Espiazione e rinascita nel nuovo libro di Ilaria Palomba, proposto per il Premio Strega 2025

Purgatorio è il nuovo libro della scrittrice Ilaria Palomba, edito Alter Ego Edizioni. Una storia di rinascita, espiazione e purificazione. La scrittrice attraverso il titolo evoca la dimensione del Purgatorio dantesca dove le anime, prima di bearsi della gioia celeste dovuta alle divine visioni, dovevano scontare la pena per giungere a Dio in stato di grazia e purificate. Quello che racconta Ilaria Palomba è una condizione espiante e di transizione che non ha a che fare con l’ultraterreno, bensì con la fragilità dell’inconscio e la concretezza brutale della realtà. La nozione di Purgatorio appare già in alcuni scritti antichi di Platone ed Eraclide Pontico chiamato con l’appellativo di Ade Celeste, diverso tuttavia dall’Ade infernale descritto da Omero ed Esiodo.

L’Ade Celeste, similare alla concezione di Purgatorio giunta in epoca moderna, era un luogo di attesa dell’anima dopo la morte; un momento intermedio di purificazione affinché l’anima ne uscisse fuori limpida e candida per poi passare a un luogo superiore o per reincarnarsi, nuovamente, sulla terra. Secondo lo storico Jacques Le Goff, la concezione del Purgatorio come luogo fisico nasce fra il 1170 e il 1200. Oggi, nell’immaginario comune, la struttura del Purgatorio come stato dell’anima e luogo è accompagnata dalla narrazione dantesca e dalle illustrazioni di Gustave Doré. Il custode del Purgatorio – per Dante Alighieri – è Catone l’Uticense, e le funzioni specifiche di questo luogo di transizione sono espiazione, riflessione e pentimento le tre condizioni che tracciano il cammino verso la luce per aspirare alla redenzione.

«E canterò di quel secondo regno
dove l’umano spirito si purga
e di salire al ciel diventa degno.»
(Dante, Purgatorio I, 4-6)

Il cammino delle anime descritte da Dante è un pellegrinaggio, così come il Purgatorio raccontato da Ilaria Palomba che è un pellegrinaggio interiore, uno scalpitare in un corpo esistente ma trasparente, un viaggio in una condizione mediana dove tempo e pensieri sembrano accartocciarsi su loro stessi per lasciare spazio a voragini che inghiottiscono, masticano e sputano brandelli di vita sopravvivente, il tutto in un eterno ritorno punteggiato da domande, flashback interiori, visioni e un linguaggio lirico, evocativo e poetico a cui il lettore non riesce a sottrarsi.

L’autrice scrive nel libro una frase emblematica:

‘’L’amore che ho dato agli altri è stato superiore all’amore che avevo per la vita’’.

Il testo parte da una vicenda personale, un tentativo di suicidio e il cammino verso una rinascita possibile. Se prima tutto sembrava pesante, adesso a quelle elucubrazioni si aggiunge la prigionia di un corpo che si trascina e che deve imparare, nuovamente, a esser vivo. Il dolore mentale dell’autrice si sovrappone a quello fisico e porta il lettore nei suoi momenti di resistenza, sofferenza, e nei suoi desideri di autodistruzione. I mesi trascorsi in unità spinale dopo il gesto sono raccontati con lirismo e poesia, da cui traspare il senso di impotenza della protagonista ma anche la sottile fragilità della condizione umana. Il peccato delle anime purganti di Dante vive insieme alla loro sofferenza, addolcita dalla speranza di salvezza e di luce. Così l’autrice deve confrontarsi con il suo passato e con una nuova vita: il luminare della psichiatria, la clozapina, le pazienti in unità spinale, i pensieri ossessivi, il senso di impotenza, le persone del suo passato e gli uomini di un tempo.

L’ospedale diventa quindi il personale Purgatorio della protagonista dove il dolore si intreccia ai giorni vuoti che scorrono e le persone diventano riflessi di questa nuova vita ‘’accaduta’’; lo stato intermedio dell’anima, nel caso dell’autrice, non è volto solo alla purificazione ma anche alla ricostruzione e alla riscoperta della propria identità. In un turbinio di resa totale, brama di distruggersi e voglia di sopravvivenza, si descrive a pieno uno stato dell’anima in costante tensione; si è in attesa di espiare la colpa concretizzando quell’aspetto astratto dell’espiazione nel luogo fisico che è l’unità spinale, la personale salita al monte dell’autrice dove, ad attenderla, c’è la luce.

Il libro tratta diverse tematiche fra cui l’alienazione, la costruzione di una routine dopo un trauma, il dolore, la contraddizione viscerale fra senso di morte e sopravvivenza, ma anche la possibilità di ridarsi alla vita e il passato che ritorna. L’angoscia esistenziale di una donna che ricomincia, le ossessioni e gli uomini protagonisti della vita di prima:

‘’Sono una suicida, la diagnosi più consona è suicida, perché è sin dalla nascita che faccio l’amore con la morte. Gli uomini che ho amato erano tutte le manifestazioni della morte’’.

Una frase potente, così come è intenso il viaggio emotivo che Ilaria Palomba compie in Purgatorio trasportando il lettore in spirali emozionali che si alternano a un linguaggio brutale ma di impatto per passare, rapidamente, a dimensioni oniriche e sognanti e a narrazioni filosofiche, poetiche e auliche al contempo. Nel testo sfilano uomini misteriosi come H., D., Zadkiel; non c’è immobilismo o autocommiserazione, ma voglia di fare diversamente o meglio un monito per tentare di fare un qualcosa di diverso per riuscire ad avere una vita migliore di quella in reparto. Risulta intensa la descrizione del rapporto della protagonista con gli uomini del suo passato, non solo in maniera frammentaria ma scandagliando la profondità delle sensazioni, dei sentimenti e delle pulsioni provate dall’autrice che, attraverso vortici linguistici e immagini potenti e di impatto, dona il suo dolore al lettore ma anche la sua esperienza di vita. La sofferenza fisica si alterna a quella dell’anima sì per la sua condizione, ma anche per quello che era prima e per la voglia di riscatto. Una frase contenuta nel libro che rappresenta la brama di cambiamento anche in altri ambiti dell’esistenza e, in questo caso, nei rapporti con gli uomini del suo passato:

’Non voglio più essere l’Eco di nessun Narciso’’.

Il testo è, infatti, disseminato di riferimenti mitologici, come quest’ultimo caso, letterari, filosofici e poetici. Cristina Campo, Beppe Salvia, Marcel Proust… A un certo punto il filo conduttore che strappa l’autrice dal Purgatorio è proprio il potere salvifico della letteratura, guida personale della protagonista-purgante, che non ha alcun Virgilio a mostrarle la strada, come Dante Alighieri, ma solo sé stessa. Nonostante l’incertezza, l’apatia, e il tormento l’impulso vitale brilla e si attacca a quella promessa di vita: la fragilità del momento e l’attesa senza scadenza non seppellisce la lotta ma, anzi, è quella sospensione fra due mondi che la acuisce.

In questa visione, la lotta e la sopravvivenza si accostano al pensiero di Schopenhauer sul suicidio che non è visto dal filosofo come un rifiuto o una liberazione dalla volontà, ma come un’affermazione di essa stessa: non costituisce quindi una negazione della vita bensì un’affermazione della volontà di vivere. Le bellezza del romanzo di Ilaria Palomba si dispiega in un caleidoscopio di sfumature che vanno dalla ricchezza del lessico aulico a una narrazione poetica, una sorta di poesia in prosa, dove lirismo e alta letteratura si intersecano in una spirale di emozioni e tormenti, alla speranza di redenzione  e al baluginio di una luce che indica l’ascesa al celestiale; la conferma che nonostante traumi, dimensioni sospese e sensazioni ferali si può sopravvivere attraverso una nuova e sfavillante via da percorrere per ridonare sé stessi alla vita.

 

 

‘Avrei voluto portarti sulla luna, ma ho trovato posto solo al lago’ di Anita: una storia d’amore e di forza

Avrei voluto portarti sulla luna, ma ho trovato posto solo al lago, edito dal  Gruppo Albatros Il Filo, è l’esordio letterario dell’autrice genovese Anita.

Anita è nata nel 1988 e vive a Genova. Grazie alla scrittura è riuscita ad affrontare paure e fragilità. Proprio per questo motivo nasce Anita, nome di fantasia che le ha permesso di liberarsi dalla convinzione di essere sbagliata, riconquistando se stessa.

 

Avrei voluto portarti sulla luna, ma ho trovato posto solo al lago: sinossi

Avrei voluto portarti sulla luna, ma ho trovato posto solo al lago è uscito nel 2020. Il romanzo, corredato dalla prefazione di Barbara Alberti, racconta di un amore drammaticamente meraviglioso.

Continuo a pensare incessantemente a quella mattina, a quando mi sono svegliata e la persona che più ho amato nella mia vita non era più accanto a me. Era andato via per sempre. La sera prima ho parlato con lui, gli ho detto quanto lo amavo, l’ho baciato, mi sono addormentata stringendo la sua mano e qualche ora dopo non ho più sentito il suo cuore. La notte passò velocemente. Troppo velocemente. Il suo battito era sempre più debole fino a quando si fermò di colpo. La mattina seguente ero abbracciata al suo corpo disteso, immobile, freddo. Ancora il suo profumo nell’aria ma lui non era più con me. Continuavo a guardare quella pelle sempre più bianca. Sono rientrata a casa dopo due giorni e le lenzuola conservavano ancora la sua sagoma, il suo corpo sembrava ancora sdraiato nel nostro letto. Lo sento ancora vicino, ma non c’è, mi manca l’aria e lui non è qui con me. Non mi basta percepire la sua presenza, io voglio il suo corpo, voglio vederlo. Mi ero illusa stupidamente di potermi abituare all’idea. Speravo con tutta me stessa che questo dolore atroce e terribile fosse meno soffocante, invece mi sento strappare il cuore, come se qualcuno mi prendesse a calci e non riuscissi a difendermi. Ho la terribile sensazione di avere la testa immersa in una vasca d’acqua ghiacciata senza poter tornare su e riprendere fiato. Mi sento soffocare, non riesco a respirare e lentamente sento il buio intorno a me. Un silenzio assordante, un ossimoro che spezza la mia anima, mi toglie la serenità, probabilmente anche la vita, due parole così diverse ma tanto esplicite da farmi tremare anima, mi toglie la serenità, probabilmente anche la vita, due parole così diverse ma tanto esplicite da farmi tremare.

Una donna che racconta un passato e un presente travagliati con una tenerezza e una fragilità in cui potersi rivedere e confrontare, un viaggio in un amore drammaticamente meraviglioso.

Anita e Agostino uniti da un destino che li dividerà, forse invidioso di un sentimento così travolgente e peccaminoso da scatenare contro di loro la morte: una tragedia che però non li fermerà, continuando a sopravvivere a emozioni come rabbia, odio e paura.

Agostino si è innamorato dello sguardo di Anita, Anita è stata conquistata dalla semplicità genuina di Agostino, ma dopo pochi mesi dall’inizio del loro sentimento vengono travolti dal dramma della malattia, un tumore cardiaco colpisce il giovane. La sentenza dei medici è drammatica: solo un trapianto lo potrà salvare.

Finalmente la chiamata tanto attesa arriva, ma la cattiva sorte non li abbandona: qualche giorno prima ad Anita, dopo aver accusato violenti episodi di difficoltà respiratoria, viene diagnosticato un tumore avanzato ai polmoni e consigliato di iniziare immediatamente le cure, ma lei si rifiuta di intraprendere le terapie per stare vicino ad Agostino, nella speranza di iniziare un percorso di guarigione a fianco del suo grande amore.

Durante gli screening di routine effettuati prima del trapianto i due innamorati si salutano, dandosi un addio silenzioso nella paura che durante l’intervento qualcosa possa andare storto, ma neanche un’ora dopo il cardiologo che avrebbe dovuto operare Agostino spiega ad Anita che, per colpa di un’incomprensione, la famiglia che aveva dato disponibilità per l’espianto degli organi ora non firmerà più il consenso, condannando così il giovane alla morte.

La coppia decide di passare le ultime ore di vita insieme, abbracciata in un letto d’ospedale per darsi un addio straziante agli occhi di tutti, anche del personale medico che nei mesi prima aveva conosciuto quell’amore viscerale e inspiegabile.

Anita ci porterà quindi nella descrizione angosciante di cosa vuol dire affrontare la morte di chi si ama facendone un racconto dettagliato e, circa un anno più tardi, straziata e sfinita dalla perdita dell’amato e dalla malattia che l’ha colpita, deciderà di anticipare la morte ricordando fino all’ultimo quell’uomo che l’ha salvata dalla paura e dalla solitudine, eternamente grata di aver vissuto un amore così totalitario e carnale.

Spaventata da ciò che non sa, si convince che dopo la morte inizierà una nuova vita, alla ricerca inconsapevole di un amore che saprà riconoscere, ritrovando così Agostino e quell’amore diviso da due corpi ma unito da due anime che si cercheranno per sempre.

Dalla penna di Anita ha preso vita una storia dalla grande carica emotiva. Un romanzo scevro dai toni sdolcinati tipici dei romanzi rosa.  Un amore intenso e struggente che vive nel tempo, oltre la vita, oltre la morte ma anche una storia dove malattia e amore si fondono irrimediabilmente. Questi temi non sono di certo nuovi: Romeo e Giulietta ed Anna Karenina sono gli archetipi dell’amore eterno. Bianca come il latte e rossa come il sangue, Ad un metro da te e Colpa delle stelle invece quelli del connubio malattia-amore. Eppure il romanzo emana un’aura innovativa: Avrei voluto portarti sulla luna, ma ho trovato posto solo al lago rappresenta una doppia nascita: da una parte quella dell’opera stessa pagina dopo pagina e, dall’altra, quella di Anita, nome di fantasia che ha permesso all’autrice di liberarsi dalla convinzione di essere sbagliata, riconquistando se stessa.

“Questo libro – spiega la scrittrice – nasce quasi all’improvviso, mentre guardavo fuori dalla finestra ho sentito la necessità di mettere nero su bianco e descrivere i miei pensieri, le mie fantasie e, forse, anche le mie paure. La spinta è arrivata dalla voglia irrefrenabile di dare voce alle emozioni provate, regalando così un volto a tutto questo”.

Un viaggio che il lettore intraprende al fianco della protagonista. Un’opera profonda, ricca di pathos per chi la leggerà e colma di riscatto e catarsi per l’autrice, perché è proprio grazie alla scrittura se Anita è riuscita ad affrontare, appunto, paure e fragilità. E si auspica lo abbia fatto in modo non melenso e retorico, incentrando l’attenzione sul rapporto malattia-relazione d’amore.

 

 

https://www.gruppoalbatros.com/prodotti/avrei-voluto-portarti-sulla-luna-ma-ho-trovato-posto-solo-al-lago-anita/

 

 

“La montagna incantata”: il ritratto della civiltà occidentale

Con La montagna incantata la letteratura europea raggiunge uno dei massimi vertici espressivi. Elegante, denso di immagini indimenticabili, cattura dal principio alla fine con un andamento onirico e dilatato. Si tratta di un’ opera di non facile lettura, che in alcuni punti accusa qualche momento di stanchezza, trascurabile se se ne considera la lunghezza complessiva.

Nell’estate del 1907 Hans Castorp, giovane ingegnere di Amburgo, si reca nel sanatorio svizzero di Davos in visita al cugino malato di tubercolosi. Hans viene attratto dall’atmosfera del sanatorio, macabra e voluttuosa, ed è felice di sapere che un malattia ai pol­moni gli impedisce di ritornare in pianura, dove gli uo­mini conducono la loro piatta esistenza. La “montagna incantata” su cui sorge il sanatorio è un luogo mitico, al di fuori del tempo, in cui tutto sembra possibile. Hans cede alla passione per una signora russa, Clowdia Chauchat, che lo lega ancor più profondamente al mondo del sanatorio.

Conosce l’italiano Settembrini, il gesuita Leo Naphta e l’olandese Peeperkorn. Attraverso il confron­to con loro si compie il lungo tirocinio pedagogico di Hans. Settembrini, razionalista e fiducioso nella scien­za e nel progresso, difensore della democrazia, crede sia suo compito sottrarre Hans al fascino della montagna e far rinascere in lui l’interesse per il mondo reale. Naph­ta, nichilista, gli oppone l’esaltazione della violenza, del terrore, della morte e morirà suicida. Peeperkorn è l’a­more istintivo e prorompente per la vita. Lo scoppio del­la grande guerra sconvolge questo mondo, fa fuggire gli ammalati e costringe Hans, dopo sette anni, a scendere dalla “montagna incantata”. In pianura egli riesce a sottrarsi al suo fascino ambiguo e sceglie, arruolandosi vo­lontario, di confondere il suo destino a quello di migliaia di uomini offesi e disperati.

La montagna incantata è un romanzo che ha qualcosa di ipnotico, la narrazione è lucidissima e al tempo stesso quasi febbricitante. Significative le pagine che raccontano le due passeggiate solitarie di Castorp, la prima più o meno ad inizio romanzo e la seconda sulla neve verso la fine, entrambe caratterizzate da ricordi, sogni e visioni dense di emozioni. Le pagine memorabili di questo lunghissimo romanzo sono, però,  innumerevoli:  “La montagna incantata” non può essere descritta o riassunta se non molto genericamente, bisogna immergersi nel mondo che propone l’autore.
La narrazione è estremamente lenta, a scandire il lento passare del tempo dei pazienti del sanatorio, ma mai noiosa. Il libro è arricchito dalle numerose riflessioni del protagonista, Hans Castorp, e dai personaggi comprimari del libro, Berens, Settembrini, Naphta, Peeperkorn.

La montagna incantata  riflette anche un’epoca ed un ambiente che non esiste più, oppure non esiste più così diffusamente come doveva essere ad inizio del secolo scorso; queste persone nobili, o comunque benestanti, che si potevano permettere di stare ad oziare, se pur in alcuni casi anche gravemente ammalate, senza fare niente. L’unica attività che diventa quindi preminente è la disquisizione filosofica, portata avanti dai vari personaggi ognuno secondo la sua indole.

In generale è un testo di enorme complessità, capace di affascinare e coinvolgere il lettore come pochi altri. L’ ambientazione è il paesaggio alpino incombente, amico e ostile, spettatore delle vicende umane che si dipanano nel villaggio. Finisce per fungere anche da autentico “personaggio aggiunto” nel memorabile capitolo “Neve” in cui Hans Castorp, prigioniero della tormenta, ha una visione onirica e tragica sul destino dell’uomo. I personaggi fanno parte di una variopinta “fauna umana” che si aggira nel Sanatorio: dal “consigliere aulico” Behrens alla enigmatica Claudia, al pedagogo Settembrini, al terribile Naphta, al protagonista Hans Castorp nel suo straordinario viaggio di iniziazione umana e culturale e più di ogni altro a Joachim, il cugino di Hans ed a Mynheer Peeperkorn. Il primo, commovente esempio di incrollabile attaccamento e fede nella propria missione umana nella sua semplicità e estrema dignità ed umiltà, rappresenta un tipo umano sempre più raro. Il secondo, la personalità Peeperkorn… che si fa amare perché incita al sorriso per le sue espressioni stereotipate. Poi Hans, all’apparenza poderoso e dominante, crolla travolto dai suoi sentimenti e dalla incapacità di suscitare la passione di Claudia e pone fine con il veleno alla propria esistenza.

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