono tutte messe in luce da Eastwood, che mostra quello che i personaggi non vedono o non vogliono vedere. Ma è tutto lì, in piena luce grazie alla fotografia è limpida, l’illuminazione uniforme, l’inquadratura spinta al massimo punto di eccellenza, eppure tutti guardano senza vedere. E qui risiede la profondità del film, molto più che nel dilemma morale che deve affrontare il protagonista e che richiede una sola scelta giusta, senza possibilità di sbagliare.

Justin Kemp, giovane uomo con un passato da alcolista e un futuro da papà – la moglie aspetta la loro bambina -, è convocato come giurato in un caso di omicidio alle porte di Savannah, in Georgia. La vittima, Kendall Carter, è stata presumibilmente picchiata a morte e abbandonata in un fosso dopo una violenta discussione con il suo ragazzo, membro pentito di una gang di quartiere. Il colpevole ideale per i dodici giurati e per il procuratore della contea in piena campagna elettorale.

Justin, giurato numero 2, realizza progressivamente la propria colpevolezza nella tragedia avvenuta un anno prima, nel cuore della notte, sulla stessa strada dove si era convinto di aver investito un cervo. Sotto una pioggia battente di ricordi, il marito perfetto si scopre omicida involontario e si ritrova difronte a un dilemma morale: confessare, scagionando l’imputato, o sottrarsi alla giustizia, condannando un innocente?

Il film cita il Sidney Lumet de La parola ai giurati quando entra nella stanza della giuria, formata da gente normalissima con convinzioni precostituite, mentre Justin che tenta di salvare la propria coscienza man mano scardina le loro convinzioni colpevoliste. Tuttavia, in Lumet Henry Fonda era l’eroe americano senza macchia, mentre in Giurato numero 2, il marito perfetto è anche l’inquieto colpevole, per quanto involontario, di una tragedia più grande di lui.

Qualcuno ha avuto una relazione o conoscenza con l’imputato prima di oggi? Chiede il giudice.

È stato passeggero del mio bus, risponde la giurata.

 

Gli atteggiamenti verso la rilevanza dell’autorialità corrono paralleli a una diffusa ansia nella cultura contemporanea causata dalla tensione tra il desiderio di trovare modelli di identità coerenti per guidare la nostra identificazione e la consapevolezza che le società postmoderne non offrono molto in tal senso, ovvero il conflitto tra un’adattabilità al cambiamento richiesta socialmente  e il bisogno, anch’esso originato dalla società, di un’identità personale stabile e forte che possa sopravvivere a quello stesso cambiamento senza dissolversi in esso.

Tale conflitto può essere visto come la tensione creata dalla richiesta sociale di identità che sono allo stesso tempo deboli e forti, un conflitto visibile nei discorsi creati dal cinema americano e che risulta più visibile in quei film che sono associati ad autori con una potente presenza culturale, acquisita attraverso una lunga carriera di regista o attraverso la loro contemporanea condizione di attori di punta. Clint Eastwood, uno dei più importanti autori di questo genere nel cinema hollywoodiano contemporaneo, si erge come un prodotto culturale sintomatico di quella tensione, poiché i significati che ha accumulato nel corso della sua lunga carriera. includono fantasie sia sull’autosufficienza che sulla flessibilità del soggetto contemporaneo.

Le diverse fantasie offerte dal cinema di Eastwood, Giurato numero 2 compreso, spaziano dal sé maschile determinato a quello duttile e si combinano tra loro in vari modi, attestando le tensioni che attraversano le società contemporanee in merito alla formazione e alla circolazione dell’identità, mostrando i modi in cui la cultura statunitense riflette l’ansia maschile causata dalla pressione di adattarsi a una nuova sfera sociale in cui la malleabilità e l’identità come stile di vita sono più richieste rispetto al tradizionale ethos maschile di lavoro ed efficienza. Tale tensione è articolata dai film attraverso il ricorso allo status culturale di Eastwood come autore e rappresentante del maschio statunitense.

La sua circolazione come voce autoriale mostra l’impatto di tale necessità di adattarsi ai tempi che cambiano, con conseguenti fantasie di espressione che suggeriscono allo spettatore una varietà di interventi autoriali. Sebbene i film di Eastwood siano pervasi dai significati
portati dalla sua potente presenza come attore, funzionano anche producendo fantasie  su di lui come autore di cinema d’azione-spettacolo, di film indipendenti, di tentativi di revisione attraverso il melodramma e in generale su di Eastwood come autore con una visione del mondo molto personale. Del resto, chi oggi parla di ambiguità morale al cinema con il rigore di Eastwood, trattando contemporaneamente, senza partorire un guazzabuglio, politica, sistema giudiziario americano, vicenda personale, fede, fiducia della legge?

Parlando di indipendenza artistica, è utile sottolineare come la stessa società di produzione di Eastwood, inoltre, la Malpaso, illustra l’ambigua relazione dei suoi film con il mainstream: il suo ufficio si trova all’interno dei terreni della Warner Bros. dal 1976, a testimonianza della relazione di complicità e opposizione di Eastwood con Hollywood, che è fondamentale per comprendere il suo lavoro e il suo significato culturale. Un’ambiguità simile ha definito la connessione delle produzioni indipendenti con le major negli ultimi vent’anni, al punto che la comparsa all’interno dei grandi studi di divisioni specializzate in progetti dall’aspetto indipendente ha costretto gli studi cinematografici a ripensare il significato del cinema indipendente. Una volta che l’indipendenza economica è diventata un’utopia, l’etichetta indipendente è diventata un’ulteriore nicchia commerciale per l’industria, designando ora uno stile diverso caratterizzato dall’attenzione alla costruzione del personaggio, alla sovversione della struttura narrativa.

‘The Beguiled’. Il film più controverso e visionario di Siegel

The Beguiled (1971titolo italiano, La notte brava del soldato Jonathan) è uno dei film più potenti, coesi, visionari e controversi diretti da Don Siegel, sceneggiato magnificamente con una sottile connotazione psicologica, pennellate antropologiche di magistrale riuscita, composto e sfrenato nel medesimo gesto registico.

La trama è semplice, lineare, scarnificata fino all’estremo dell’essenziale, e tutto si svolge all’interno del collegio femminile sudista. Ma il modo peculiare con cui Don Siegel dà estro all’affresco dei personaggi, la cura nelle inquadrature, il dinamismo delle immagini e le suggestioni pressoché pittoriche degli interni, degli sguardi, dei volti, sono qualcosa che difficilmente si lascia dimenticare.

Clint Eastwood (alla sua prima prova attoriale di spessore, riconosciuta tale anche dalla critica del tempo) è il caporale John McBurney, la sola figura maschile all’interno del collegio; introdotta a dispetto delle ordinanze e dei codici che vedrebbero l’obbligo, in tempi di conflitto, di consegnarlo all’esercito sudista come prigioniero. Miss Martha Farnsworth, più che matura e arcigna direttrice della scuola, appare dibattuta proprio nel decidere le sorti del giovane soldato, ma prende la decisione di curarlo in attesa di vedere il da farsi, con l’alibi di salvarlo da una prigionia che nelle sue condizioni ne avrebbe decretato la morte, ma adombrando intenti occulti di ben altra natura.

In questa sorta di gineceo, il soldato si muove furbescamente e in modo maliardo, catturando le attenzioni, più o meno sessualmente esplicite, di tutte le educande, comprese quelle di Miss Martha, che, a dispetto dell’aria e della condotta irreprensibili, nasconde un passato torbido e incestuoso. Di particolare spessore (e stuzzicata, anche lei, dal fascino del caporale) è la figura della serva di colore: dipinta come forte, risoluta e di una certa fibra morale, nasconde qualcosa, nel proprio trascorso, di innominabile, ed ha subito un maltolto che non dimentica. È forse la figura più schietta e umana della lunga carrellata di personaggi femminili che offre il film.

“Richard Jewell”, il nuovo granitico film di Clint Eastwood basato su una storia vera

A ottantanove anni e il quarantaduesimo film da regista Clint Eastwood assomiglia ormai a una delle sculture dei volti dei presidenti Usa scolpite nella roccia del Monte Rushmore in Dakota.

Non solo e non tanto nei lineamenti istoriati di rughe eppure dotati di un’espressione fiera e uno sguardo vivido, però, quanto nello stile delle sue messinscene che sono diventate sempre più essenziali, sobrie, inscalfibili, appunto granitiche. Repubblicano ostile ai liberal ma implacabile nel denunciare malefatte, zone d’ombra e ingiustizie tollerate dal fronte conservatore, l’autore di capolavori come “Un mondo perfetto”, “Gli spietati”, “Gran Torino”, “Mystic River”, “Million Dollar Baby” e tanti altri conferma, in effetti, anche nel nuovo “Richard Jewell” di volere e potere restare soprattutto “fedele a se stesso” come recita il titolo del bellissimo libro di interviste curato da Robert E. Kapsis e Kathie Coblentz recentemente pubblicato da Minimum fax.

Basterebbe del resto ritagliare una frase del dialogo pronunciata dall’avvocato difensore del malcapitato cittadino a cui il film è dedicato per capire di che pasta è fatto l’ex pistolero senza nome dei western di Leone: “Quelli non sono il governo americano. Sono tre coglioni che lavorano per il governo americano”.

Sulla falsariga della sceneggiatura di Bill Ray ispirata da un’esplosiva inchiesta di “Vanity Fair” lo storyteller Eastwood, il narratore di storie vissute da persone normali trascinate dal caso, la malizia o l’intrigo nel vortice della distruzione personale e sociale si dedica stavolta a un personaggio sgradevole, interpretato perfettamente da P. W. Hauser, il complessato trentatreenne soprannominato dai compagni di scuola Omino Michelin: illibato, solitario, collezionista di armi, poliziotto fallito, ancora domiciliato presso la madre (la strepitosa, come sempre, Kathy Bates), untuoso e volentieri schernito dalla gente, aveva trovato un posto tra le guardie giurate adibite alla sorveglianza del Centennial Park nel corso delle Olimpiadi di Atlanta del ’96.

Fortunatamente/sfortunatamente e proprio a causa della sua zelante pignoleria uno dei più goffi e inadeguati personaggi della galleria d’antieroi americani si troverà, nella realtà e nella finzione, catapultato nel giro di poche ore dal ruolo di osannato scopritore in extremis di un attentato bombarolo a sospettato numero uno dello stesso attentato.

Certamente il filone hollywoodiano dedicato ai guasti del circo mediatico, reso spesso folle e disumano dalla superficialità, il cinismo, l’ottusità del giornalismo scandalistico, i capetti incarogniti e le istituzioni (Fbi in primis), conta su una fitta serie di precedenti, a cominciare dal cult movie “L’asso nella manica” di Billy Wilder con Kirk Douglas: quello che distingue Eastwood è, peraltro, la diffidenza innata nei confronti di qualsiasi entità statalista e la fedeltà allo spirito “libertarian”, alimentato dalla filosofia politica anarco-individualista che non ha corrispettivi negli schieramenti europei tradizionali e quindi tutt’altro che familiare al pubblico nostrano.

L’altra faccia dell’epopea si materializza, così, nel calvario del vigilante, il classico uomo qualunque che continua a credere nonostante tutto nei principi costituzionali e non si capacita di come possa essere diventato il classico capro espiatorio.

Tutto fatti, nessun virtuosismo “artistico”, ritmo incalzante ma non survoltato alla maniera degli action di moda, centotrenta minuti di proiezione che scorrono via quasi senza il doping della musica: Jewell ampiamente scagionato è scomparso prematuramente nel 2007, ma per fortuna il vecchio Clint non lo ha dimenticato e non vuole soprattutto che lo dimentichino i connazionali di un grande paese che ama così tanto da poterlo quando serve criticare aspramente.

 

Richard Jewell

‘The Mule-Il corriere’, il road movie malinconico e autoironico di Eastwood

Io sono una forza del Passato/Solo nella tradizione è il mio amore.

Clint Eastwood, 89 anni a maggio, non c’entra nulla con Pasolini, ma il suo trentasettesimo film “The Mule” –iddio non voglia che resti l’ultimo- trasmette una malinconia ispida, asciutta, autoironica, a tratti addirittura stravagante che ne rilancia la forza poetica senza scalfire, anzi accrescendo la mitografia dell’icona. Un vero road-movie incapsulato in un falso thriller: nel mettere in scena l’ennesimo personaggio scolpito nel granito cinematografico, il grande vecchio spinge forte sull’intera gamma dei temi che gli sono familiari e cari –il disadattamento dei reduci di guerra, l’America profonda e rurale, l’inseguimento tra uomini empatici arruolati sotto contrapposte bandiere, la disgregazione delle famiglie, la difficile convivenza interetnica- senza perdere la leggerezza, privilegiando i sottotoni, preferendo il togliere all’aggiungere, incidendo sui primi piani dell’alter ego attore sentimenti allo stesso tempo minimalisti ed esuberanti, sfumati e spudorati.

Davvero straordinaria appare, poi, la classe con cui Eastwood si divincola dalle forche caudine del politicamente corretto, senza limitarsi a gettare qua e là tra i dialoghi qualche battuta cinica oppure a blandire comportamenti da libro nero del progressismo, bensì ricorrendo ai leimotiv del pensiero libertario, a quelle teorie che danno preminenza alla scelta individuale davanti alle pretese di qualunque potere politico.

E’ questo, in effetti, il legno in cui è intagliato Earl, il floricultore restato disoccupato a causa della crisi economica e prescelto dal cartello messicano di Sinaloa per trasportare quintali di cocaina dal Texas a Chicago. Neanche gli agenti più astuti della DEA possono sospettare, del resto, che il corriere soprannominato El Tata al servizio dei criminali sia un insospettabile ottantenne dai tratti rugosi, la silhouette ingobbita e il passo traballante che non ha mai preso una multa, un brontolone che canticchia il country sul suo pickup, nemico di internet e dei cellulari, un pessimo padre e marito che ha rotto i ponti con gli affetti più cari e ancora si cimenta con le baldracche (rischiando brutto a livello cardiaco), un irresponsabile egoista che all’improvviso si ritrova ricco e può togliersi qualsiasi sfizio.

Per Clint Eastwood la questione è il tempo che gli rimane. Undici anni dopo Gran Torino in cui figurava Walt Kowalski, misantropo irascibile e veterano della Guerra di Corea, Clint Eastwood mette in scena la sua fine, fino alla prossima volta almeno, riprendendo la strada in un road-trip testamentario supplementare. Per Clint non è più il tempo di scrivere la sua leggenda e di giocare col suo mito. Perfettamente cosciente di quello che suscita, si diverte ma resta secco e autentico dietro le rughe di un uomo che non ha più l’angoscia di invecchiare ma la paura di morire. Quando appare sullo schermo il cuore si ferma perché Clint Eastwood è sempre maledettamente bello, col suo sguardo chiaro, il sorriso franco e quella silhouette torreggiante che non ha perso niente della sua eleganza ma che non può e non vuole nascondere il peso delle sue primavere, quella vulnerabilità che accompagna la vecchiaia. Al tempo che incalza, come gli scagnozzi del cartello messicano, l’autore risponde rallentando.

Che fantastico rilievo assume via via la performance di Eastwood: degno di un antieroe cocciuto uscito dalle pagine di Cormac McCarthy, riesce a duplicare se stesso, ora recitando in surplace, ora sfidando con incoscienza il rischio, ora prendendo di petto chi non gli piace, ma sempre capendo e facendo capire benissimo che il tempo è l’unica merce che non potrà mai comprare. Nessun compiacimento, nessun pietismo, nessuna scusa, nessuna redenzione come avveniva, invece, in “Gran Torino” (firmato dallo stesso sceneggiatore Schenk). Se la vecchiaia esiste, la si può beffare. Se il naufragio è imminente, bisogna andargli incontro ghignando. Se il suo giorno sta per finire, El Tata affronterà la notte senza allentare la presa sul volante di una morale pratica, uno spirito indomabile e un caparbio amore per la propria terra.

 

Fonte:

Il corriere – The Mule

‘Sully’ di Clint Eastwood: l’eroico destino di chi compie solo il proprio lavoro

Sully è il nuovo film dell’inossidabile fuoriclasse del cinema internazionale Clint Eastwood, uscito nelle sale italiane lo scorso 1 dicembre e che ha per protagonista l’impeccabile Tom Hanks, spalleggiato da un bravissimo Aaron Eckhart. L’ottantaseienne Eastwood dimostra di avere una vena creativa inesauribile e sforna un altro capolavoro prendendo le mosse dallo straordinario evento avvenuto il 15 gennaio del 2009, quando il volo di linea Airways 1549, affidato alle esperte mani del capitano Chesley “Sully” Sullenberger, fu costretto dopo pochi minuti dal decollo a tentare un ammaraggio d’emergenza sulle acque newyorkesi dello Hudson a seguito di un’avaria di entrambi i motori.

Sully, una storia vera

Il pilota Sully dunque è diventato famoso in tutto il mondo, è considerato un eroe e lo stesso Tom Hanks ha ammesso che non è stato facile interpretare una persona vera. Ma sta di fatto che Hanks è riuscito benissimo a vestire i panni dell’uomo comune (ricordandoci James Stewart), proiettato da circostanze clamorose nel culmine di un evento terribile, e trovandosi nella scomoda situazione di dovere affrontare un’inchiesta, un estenuante processo e respingere sia le contestazioni burocratiche e assicurative che la popolarità che vuole celebrare l’eroe di turno.

Sully è un film fantastico, essenziale e coerente stilisticamente, con buona pace di chi tenta di stroncarlo,  scomponendo la pellicola per ricavarne assunti politici per denigrare Eastwood sostenitore di Donald Trump durante le scorse presidenziali statunitensi, al quale invece importa raccontare l’eroico destino di chi compie solo il proprio lavoro con abnegazione e che viene persino perseguito, anzi torturato giuridicamente, non esaltare il valore e il coraggio a stelle e strisce come pensa qualcuno.

Sully è un film riuscitissimo dove l’azione, i dialoghi e i momenti statici sono perfettamente armonizzati in una narrazione fluida e compatta, grazie al taglio drammaturgico conferito dal regista, evitando eccessi di retorica che per altri sarebbero stati inevitabili, dovendo trattare una storia come questa. Sully infatti, durante il processo, dimostra di tenere al suo posto di lavoro, non a promuovere il suo personaggio di eroe, cercando di convincere gli inquirenti e le autorità che non avrebbe potuto compiere una scelta diversa, salvando tutti i 155 passeggeri presenti a bordo.

Tuttavia il professionista rappresentante l’etica del lavoro Sully, pur avendo fatto la cosa giusta, preoccupandosi del bene comune, è un personaggio disilluso e smarrito e questo aspetto è in geniale contrasto con il “messaggio” che il film stesso sembrava aver stabilito. Tuttavia il protagonista di questa vicenda non pensa minimamente di svalutare la propria impresa, seppur amareggiato. Ecco la cifra stilistica di Eastwood che ci fa parlare di “personaggi tipicamente eastwoodiani”: l’ironia scaturita dallo understatement che nasce dal paradosso, direzionando l’attenzione dello spettatore in quanto cittadino sul destino di tutti quelli che, cercando di fare al meglio il proprio dovere, preservando l’uncolumità altrui, si ritrovano in una situazione di “accusati”, minacciati dalle autorità e inoltre pervasi dalla stucchevole retorica del trionfalismo che ha valore puramente consumistico. La “normalità” e allo stesso tempo la “straordinarietà” di Sully sono racchiuse nella frase che egli rivolge alla moglie per telefono: “Voglio che tu sappia che ho fatto del mio meglio”.

 

L’eredità di Michael Cimino, genio anarchico

Michael Cimino, anarchico e visionario regista italo-americano passato alla storia del cinema per il capolavoro Il cacciatore, si è spento il 2 luglio scorso all’età di 77 anni a Los Angeles circondato dai suoi cari. Una morte inaspettata soprattutto se si pensa che in occasione dello scorso Festival di Locarno ad agosto, il regista era apparso sereno ed entusiasta della calda accoglienza da parte del pubblico.

Michael Cimino: genio visionario, da regista di successo a reietto

Nato a New York da genitori laziali, il cinefilo appassionato di architettura e laureato in Arti Grafiche a Yale Michael Cimino, durante la sua tribolata carriera ha girato solo 7 film più un cortometraggio, tra i quali si ricordano maggiormente il cult-movie premiato con 5 Oscar Il cacciatore (1978), I cancelli del cielo (1980), passato alla storia per aver portato la United Artist al fallimento e L’anno del dragone (1984). Il suo aspetto estetico, da anni oggetto dei più disparati commenti, era quello di un uomo magrissimo, fragile, efebico e pallido, dal viso deturpato da diversi interventi di lifting, coperto dagli inseparabili occhiali scuri. Probabilmente Cimino non ha mai superato del tutto il torto subito ai tempi dell’epico e prolisso I cancelli del cielo, flop di incassi che lo ha condannato all’isolamento da parte degli addetti ai lavori e degli amici, trasformandolo da genio osannato a reietto.

Per la realizzazione de I cancelli del cielo, pellicola oggi rivalutata e considerata da molti un capolavoro, Michael Cimino aveva avuto carta bianca dalla United Artists, na aveva sforato il budget passando da 12 a 36 milioni. La produzione navigava già in cattive acque ma un libro incolpò Cimino e la sua megalomania (addirittura si narra che facesse i provini persino ai cavalli) il fallimento della United. Una falsità, dato che il film uscì per una settimana a New York, stroncato ferocemente dalla critica perché il regista raccontava un’America violenta, venne tagliato da 220 a 140 minuti e fu giustamente un fiasco. Raccontava lo stesso Cimino: “Quando entravo in un posto pubblico tra quelli che fino a ieri erano amici, collaboratori, calava il gelo, tutti mi voltavano le spalle”. Dopo averne sfruttato la creatività, ora lo condannavano a scrivere nell’indifferenza perpetua”.

Cimino era un’anima sensibile e vulnerabile vittima delle spietatezza e della stupidità della macchina hollywoodiana, di cui il regista italo-americano ha sfidato il bigottismo, prendendosi insulti raccontando storie con grande umiltà e rifiutando il politicamente corretto sin dagli esordi quando, nel 1974 scrive e dirige per Clint Eastwood il feroce noir Una calibro 20 per lo specialista. La fama di Cimino è ovviamente legata a Il cacciatore, tra i primissimi film a raccontare il dramma della guerra in Vietman, di quei giovani mandati al macello, e attraversato da un lirismo straziato e straziante che è stato purtroppo oggetto di pregiudizi politici prima e rivalutato poi. Il cacciatore non è foriero di un messaggio pacifico e di giudizi storico-politici, è un film attraversato da un profondo senso di morte e smarrimento, che è stampato nei volti degli straordinari protagonisti, volti alla ricerca di se stessi e di uno spiraglio di speranza per sopravvivere non della gloria o di riconoscimenti civili. In questo senso Michael, interpretato da un indimenticabile Robert De Niro, è un eroe proletario inconsapevole che, tornato in patria, non si compiace delle sue numerose medaglie ma cerca di salvare il suo amico Nick, rimasto a Saigon a rischiare ogni sera la vita nell’assurdo gioco della roulette russa.

Cimino, in diverse interviste, ha affermato che la lunga scena della tortura del gioco della roulette russa nella capanna-prigione compiuta dai vietcong ai danni dei loro prigionieri non è altro che la sintesi di quello che fu la guerra. Al regista non interessava raccontare la guerra del Vietnam in sé, ma trasmettere al pubblico l’emozione crudele di quello che doveva essere stato, la roulette russa è il simbolo del suicido dell’America. In questo senso la roulette russa diviene una metafora del suicidio di un intero popolo e Nick rappresenta la reiterazione di chi è incapace di superare un trauma. Solo Michael ci riesce, ma non potrà più riuscire a cacciare un cervo (spara il suo colpo in aria), ed ecco l’altra grande metafora esistenziale del film, la caccia: la filosofia di vita di Michael si basa sul “colpo solo” durante la caccia al cervo poiché l’animale non può difendersi e quindi al cacciatore spetta un solo colpo per abbatterlo.

Il cacciatore non è un film reazionario come fu tacciato all’epoca della sua uscita e come alcuni pensano ancora oggi, è un romanzo epico e malinconico che ritrae la vita degli operai della Pennsylvania per i quali la guerra del Vietnam rappresenta l’occasione per uscire dalla loro vita provinciale e periferica. Lascia parlare emotivamente il paesaggio Cimino grazie al grande lavoro realizzato sul colore e sulla luce e che incute nello spettatore un profondo senso di solitudine che si riscontra anche nel cinema di Visconti e di Kurosawa.

Il grande successo del Cacciatore rese Cimino uno dei registi più desiderati di Hollywood egli permise di avere a disposizione un budget altissimo per la realizzazione de I cancelli del cielo, un western eccesivamente lungo e vertiginoso ma anticonformista ed emozionante che getta ombre sulla storia della conquista della democrazia americana attraverso la storia della guerra nella contea di Johnson nel Wyoming che vede scontrarsi i grandi allevatori contro i contadini. Da quel punto in poi la strada per il regista diventò tortuosa: tra il 1985 e il 1990 il reietto d’America può esprimersi solo con il thriller nichilista L’anno del dragone, che riesce ad unire violenza (non gratuita) ed eleganza; Il siciliano, che racconta delle gesta di Salvatore Giuliano che nasce da un’ossessiva inverosimiglianza storica, unita a una rilettura del romanzo di Mario Puzo alquanto originale e il remake di Ore disperate, pellicola claustrofobica ma nel complesso poco riuscita. Dopo anni di silenzio, Cimino si presentò nel 1996 nel concorso di Cannes con Verso il sole, disuguale road movie che porta con sé un pizzico di mitologia.

Cosa rimarrà dell’ambizioso Michael Cimino? Un ampio respiro teso vero il tutto, verso il mondo: le inquadrature di Cimino, i suoi onnicomprensivi piani-sequenza per raccontare la fine del sogno americano, la sua fragilità, il suo anticonformismo, l’impeccabile direzione di attori come De Niro, Streep, Cazale (tra i protagonisti de Il cacciatore, e fidanzato di Meryl Streep morto di tumore prima che potesse vedere, ultimo simbolo della scuola newyorkese e del metodo Strasberg), Savage, Rourke, Bridges, Kristofferson, Huppert, Walken, il suo genio visionario e anarchico, la sua affascinante e al contempo triste parabola esistenziale e artistica.

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