Franz Krauspenhaar, lo scrittore milanese dalla penna veloce e dall’inchiostro al veleno

Il nome, Franz Krauspenhaar (Era mio padre, Brasilia, Un viaggio con Francis Bacon, Biscotti selvaggi), potrebbe trarre in inganno. Si tratta di un italiano, anche se non scrive per niente come il solito romanziere nostrano. Ma del resto, italiano propriamente non lo è, essendo nato dall’unione tra una madre calabrese e un padre tedesco. Praticamente si tratta di quello che, in tempi che ignoravano il politicamente corretto, si sarebbe definito un bastardo mezzosangue. E un po’ bastardo e figlio di buona donna Franz lo è, senza ombra di dubbio e senza offesa per sua madre.

Penna veloce e inchiostro al veleno, Franz Krauspenhaar è uno degli scrittori più europei della sua generazione. In effetti, a leggere Grandi Momenti, Neo Edizioni, 2016, vengono in mente più che altro i francesi Louis-Ferdinand Céline e Michel Houellebecq, sapientemente mescolati agli americani Henry Miller e Charles Bukowski. La sensazione, fin dalla prima pagina, è liberatoria. Franz scrive quello che sente, senza edulcorare o cercare accondiscendenze da parte del lettore. Nel nostro paese non siamo abituati a gente simile, qui dove non si va avanti senza tessere di partito (sappiamo tutti quale, vero?) e appartenenze a mafiette editoriali:

Nelle braccia viscide di quell’ambiente di culirotti, di criticastri senza muscolatura esistenziale e quelle due puttanelle che scrivevano oramai per i principali inserti culturali. Troie, troie di merda! L’avevo gridato più volte alle riunioni carbonare con altri scrittori della mia situazione. Non era possibile che gente come noi fosse esecrata da queste giovani bocchinare accasatesi nelle riviste bolsceviche sperticando le lodi dei vecchi fanfaroni della sinistra anni Cinquanta.

Per un critico libero incontrare righe del genere è come uscire finalmente all’aria aperta, dopo aver vissuto rinchiuso per secoli in una camera a gas. Si potrà facilmente immaginare come abbiano preso frasi del genere in via Solferino, nelle blasonate pagine culturali di Repubblica, dalle parti di L’Unità – povero Gramsci! –, e via dicendo. Figurarsi poi le reazioni che potrebbero suscitare tali espressioni in donne come la Boldrini, o in qualcuna delle sue amichette femministe: “Mio Dio, ma questo Krauspenhaar chi è per dare delle puttanelle a delle pennivendole di sinistra? Ma non si rende conto di essere un sessista?”. Uno così sarà chiaramente destinato a una bella reductio ad Hitlerum. È infatti proprio quello che capita al suo alter ego letterario Franco Scelsit, in Grandi Momenti:

Per due giorni mi hanno insultato dicendo che sono uno sporco fascista, e non è la prima volta. Il mondo della cultura è strano. Si dibatte nel nonsenso, nell’incongruenza si frulla, e impazzisce come maionese acida. Io ho risposto con violenza, per non smentirmi.

Certo, è difficile immaginare in un ruolo simile uno di quei servi di partito che vanno nel noto salotto televisivo del conduttore più viscido e leccapiedi che esista (avete presente quella trasmissione che va in onda su Rai… ?).

L’ultimo testo di Franz Krauspenhaar è quello che si è soliti definire un’autofiction. In sostanza si tratta di una trasposizione romanzata di parte della vita dell’autore medesimo, che si avvale in sede narrativa di un alter ego letterario. Niente di troppo insolito: Bukowski, Fante (padre e figlio) e gli americani in generale ci avevano già abituati a questa forma letteraria da lungo tempo. Su questa sponda dell’oceano, perfino Houellebecq, massimamente in Estensione del dominio della lotta, ha fatto altrettanto: basta mettere a confronto la biografia dell’autore d’oltralpe a quanto narrato nel suo primo lavoro. Nel caso di Franz Krauspenhaar abbiamo la storia di uno scrittore, Franco Scelsit, dalle grandi ambizioni, ma con scarsi introiti, che a cinquant’anni vive ancora con la madre (detta “il colonnello della sussistenza”) e il fratello (il padre è morto, dopo averli abbandonati). Il protagonista è un infartuato sopravvissuto – pare che tale sorte sia toccata anche all’autore – che conduce una vita abbastanza scapestrata e irresoluta comprando vecchi bolidi automobilistici di cui è grande appassionato fin dall’infanzia, bevendo birra a tutto spiano e consumando rapporti occasionali con amichette passeggere. Praticamente un moderno Peter Pan ossessivo-compulsivo che non sopporta l’idea di diventare grande:

ho un conto già aperto con la vecchiaia: la odio, è il mio futuro, il mio destino, l’ultima tappa prima della grande partenza.

Per tirar su la grana che non riesce a ottenere con le opere che ama scrivere, Franco Scelsit accetta di buttar giù dei romanzi da autogrill, gialli a uso e consumo del grande pubblico, utilizzando uno pseudonimo, Rodolfo Simonetti, così da non compromettere la sua immagine – chissà in quanti sono a farlo?

Franz è Franz, senza ulteriori possibilità, prendere o lasciare, amare od odiare. Del resto, dacché siamo entrati nell’ottica postmoderna non sussistono che singole storie particolari, slegate, irriducibili; gli eventi non si susseguono secondo un consequenzialità causale e ogni vita fa storia a sé. Pertanto questo testo, dal titolo che ironicamente riecheggia il Dickens di Grandi Speranze, tutto è fuorché un romanzo di formazione coeso e strutturato lungo centinaia di pagine. Al contrario, le pagine sono poche – il romanzo è breve – e l’intento sembra più che altro quello di accorpare una serie di circostanze, ma senza grandi pretese. Anche questa smania ossessiva che apparteneva ai romanzi classici di costruire ritratti psicologici approfonditi – che alla fine risultavano solo e unicamente pesantissimi! – viene ampiamente abbandonata. L’io narrante, che coincide poi col protagonista, è decisamente self-centred e degli altri non se ne cura che è un piacere. Li tratteggia in poche frasi, poi ogni tanto li fa ricomparire nella narrazione, ma alla stregua di spettri, x indistinte che vanno e vengono.

Una spiegazione di quello che tanti potrebbero confondere con superficialità la si trovi magnificamente espressa nelle parole del primo Houellebecq:

Il mio scopo non è di incantarvi con sottili notazioni psicologiche. Non ho l’ambizione di strapparvi applausi per la mia finezza e il mio spirito. Questo genere di cose le lascio agli scrittori che usano il proprio talento per descrivere i differenti stati d’animo, i tratti del carattere, ecc. Io con loro non c’entro niente. Tutta questa mole di dettagli realistici, questo dar vita a personaggi plausibilmente differenziati, m’è sempre sembrato, scusate l’ardire, una grande stronzata. […] Per raggiungere lo scopo decisamente filosofico che mi propongo, invece, occorre sfrondare. Semplificare. Sterminare uno alla volta dettagli infiniti. Ad aiutarmi ci sarà il semplice gioco del movimento storico. Sotto i nostri occhi, il mondo si uniforma; i sistemi di telecomunicazione progrediscono; l’interno dei nostri appartamenti si arricchisce di nuovi congegni. Le relazioni umane divengono progressivamente impossibili, fatto che in proporzione riduce gli aneddoti di cui si compone una vita.

Parole simili, senza dubbio opinabili, si attaglino magnificamente alla struttura e ai propositi dell’opera di Franz, chiarendone gli intenti. Detto ciò, una volta accettata tale prospettiva, la narrazione estemporanea e dal tono dimesso di Grandi Momenti scorre che è una meraviglia, brillante e mordace. L’autore ne ha veramente per tutti: da Milano, la sua città “senza pietà”, passando per una fisioterapista (“se io detesto lo faccio con cura, impegno: ho acquisito una certa professionalità”), fino ad arrivare a una nota icona pop anni ’80 (“Nella testa ho il canto sguaiato di quella troietta da lavanderia a gettoni di Cyndi Lauper”), per poi concludere – e non poteva essere altrimenti! – con gli altri scrittori

Non leggo nulla di contemporaneo che non sia scritto da me, a parte, forse, Martin Amis. Dei miei colleghi italiani, oramai, m’interessa solo la compagnia in birreria, ma solo se pagano loro, e solo a piccole dosi

La scrittura di Krauspenhaar è nevrastenica, oscilla tra l’improperio e lo sprazzo poetico, fatta di considerazioni sparse, citazioni di canzoni. Non aspettatevi un’opera epica stile grande romanzo del nostro tempo come Purity di Franzen. Decisamente Franz Krauspenhaar non è uno che allunga il brodo, che la tira per le lunghe, o porta il lettore allo sfinimento con descrizioni che alla fine ubriacano. Anzi, a un certo punto sembra proprio che la voglia chiudere lì in fretta, come a dire che basta, bisogna semplicemente piantarla, lasciare l’opera aperta, o se preferite non conclusa, forse addirittura smetterla di rompere. Sarà per questo che Grandi Momenti risulta così straordinariamente vitale, perché come la vita non chiude il cerchio.

 

Fonte: L’intellettuale dissidente

“Grandi momenti”: Krauspenhaar nichilista

Grandi momenti (Neo edizioni, 2016) è l’ultimo romanzo di Franz Krauspenhaar (Le cose come stanno, Era mio padre, Biscotti selvaggi). Narrato in prima persona e al tempo presente, è categorizzabile come romanzo psicologico.

I grandi momenti “prima” e “dopo”

Il grande spartiacque della vita di Franco Scelsit, classe 1960,e protagonista di Grandi momenti, è l’infarto subito l’anno precedente alla narrazione. Su quella vita trascorsa fra libri autentici ma dalle basse tirature, romanzi best seller ma pubblicati sotto pseudonimo, donne occasionali, bevute con amici e corse in macchine di lusso, Franco si ritrova a riflettere nel periodo attuale, dominato dalla convalescenza da un collasso che gli è quasi costato la vita.

In questo lungo presente, fatto di visite, ginnastica riabilitativa, birra ghiacciata durante le “cardiopizze” (cene insieme agli altri ospiti dell’ospedale, tutti infartuati), le giornate passano così, senza senso, con l’unico vero aggancio alla vita costituito dalle domande che, inevitabilmente, vengono a sorgere dopo un evento del genere.

Ciò che colpisce della narrazione di Grandi momenti è la stranezza di quello che si definisce in gergo come “arco di trasformazione del personaggio”: la prassi prevede che a inizio storia il protagonista abbia un difetto principe che gli impedisce di uscire dallo stallo in cui si trova; solo durante lo svolgimento della trama, poi, riesce a trovare uno sbocco dal suo vicolo cieco e a superare l’asperità che gli si è presentata. Ecco, in Grandi momenti questo arco di trasformazione risulta distorto, quantomeno dimidiato e parziale. Franco Scelsit, uomo palesemente in crisi di mezza età e sull’orlo della depressione più cupa, non sembra essere in grado di uscire dal suo fatal flaw: piuttosto il post infarto lo conduce a riflettere, a portare alla luce questo suo malessere prima indecifrabile; malessere persistente anche nel “prima”, quando l’uomo lo scaricava comprando auto di lusso (una Jaguar tanto agognata e poi distrutta, perché non è con oggetti materiali che si esce dalla depressione) e dissipando soldi.

Fransco Scelsit, l’uomo del Novecento

Il mal di vivere montaliano di Franco Scelsit sembra invincibile, come risulta da diversi tentativi (andati a male) di autoanalisi. Si pensi ai seguenti passi, il primo a inizio romanzo e il secondo verso la fine: «Tutto ciò che tocco è malato, il morbo è la mia cifra, l’alienato è il mio ritratto». «Poche tirate e la sigaretta è finita, come finisce un sogno, un amore, una speranza, come finisce tutto».

Di frasi come queste il romanzo è pieno: sono sentenze fatalmente nichiliste, che non lasciano spazio alcuno a una speranza consolatrice, a un futuro luminoso. E che il futuro non sia luminoso per Franco Scelsit lo conferma il suo ostinato tentativo di annegare nel passato. Dalla scelta delle macchine alla frequentazione di personaggi solo over 50 (solo una certa Mara, 24 anni, sembra affacciarsi nella sua vita, ma lui la ricaccia indietro perché la differenza d’età è troppa), dall’ascolto di musica fondamentalmente vintage al rifiuto totale di usare computer e telefonino (nonostante si parli qui di uno scrittore di professione): tutto è rigorosamente “anni Ottanta”, forse nel tentativo disperato di (ri)vivere una vita e una giovinezza ormai perdute, e un periodo storico ottimista o comunque speranzoso.

Quest’assenza di speranza nel presente e il relativo rifugio in un passato “glorioso” si mischiano, a volte ma non sempre, con qualche sprazzo di ottimismo, cosparso però anch’esso di un senso di tragedia e fatalismo:

«Ma io me ne frego della società, Mario. E della politica. Questa politica è morta, si è suicidata. Io vado avanti sbagliando e riprovandoci e sbagliando ancora, come Beckett. Lo sbaglio è l’unica cosa che non mi tradisce mai. Io ho visto il baratro, ci sono caduto dentro, e sono ancora vivo. Più vivo che mai. E allora si sopravvive. Forse. Anzi, come dice un mio amico “si resiste”. Se sopravvivi al baratro, è come se fossi resuscitato».

C’è un vago richiamo all’abisso nietzscheano qui, e probabilmente non è casuale, visto il senso di nichilismo generale di Grandi momenti. Verso la fine del libro Franco decide quasi di cambiare tutto, a 50 anni suonati, e di partire per l’America. Ma anche l’America, vista trent’anni prima, è un’America diversa: «L’America è passata. È stata ed è passata. E tutto senza di me».

Eppure basterebbe forse poco per cambiare le cose, ma i propositi di costruirsi una famiglia (lui stesso afferma di volere figli, e di poter anche essere un ottimo padre), di rimettersi in gioco, di cambiare aria svaniscono nel nulla, non arrivano mai a compiersi. E resta sospesa così anche una delle frasi più belle dell’intero libro: una frase che sembra la speranza in un nuovo rinascimento, e che però non si avvera: «Si trova sempre qualcuno simile a noi. Basta un sorriso, a volte, e si divide la colpa di essere vivi».

Questo senso di peccato originario che pervade l’intera storia è tutto qui: nella colpa di essere vivi. Colpa inevitabile, e quindi tanto più schiacciante e paralizzante.

Grandi momenti è dunque uno straordinario e, al contempo, paradossale inno alla vita, che conta su una scrittura viscerale, amorale, a tratti rozza e scurrile, sicuramente non adatta a palati fini e che godono nell’aureo distacco dalla realtà. Ma chi, guardandosi intorno, vede ovunque le ombre di una crisi che non è solo economica, bensì esistenziale, non potrà che amare questo piccolo capolavoro.

‘Un viaggio con Francis Bacon’, di Franz Krauspenhaar

Franz Krauspenhaar (Avanzi di balera, Era mio padre, L’inquieto vivere segreto), è uno scrittore milanese dal talento eclettico, e la sua biografia ne è la prova. Ha lavorato in ambito commerciale in vari settori merceologici, anche se la sua carriera in qualità di scrittore ha inizio solo alla fine degli anni ’90, pubblicando il suo primo libro a 39 anni. Ad oggi il suo estro creativo ha all’attivo: otto romanzi, un saggio narrativo, quattro libri di poesie e una serie di collaborazioni per la stesura di raccolte poetiche e narrative. I romanzi di Franz Krauspenhaar sono spesso delle autofiction ed egli è solito raccontare le sue storie attraverso la voce in prima persona. Il maestro indiscusso al quale Krauspenhaar sembra riferirsi per quanto riguarda lo stile, la discorsività libera e priva di tabù e colore della pagina è lo statunitense Henry Miller, scrittore altrettanto poliedrico. Tuttavia tra gli autori di riferimento primeggiano altri ‘grandi maestri’ che non possono non essere menzionati, ovvero: Thomas Bernhard, Heinrich Böll, Samuel Beckett, Dürrenmatt e Celine. Dalle premesse sin qui enunciate è possibile dedurre la densità della scrittura dell’autore milanese e apprezzarne al tempo stesso la capacità narrativa fuori dal comune.

Con Un viaggio con Francis Bacon (2010), l’autore propone un viaggio nell’arte di Francis Bacon ma non solo. Infatti all’interno di questa cornice, il narratore intraprende un percorso interiore che si traduce in una ricerca personale nei meandri dell’anima di un artista tra i più complessi e affascinanti. Se l’arte di Bacon nasce dal dolore, dall’ossessione e dalle ferite, non si può restare immacolati da tale contatto che finisce con lo “sporcare” anche il lettore.

Ebbene, la scrittura quando si eleva ad Arte riesce a operare anche questo piccolo miracolo. La narrazione è impressionistica, spazia e comunica con il cinema e la musica, e l’autore, quasi si avvalesse di una macchina da presa, realizza un cortometraggio in prosa. Egli dà voce al dolore muto dell’artista, disserta intorno all’opera d’arte ed evita con estrema padronanza la mera celebrazione fine a se stessa. Quella di Krauspenhaar è una prosa critica che di conseguenza evoca e celebra con maestria il potere che l’arte può esercitare, ovvero racchiudere in sé una miriade di mondi, avviare un dialogo tra le arti laddove matrice è il dolore che si fa ossessione, il sacrificio della parte più profonda dell’artista, quella parte dell’io che resta pur sempre tormentato nonostante il tentativo catartico operato attraverso la creazione artistica.

A tal proposito, potrebbe essere utile riportare alcuni versi di Sergio Corazzini e Aldo Palazzeschi i quali ben si prestano a chiarire ulteriormente tale concetto, quando cantavano:

“Il mio cuore è una rossa/macchia di sangue dove/io bagno senza possa/la penna, a dolci prove/eternamente mossa”.

O ancora:

“Io metto una lente/Dinanzi al mio core,/per farlo vedere alla gente./Chi sono?/Il saltimbanco dell’anima mia”.

Viaggiare con Francis Bacon, toccare le sponde del cinema, della letteratura, dell’arte e della musica significa scrutare all’orizzonte il vuoto,  guardare in faccia alla contemporaneità, attraverso la mescolanza di stili letterari e strutture narrative diverse; è un racconto molto personale in forma di saggio, alla ricerca della bellezza dell’inquietudine, della sconfitta, di un certo coinvolgimento nella purezza da parte del dolore e del male.

Dice lo stesso  Krauspenhaar:

“L’uomo baconiano è tutti e nessuno, ora l’ho capito. È il venditore in Mercedes incontrato a fine inverno davanti al tabaccaio, ma è anche John Kennedy nel pieno della sua morte violenta. È il ragazzo del Vietnam vittima di uno scontro a fuoco. È addirittura la testa pelata del colonnello Kurtz impersonato da Marlon Brando in Apocalypse now. La filosofia di Kurtz, esplicata nel suo monologo, è una filosofia dell’accettazione della morte e soprattutto dell’assassinio senza riguardo che non è nemmeno immorale, è semplicemente lineare, fino a raggiungere proprio una non sottile linea di straordinaria purezza”.

 

 

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